Archive for the ‘Varie ed eventuali’ Category

Etimologie insensate e dove trovarle – ode alla terra piatta

mercoledì, Luglio 31st, 2019

“L’etimologia è l’omeopatia della linguistica”

Docente di filosofia del pensiero linguistico (2014)

 

Se avete letto uno qualsiasi degli articoli di questo blog ormai lo sapete: la lingua è politica. E su questo non vi tedio oltre. Finora, però, vi ho presentato una serie di casi dove la politica dietro l’uso della lingua si manifestava in maniera abbastanza eclatante (vedi pianificazione linguistica, genere, e analisi conversazionale). Più sottile è invece l’uso che si è fatto di strumenti di analisi linguistica al fine di stabilire connessioni tra lingue e supportare teorie politiche quasi sempre razziste e nazionaliste. Se opporsi all’uso degli asterischi è un segnale abbastanza evidente perlomeno dell’esistenza di una posizione politica, la linguistica storica e i suoi strumenti di analisi possono invece essere usati in maniera molto più subdola e passare le proprie elucubrazioni come “fatti oggettivi”.

Nei secoli, tramite la linguistica, si è cercato di dare risposta a domande che non aveva neppure senso porsi. Domande in apparenza innocenti che sono alla base di idee (cripto)razziste, alcune in vigore ancora oggi: il tedesco è una lingua efficiente mentre le lingue romanze sono decadenti; il sami è derivato dal mongolo per cui i suoi parlanti non sono svedesi e possono essere discriminati; il russo è più scientifico delle lingue centro asiatiche e quindi possiamo anche lasciarle estinguere; ma non sarebbe meglio che tutti al mondo parlassero la stessa lingua?! (NO!).

Quando fatta (intenzionalmente) male, la linguistica storica ha fatto dei danni grossi, permettendo a fautori di politiche nazionaliste e colonialiste di trovare supporto alle proprie idee e di spacciare questo supporto come “oggettivo”. Oggi chi si occupa di linguistica in maniera seria non utilizza più il termine “oggettivo” con tanta prodigalità, e la disciplina è attenta a non lasciare che i dati scientifici vengano usati per scopi non etici. Siamo diventate più brave a capire le motivazioni politiche dietro ricerche apparentemente innocue (e siamo diventate più furbe nel modo in cui ignoriamo le contraddizioni).

Nel mio mondo ideale, chiunque studi qualsiasi tipo di materia dovrebbe essere consapevole del fatto che niente è oggettivo e ogni scoperta scientifica è politica, ma questa è un’altra storia.

 


Perché l’etimologia?

L’etimologia è quel campo della linguistica che studia l’origine di una parola e la sua evoluzione nella forma e nel significato. Il termine deriva dal greco etymos “intimo significato della parola” e logos “studio” (questo l’ho scritto solo per poter dire che ho fatto una meta-etimologia). L’etimologia è una scienza complessa, che richiede la conoscenza di svariati altri campi della linguistica e della storia, insieme alla capacità di fare ricerca storica su materiali d’archivio. Quando è fatta bene, l’etimologia è molto utile per svariate ragioni, non ultima la possibilità di rompere il ghiaccio alle feste snocciolando trivia o allontanare scocciatori annoiandoli a morte.

Spesso e volentieri, però, l’etimologia non è fatta bene, e in questi casi ci regala sudori freddi o grasse risate (a seconda che stiate leggendo giustificazioni del nazismo o del terrapiattismo). Dato che le teorie linguistiche tirate in ballo per giustificare le peggio stronzate sono la mia personale tana del Bianconiglio, ho deciso che voglio condividere con voi quattro lettori (questo l’ho scritto solo per poter dire che ho letto Manzoni) le scoperte che faccio quando cerco di non lavorare.

Oh, sia ben chiaro che io qui non sto parlando di etimologia popolare, che è quel processo per cui i parlanti di una lingua cercano di trovare la motivazione dietro ad un termine altrimenti oscuro appoggiandosi alla sua somiglianza con altre parole (es. da Maleventum “luogo ricco di mele” si passa a Benevento una volta reinerpretato male- come termine indicante qualcosa di negativo). Io sto parlando di casi in cui l’etimologia è fatta male e da individui che la usano per supportare teorie stupide e/o discriminatorie. Casi che faranno risvegliare il grammatico prescrittivista che è in voi.

 

Dedico questa intera rubrica a B. e L., gli unici due che potrebbero apprezzarla


 

Ode alla terra piatta

Delle 200 ragioni tirate in ballo per spiegare per quale motivo la Terra è piatta, la più meravigliosa è la numero 120. In un volo così ardito che neppure Pindaro si sarebbe mai immaginato di farlo, il nostro eroico Eric Dubay (yogi, guru, fisico in erba, scrittore, e investigatore dedicato a svelare la cospirazione della terra tonda) ci dice che una fondamentale prova in favore della terra piatta risiederebbe nella lingua.

Ricostruendo una complicata catena di prestiti linguistici e adattamenti fonetici si arriva finalmente a svelare l’arcano. I passaggi da fare sono più o meno i seguenti: l’inglese planet (“pianeta”) deriva dall’antico inglese (V-XII sec.) planete, che a sua volta è stato derivato dall’antico francese planete. La forma francese antica è entrata nella lingua dal latino planeta, dove è derivata dal greco planetes, creata per sineddoche dalla locuzione asteres planetai (“stelle vagabonde”). Il greco è derivato da planashtai di origine incerta, forse proto-indoeuropeo *pele (“piatto, spalmare”).

Ing. planet “pianeta” > Ing. ant. planete > Fr. ant. planete > Lat. planeta >

Gr. planetes > Gr. asteres planetai > ? planashtai > PIE *pele “piatto”

Non solo: il nome inglese plane (“superficie piatta”), deriva dal latino planum, e ci hanno solo aggiunto una -t per cambiargli significato (sveglia!!!!).

Due considerazioni sono a questo punto ovvie e necessarie:

  1. il fatto che due termini siano simili (cf. piano e pianeta) NON significa che siano derivati necessariamente dalla stessa radice e che il loro significato sia collegato.
  2. il significato dei termini cambia nel tempo, non necessariamente aggiungendo un significato sopra l’altro come una specie di torre che ne conservi ogni singolo passaggio nel tempo

Un preoccupante numero di persone crede che ci sia un qualche tipo di significato profondo ed esoterico nascosto nella lingua, che questo significato possa essere svelato tramite l’etimologia e che possa confermare l’esistenza di profonde competenze che gli antichi avevano e noi non abbiamo più. Non siate quelle persone. Non fate rivoltare Eratostene nella tomba.


Qui il testo originale:

120) “The etymology of the word “planet” actually comes from late Old English planete, from Old French planete (Modern French planète), from Latin planeta, from Greek planetes, from (asteres) planetai “wandering (stars),” from planasthai “to wander,” of unknown origin, possibly from PIE *pele “flat, to spread” or notion of “spread out.” And Plane (n) “flat surface,” c. 1600, from Latin planum “flat surface, plane, level, plain,” planus “flat, level, even, plain, clear.” They just added a “t” to our Earth plane and everyone bought it.

Qui quello che i linguisti hanno da dire in merito su Reddit.

La presunzione della percezione e l’imperfezione del linguaggio

mercoledì, Giugno 26th, 2019

Riceviamo questo bell’articolo da Francesca, che ci spiega come le nostre percezioni si traducono in linguaggio.


Nella nostra vita quotidiana, la comunicazione sembra essere uno degli aspetti più ovvi. Comunichiamo automaticamente, senza rendercene conto, seguiamo le regole di una grammatica che abbiamo appreso gradualmente fin da piccoli, grazie all’esposizione linguistica e all’insegnamento. Ma sappiamo davvero di cosa parliamo?

Nel corso della nostra evoluzione, abbiamo sviluppato l’abilità di comunicare attraverso dei segni, parlati e scritti, che si sono man mano evoluti: gli uomini delle caverne iniziarono a comunicare con la gestualità per indicare i primi oggetti, finché lo sviluppo fisiologico dell’apparato fonatorio e del cervello non ha permesso loro di formulare i primi suoni articolati, di dotarli di senso e infine di pronunciare interi discorsi. Insomma, noi umani disquisiamo delle cose che ci circondano da centomila anni e assegniamo loro dei nomi. Eppure spesso parliamo di cose che non conosciamo davvero. “Comunicare” significa proprio “rendere comune, far conoscere”. Quindi far conoscere cosa?

Grazie a noti linguisti e filosofi come Saussure, Frege e Wittgenstein, sappiamo che i segni, per essere definiti tali, devono poter rimandare a un qualcos’altro, altrimenti la comunicazione non avrebbe senso. Wittgenstein, nel suo Tractatus Logico-Philosophicus (Logisch-Philosophische Abhandlung, 1921), sostiene che i segni rappresentano adeguatamente una porzione di realtà. Questo perché, attraverso i sensi, ognuno di noi va direttamente a contatto con oggetti del mondo circostante e, nel momento in cui intende comunicare quel che ha visto, odorato o toccato, si serve di segni che possano sostituire quella percezione data dall’oggetto che, nel frattempo, si è già immagazzinato nella nostra mente sotto forma di concetto. Per fare un esempio, quando assaggiamo una pietanza mai mangiata prima, il nostro cervello, come un computer, immagazzina l’informazione puramente astratta di quel gusto che abbiamo percepito, e quando ci capita di gustare di nuovo quella pietanza, il nostro ricordo viene ripescato e rinnovato. Ebbene, quando cerchiamo di descrivere a qualcun altro il gusto di quella determinata pietanza, ripeschiamo l’informazione custodita nel nostro cervello e cerchiamo di tradurla in segni. Entra così in gioco la comunicazione: il concetto nella nostra mente si elabora in un’immagine sonora che viene concretizzata dal nostro apparato fonatorio, il quale non fa altro che “leggere ad alta voce quest’informazione”. È come se un amico ci chiedesse di cosa sappia il gelato al limone e nel nostro cervello, per reazione, tanti omini andassero a ripescare nell’archivio il documento “gusto del gelato al limone”, lo trascrivessero immediatamente su un foglio e lo dessero al nostro apparato fonatorio, che inizierebbe a leggere la descrizione di questo gusto, ovviamente nella lingua nota a noi e al nostro interlocutore.

Ma se “de gustibus non disputandum est”, come può essere tradotta esattamente e oggettivamente una tale percezione in parole? In questo caso, la nostra comunicazione non farebbe conoscere la realtà del gusto di quel gelato, bensì l’impressione soggettiva che noi abbiamo di quel gusto. Quindi è come se non sapessimo effettivamente di cosa stiamo parlando, perché non sappiamo cosa sia oggettivamente “il gusto del gelato al limone”, nonostante abbiamo vissuto l’esperienza. Sappiamo cosa sia ma solo attraverso un filtro soggettivo, il quale “inquina” l’oggettività della sensazione.

Qui entra in gioco il secondo Wittgenstein. Nelle Ricerche filosofiche (Philosophische Untersuchungen, 1953), il nostro studioso corregge la sua precedente teoria: è il modo d’uso della parola a rivelare l’oggetto che essa designa, non la parola stessa. Il modo in cui intrecciamo il contesto con la parola costruisce l’oggetto a cui ci riferiamo. Ovviamente questi modi di presentare gli oggetti variano da contesto a contesto, da cultura a cultura. L’insieme di questi modi formano quelli che Wittgenstein chiama “giochi linguistici”, procedimenti linguistici convenzionali e situazionali in continuo mutamento, acquisiti appieno dalla comunità linguistica che li usa. Un po’ come quando si gioca a briscola: una volta imparate le regole, i gesti diventano automatici. Proprio questi fattori rendono il linguaggio e ciascuna lingua malleabile a sufficienza da permettere di discutere anche di qualcosa che non si conosce a fondo.

Si evince così che sia la soggettività della percezione sia l’imperfezione del linguaggio vincolano l’uomo, le sue azioni e la sua stessa conoscenza.

A questo punto, il nostro parlante, per scoprire di cosa sappia il gelato al limone del suo amico, potrebbe scegliere fra due possibilità: o ricorrere all’esperienza attiva e diretta, assaggiare il gelato ed immagazzinarne nella sua mente il gusto, percezione che sarà comunque unica e incomunicabile, se non parzialmente comunicabile; oppure accontentarsi passivamente della spiegazione soggettiva ed imprecisa dell’amico, entrando nel suo stesso gioco linguistico e avvicinandosi il più possibile al senso di quella percezione.

L’esempio del gusto del gelato è uno dei tanti giochi linguistici che si presentano nel nostro vivere quotidiano. L’autonomia dell’individuo nel suo percorso di conoscenza sta nel cercare un senso che vada oltre il gioco linguistico proposto da altri (specialmente per sfuggire all’eloquenza), o ancora crearne uno da sé.

 

Francesca Grisolia

 


Riferimenti bibliografici

T. De Mauro, Capire le parole, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino, 2009

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Einaudi, Torino, 2009

G. Graffi, Due secoli di pensiero linguistico, Carocci, Roma, 2010

 

 

 

La posta del cuore di Stalin

domenica, Luglio 23rd, 2017

 

Si è rivolto a me un gruppo di giovani compagni, chiedendomi di esprimere sulla stampa la mia opinione a proposito delle questioni relative alla scienza del linguaggio, particolarmente in riferimento al marxismo nella linguistica. Non sono un glottologo, e non posso, naturalmente, soddisfare completamente questi compagni. Ma, per quanto riguarda il marxismo nella linguistica, come nelle altre scienze sociali, questo è un tema con il quale ho un legame diretto. Ho quindi acconsentito a rispondere a una serie di domande rivoltemi da questi compagni.

Stalin, Il marxismo e la linguistica

 

Nel 1950 Stalin pubblica un pamphlet dal titolo “Il marxismo e la linguistica” per esporre le proprie teorie circa il linguaggio e tutti i vari annessi e connessi. Il testo presenta tutti gli stilemi tipici della produzione staliniana e in particolare salta all’occhio l’incipit: l’autore finge sempre infatti di ricevere lettere da compagni alle quali risponde certosinamente esponendo la propria teoria politica sull’argomento del momento. L’artificio retorico è semplice ma parecchio efficace e gli permette di evitare un bel po’ di critiche e accuse sulla tranquillità con cui il nostro si mette a pontificare su argomenti a sproposito (un giorno vi parlerò dei suoi consigli d’amore).

Di linguistica Stalin scrive parecchio, ma tra tutto il materiale che ci ha lasciato questa lettera in particolare mi affascina da sempre per varie ragioni. Un po’ perché al suo interno espone in maniera del tutto tranquilla le basi di quella teoria linguistica che nell’arco del ventennio 1930-1950 ha completamente demolito il panorama multilinguistico dei territori dell’ex Unione (con tanto di deportazioni e accuse di spionaggio affibbiate a intere popolazioni). Un po’ perché la discussione di svariate pagine “può la lingua russa essere considerata reazionaria o no?” (s’apra il dibattito) contiene risposte a domande che non sapevate neppure di voler porre. Un po’ perché “non so nulla di quello di cui sto per parlare ma permettetemi di spiegarvelo” è un’introduzione meravigliosa.

Quello che conta, comunque, è il fatto che Stalin nell’URSS del 1950 pensi sia doveroso dare una direzione al dibattito sulla lingua. Di lingua e linguaggio parliamo tutti e ne parliamo male. Diamo una grande importanza al ruolo che la lingua ha nel dare forma alle idee del mondo che ci circonda e siamo consapevoli del fatto che l’uso delle parole non sia neutro. La lingua è rivoluzionaria e per suo tramite si combattono battaglie secolari.

Il mio tentativo di evitare il lavoro il più a lungo possibile mi ha portato a confrontarmi con alcune di queste battaglie e mentre aspetto di ricevere lettere che mi preghino di parlare di linguistica, lo faccio per conto mio.