Sciacquare i panni a Fiume – fascismo e lingua italiana

 

Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta impoverendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale.

Antonio Gramsci, Quaderno 29 dei Quaderni dal carcere

 

Come ci ricorda Gramsci, la lingua è un nodo nevralgico per ogni istituzione statale. Mettere in atto una politica linguistica solida è uno dei modi più veloci per consolidare i consensi attorno a chi detiene il potere e permette di isolare rapidamente non soltanto gli elementi già marginalizzati della società, ma anche quella parte di attivisti e intellettuali non in linea con le posizioni governative. Sembra banale, ma un’operazione semplice come il cambio di alfabeto permette di bloccare l’uso scritto di una lingua per un tempo sufficiente a rendere vano il tentativo di controinformazione delle opposizioni: l’URSS del 1938 ha ben chiaro il concetto e applica la regola disciplinatamente sull’Asia Centrale. Risultato? Più del 90% della popolazione è alfabetizzato ma assolutamente non in grado di comprendere un semplice testo risalente al periodo pre-rivoluzionario.

Fate attenzione quindi: chi vi dice che la lingua è neutra, ha qualcosa da nascondere. La lingua non è neutra per definizione, essendo essa il prodotto della stratificazione storico-culturale di un’area e di una comunità, e i grammatici più intransigenti (quelli che si fanno venire un colpo apoplettico se gli dite la parola “petaloso” per intenderci) non sono persone che vi trovereste affianco sulle barricate. Ogni rivoluzione o contro-rivoluzione ha un lato oscuro della luna, un lato che spesso ignoriamo e che riguarda il modo in cui la lingua può essere usata come veicolo per le idee governative o può al contrario diventare sovversiva. Battaglie linguistiche ne vengono combattute ogni giorno: per vicinanza ideologica conosciamo bene la situazione del catalano, del gaelico e del curdo; meno bene conosciamo le sorti delle lingue dell’ex Unione Sovietica e probabilmente non sapremmo neppure collocare geograficamente lo shuar.

Ogni lingua è un mondo a parte, ma le strategie di controllo della produzione linguistica si somigliano tutte. A queste strategie ogni comunità resiste utilizzando tattiche diverse e diversi sono gli esiti che ne conseguono. Nel prossimo futuro mi piacerebbe sviscerare un po’ di questi casi di studio e dimostrare come la lingua possa diventare un potente strumento di resistenza del quale spesso siamo inconsapevoli.

Per entrare nel vivo della questione, partiamo da quello che è, a mio parere, un caso da manuale di politica linguistica repressiva: la lingua italiana sotto il fascismo. L’argomento è del tutto ignorato dalla storiografia anche perché l’ideologia linguistica del regno d’Italia prima e della repubblica poi non è sostanzialmente cambiata. Se l’immagine di gente che bolla i saluti romani come “ragazzata”, ma invoca colate laviche e collera celeste quando vi sente usare un termine dialettale vi è nota, continuate a leggere e scoprirete il lato oscuro della regolamentazione linguistica.

 


La pianificazione linguistica

L’operazione compiuta dal fascismo sulla lingua italiana a me è sempre parsa un esempio di pianificazione linguistica da manuale di cui ancora oggi si scontano le conseguenze ma di cui conosciamo poco o niente. Storicamente, gli studi sul rapporto tra lingua e fascismo in Italia si sono sviluppati su due direttrici: la prima ha riguardato l’analisi del livello stilistico della lingua. Per intenderci, quello che avete studiato alle superiori: le poesie futuriste, l’analisi del linguaggio dei media e il pescelunghismo di Mussolini che gli imponeva di aggiungere il suffisso -issimo ad ogni parola.

La seconda direttrice, ben più interessante, ha cercato di indagare la politica linguistica del regime. Se siete capitati su questo blog probabilmente potete citare almeno un caso di repressione linguistica ad opera del fascismo: il caso delle varietà slave in ex-Jugoslavia. Sarete però anche consapevoli del fatto che l’argomento non è particolarmente dibattuto e se per esempio in Spagna la responsabilità franchista nella repressione delle lingue locali è un dato di fatto acclarato, in Italia una riflessione sul ruolo che il fascismo ha avuto nel cristallizzare alcune politiche linguistiche manca del tutto.

Prima di continuare, però, definiamo cosa sia la pianificazione linguistica. Con questo termine si intende l’insieme delle misure adottate per modificare deliberatamente l’uso della lingua da parte di una comunità. Spesso chi mette in atto questo tipo di misure è un’autorità governativa (in questo caso, l’insieme delle misure intraprese si chiama politica linguistica), religiosa o culturale, ma anche gruppi informali possono ideare politiche di pianificazione linguistica. Questo per dire che il termine non ha una connotazione di per sé negativa e che può anzi riferirsi anche ad esperienze di resistenza linguistica piuttosto interessanti. Un esempio su tutti: la storia del termine Chicano. Nel 1960 la comunità messicana della California decide di riappropriarsi di quello che era stato fino a quel momento un insulto classista e di utilizzarlo orgogliosamente come indicatore di appartenenza comunitaria. Chicano passa dunque a segnalare una comunità che si riconosceva comunanza di tradizioni e di rivendicazioni politiche e che negli anni successivi riuscirà a ottenere significative vittorie.

Esistono tre tipi di pianificazione linguistica:

  1. la pianificazione del corpus
  2. la pianificazione dello status
  3. la pianificazione dell’acquisizione

Nel primo caso si va ad agire direttamente sulla forma della lingua e si procede alla creazione di una varietà standard. La stesura di un dizionario è un esempio semplice di questo tipo di interventi: un qualche tipo di autorità linguistica (ad esempio un lessicografo) stabilisce un elenco di termini che fanno parte del repertorio di una lingua. Tutto ciò che non compare su questa lista devia dallo standard e a meno che non siate Majakovskij o Fenoglio vi farà apparire come degli analfabeti.

Nel secondo caso si opera sulla funzione che una varietà ha all’interno della società. Un caso facile da comprendere è quello del rapporto tra dialetti e italiano standard: formalmente non c’è differenza tra i due, entrambi sono “lingue”, ma il secondo è varietà ufficiale di uno stato e i parlanti riconoscono che esistono dei contesti in cui è meglio usare questo rispetto alla varietà dialettale. Non è importante che il parlante sia d’accordo con questa differenza d’uso: molti la rispettano pur essendo orgogliosi della propria varietà regionale e tanto basta. Questo significa che NO, l’affermazione “il [varietà linguistica X] è una lingua e non un dialetto” non ha senso e potete finalmente smettere di usarla.

Nel terzo caso ci si riferisce all’insieme dei processi intrapresi da un governo per incentivare l’acquisizione di una lingua. Un esempio è la politica dell’UE che prevede che nelle scuole di ogni stato membro si studi almeno una lingua ufficiale in un altro degli stati membri. La prossima volta che vi lamentate perché avete dovuto studiare l’inglese, pensate che poteva capitarvi l’ungherese.

La politica linguistica del ventennio si concentra soprattutto sugli interventi del primo tipo, andando a lavorare sulla standardizzazione della lingua italiana. Anche se non mancano interventi repressivi nei confronti delle minoranze linguistiche (classificabili come esempi di secondo e terzo tipo) e propaganda contro l’uso del dialetto (secondo tipo). Gli interventi mirano a raggiungere quattro obiettivi:

  1. l’eliminazione dall’uso corrente dei termini di origine straniera
  2. il rifiuto del dialetto
  3. la repressione delle minoranze linguistiche
  4. la sostituzione del pronome di cortesia “lei” con il “voi”

Nelle prossime settimane cercherò di dettagliare meglio i quattro punti su cui si articola la pianificazione linguistica fascista. Intanto se volete un assaggio delle vette di demenzialità raggiunte, vi consiglio il documentario Me ne frego! – Il fascismo e la lingua italiana di Vanni Gandolfo e Valeria Della Valle. E non vi venga in mente di sottovalutare la virile prestanza del “voi”!

 


Riferimenti

[sulla politica linguistica del fascismo]

AA. VV., Parlare fascista : lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, Genova, Centro ligure di storia sociale, 1984.

Foresti, Fabio, Credere, obbedire, combattere: il regime linguistico nel Ventennio,Vol. 77, Edizioni Pendragon, 2003.

Klein, Gabriella, “L’«italianità della lingua» e l’Accademia d’Italia. Sulla politica linguistica fascista” in Quaderni storici, 1981, pagg. 639 – 675.

Klein, Gabriella, La politica linguistica del fascismo, Vol. 26, Bologna, Il Mulino, 1986.

Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana, dir. Vanni Gandolfo, Istituto Luce Cinecittà, 2014.

[per un’introduzione alla pianificazione linguistica e presentazione di alcuni casi di studio]

Iannàccaro, Gabriele, e Vittorio Dell’Aquila, La pianificazione linguistica: lingue, società e istituzioni, Carocci, 2004.

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