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Riconciliare #MeToo e la lotta al carcere

giovedì, Luglio 18th, 2019

Foxfire – Cattive ragazze

Riprendendo il filo del discorso sul genere, un interessante contributo statunitense al tema dell’antisessismo anticarcerario.Non vi sto a rispiegare che la linguistica è inerentemente politica che già mi sembra di averci speso su parecchie righe.

L’articolo originale è stato pubblicato su Filtermag il 25/09/2018 e può essere reperito qui. Per ogni possibile errore di traduzione faccio mea culpa.

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Nel 2001 INCITE! Women of Colour Against Violence1 e Critical Resistance, organizzazione per l’abolizione del carcere, scrivevano queste parole: “Chiediamo ai movimenti di giustizia sociale di sviluppare strategie e analisi che affrontino sia la violenza statale che quella interpersonale, in particolare quella contro le donne. Attualmente, gli attivisti e i movimenti che affrontano il problema della violenza di stato (come gruppi anti-carcere e anti-polizia) spesso non entrano in comunicazione coi movimenti che si occupano di violenza domestica e sessuale”.

Gli ultimi 17 anni hanno visto un aumento di gruppi per l’abolizione del carcere. In netto contrasto con i sostenitori della riforma carceraria, che spingono per un miglioramento delle condizioni carcerarie, ma ritengono che le carceri siano in definitiva necessarie per garantire la sicurezza sociale, gli abolizionisti accusano le prigioni di essere luoghi di violenza che non potranno mai essere adeguatamente riformati. Le carceri devono essere eliminate; così come le condizioni che mandano le persone in prigione, inclusi razzismo, povertà e tutte le condizioni che possono portare alla violenza.

Grande assente in molte delle conversazioni sull’abolizione del carcere rimane, tuttavia, il discorso su come affrontare la violenza di genere senza fare affidamento su carcere e polizia. Al contrario, molte delle più importanti organizzazioni che combattono la violenza sessuale e domestica continuano a fare affidamento sul sistema carcerario. All’indomani della condanna a sei mesi inflitta a Brock Turner, studente bianco di Stanford che ha violentato una donna priva di conoscenza, svariati gruppi femministi si sono detti indignati per la brevità della sentenza e hanno chiesto la rimozione del giudice in carica al processo.

Allo stesso modo, man mano che crescevano le accuse contro Harvey Weinstein e Bill Cosby, le richieste di giustizia avevano sempre come obiettivo finale l’arresto e il carcere. Non si è riusciti a riconoscere che pene detentive più lunghe e severe sono sempre state comminate ai membri delle comunità di colore, senza che ciò prevenisse in alcun modo la violenza di genere.

Questo affidamento alle politiche di criminalizzazione rafforza la violenza di stato, che non solo è perpetrata in maniera schiacciante su uomini neri, latini e poveri, ma soprattutto rinforza un sistema che punisce le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali, anche quando queste sono vittime di violenza. Un esempio è il caso di Marissa Alexander, una madre della Florida inizialmente condannata a 20 anni di carcere per aver sparato un colpo di avvertimento al marito violento che la stava per aggredire. Un altro è il caso di Ky Peterson, transessuale nera che sta scontando una pena di 20 anni per aver ucciso l’uomo che la aveva violentata.

Come siamo arrivati alla separazione di questi due movimenti?

Nel 1994, il Congresso approva il Violence Against Women Act (VAWA), che obbliga la polizia a rispondere alle denunce di violenza sessuale, domestica, e altre violenze di genere. Questo è stato il risultato di anni di cause legali e attivismo di molte organizzazioni femministe che volevano costringere le forze dell’ordine a dare una risposta alla violenza di genere, piuttosto che ignorarla in quanto questione interpersonale. In molte giurisdizioni, il VAWA è stato implementato tramite leggi sull’arresto obbligatorio e pene detentive più lunghe. Ha inoltre portato alla politica del “doppio arresto”, per la quale la polizia può arrestare entrambe le persone coinvolte in un episodio di violenza di genere. Alcune giurisdizioni possono trattenere le vittime in quanto testimoni e minacciare multe e arresti se queste non cooperano con la procura. (La città di Columbus, in Georgia, ha cambiato questa sua politica dopo una causa intentata da Cleopatra Harrison, vittima di abusi, e dal Southern Centre for Human Rights).

“Femminismo carcerario” è il termine spesso usato per descrivere questo affidamento all’idea che un rafforzamento della polizia, l’inasprimento delle pene e la reclusione siano la soluzione primaria alla violenza di genere. In linea di massima, il femminismo carcerario considera le soluzioni alla violenza di genere attraverso il punto di vista della borghesia bianca e non considera come fattori quali razza, classe, genere e status di cittadinanza si possano intersecare, lasciando alcune donne più vulnerabili alla violenza, inclusa quella dello stato.

Parallelamente, il numero delle donne incarcerate è aumentato vertiginosamente. Nel 1980, le prigioni statunitensi detenevano 25.450 donne; 10 anni dopo, quel numero è quasi triplicato salendo a 77.762. Nel 2000, la cifra raddoppia di nuovo giungendo a 156.044 e oggi continua a crescere. A partire dal 2017, le detenute sono circa 209.000. (Questi numeri non includono le donne detenute nei centri di detenzione per migranti e nei penitenziari giovanili, né le transessuali detenute in penitenziari maschili). Almeno la metà delle detenute ha denunciato di aver subito violenze ancora prima dell’arresto.

È anche vero che quasi il 90% delle persone incarcerate sono uomini (o classificati come tali). Ma non tutte le attiviste femministe e anti-violenza hanno adottato la soluzione carceraria. Per anni, attiviste come Beth Richie e collettivi come INCITE!, hanno sottolineato come l’aumento della criminalizzazione sostituisca la violenza di forze dell’ordine, tribunali e prigioni a quella individuale, mentre non fa nulla per affrontare alla radice le cause della violenza di genere. Lo abbiamo visto nei casi di Marisa Alexander, Ky Peterson e innumerevoli altre donne e transessuali.

Nessuno sa quante migliaia di vittime di violenza sono dietro le sbarre perché le forze dell’ordine non sono riuscite a garantire la loro sicurezza. Questo perché nessuna agenzia tiene traccia di questi dati. Le statistiche più recenti hanno quasi 20 anni e provengono da un rapporto del Dipartimento di Giustizia del 1999 che affermava che quasi la metà delle donne detenute nelle prigioni statali e federali erano state vittime di abusi prima del loro arresto. Ma, poiché le donne costituiscono solo il 10% della popolazione carceraria della nazione, molte delle conversazioni sull’incarcerazione di massa e sull’abolizione del carcere continuano a riguardare solo gli uomini. Questa interpretazione dei fatti porta a un falso binarismo in cui gli uomini sono sono sempre incarcerati e le donne sempre vittime. Questa suddivisione emargina le persone (di qualsiasi genere) vittime di violenza relazionale e di stato e non riesce a rispondere ai loro bisogni.

Ho intervistato numerose vittime di violenza domestica che sono state incarcerate per essersi difese. Tutte riferiscono che si sono rivolte alla polizia e al sistema legale, e che entrambi non sono riusciti a proteggerle. A volte la polizia ha allontanato il loro aggressore per alcuni giorni, ma ciò non ha fermato la violenza. A volte i tribunali hanno emesso un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore ha palesemente ignorato. A volte la polizia non ha fatto nulla. A volte l’aggressore era parte della polizia stessa. Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggerle come vittime, le ha poi punite per essere sopravvissute alle aggressioni. In carcere, molte di queste vittime sono oggetto di violenza, sia per mano di altri detenuti, che da parte dei membri dello staff o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane.

Al tempo stesso, le organizzazioni anti-carcere continuano a riflettere l’incapacità della società in generale di prendere in considerazione i cambiamenti sociali e culturali necessari a porre fine alla violenza di genere, o di sviluppare modi concreti per prevenire e affrontare il problema della violenza sessuale e domestica nella vita quotidiana.

Secondo Hyejin Shim “i due movimenti non hanno mai realmente comunicato”. Shim lavora con comunità che si collocano all’intersezione tra violenza di genere e violenza di stato, in quanto membro dello staff dell’Asian Women’s Shelter e militante di Survived and Punished, gruppo auto-organizzato che si occupa di dare sostegno alle detenute incarcerate in conseguenza di episodi di violenza di genere. Sebbene gli sforzi per porre fine alla violenza di genere e l’abolizione del carcere siano spesso considerati incompatibili, Shim osserva che “entrambi si concentrano sul porre fine alla violenza”, che questa provenga dallo stato, da un indivudo, o da entrambi.

Giustizia trasformativa

Un modo alternativo per affrontare la violenza interpersonale senza fare affidamento sulla violenza di stato è attraverso la giustizia trasformativa. Il termine si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della vittima, ma anche le condizioni che hanno permesso la violenza. In altre parole, invece di astrarre gli atti di violenza dal contesto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare per far sì che ciò non accada mai più? Che cosa serve alla vittima per guarire?”. Non c’è una serie di passi giusti o sbagliati nella giustizia trasformativa: ogni processo dipende dalle persone e dalle circostanze.

Shim ci tiene a sottolineare che le persone spesso già si impegnano in processi di giustizia trasformativa, anche se non usano necessariamente questo termine. Ci si unisce per sostenere le vittime all’interno dei nostri spazi, aiutandole a identificare ciò di cui hanno bisogno e come accedervi. Shim sottolinea tuttavia che questo tipo di capacità è spesso sottovalutata all’interno dei gruppi e osserva come “all’interno dei nostri spazi sappiamo come organizzare un’azione diretta, ma spesso non siamo in grado di mediare un conflitto tra i membri o di dare supporto a una vittima di violenza”. In un momento in cui grazie a #MeToo sempre più persone stanno denunciando le proprie esperienze come vittime di violenza sessuale o domestica, “noi non siamo stati in grado di creare una rete di supporto adeguata”.

I movimenti anti-violenza hanno sviluppato alcune risorse per colmare queste lacune. Creative Interventions, un’organizzazione dedicata a fornire a “persone comuni le risorse per porre fine alla violenza”, ha pubblicato online una guida di 608 pagine sulle strategie per fermare la violenza di genere. Gli attivisti (e vittime di abusi) Ching-In Chen, Jai Dulani e Leah Lakshmi Piepnza-Samarasinha hanno compilato una zine (ora un libro) di 111 pagine intitolata The Revolution Starts at Home (“La rivoluzione comincia da casa”), che raccoglie una serie di casi in cui alcuni gruppi hanno obbligato i colpevoli di violenza ad assumersi la responsabilità di ciò che avevano fatto.

Un esempio è quello di un centro comunitario coreano di Oakland, in California, che ha gestito un episodio di violenza sessuale reso ancora più complicato da fattori culturali.

Nell’estate del 2006, il centro di Oakland aveva invitato dalla Corea del Sud un insegnante di percussioni perché tenesse un laboratorio di batteria di una settimana. Una notte, l’insegnante ha aggredito sessualmente una studentessa. Il centro ha deciso di gestire il processo iniziando con una telefonata immediata al centro di percussioni in Corea. E anche se “è stato culturalmente difficile per il gruppo coreano americano avanzare richieste agli anziani in Corea, tutti hanno deciso che era quello che andava fatto”.

Dopo che l’istituzione coreana si è assunta la responsabilità e si è scusata, il centro di Oakland ha inviato una lista di richieste, tra le quali figuravano l’obbligo per i membri del gruppo in Corea di partecipare a dei laboratori sulla violenza di genere, l’impegno a inviare almeno un’insegnante donna nei successivi scambi culturali con il gruppo negli Stati Uniti, e la richiesta che l’aggressore sospendesse la propria partecipazione al gruppo per almeno sei mesi e seguisse delle sessioni di terapia con un gruppo femminista di modo da riflettere sull’aggressione.

Il centro di Oakland da parte sua ha intrapreso un percorso offrendo laboratori sulla violenza di genere ai propri membri e ai membri di altri gruppi locali di percussioni, e dedicando il loro festival al tema della guarigione dalla violenza sessuale. Con il consenso della vittima, i fatti relativi all’incidente sono stati stampati nel programma “come sfida alla comunità ad assumersi la responsabilità collettiva di porre fine alle condizioni che perpetuano la violenza di genere, omertà inclusa”.

La storia non ha un finale felice: la vittima non è mai più tornata al centro; il lungo processo di riflessione sull’accaduto “ha indebolito le energie del gruppo e le amicizie che lo tenevano insieme”; l’insegnante di percussioni è tornato a partecipare ai festival in Corea del Sud, ma viene visto con risentimento e sospetto dai visitatori coreani americani. Ma quando Liz, presidente del centro, ha in seguito riflettuto sugli eventi, ha detto: “Alcune persone ci hanno chiesto perché non avessimo chiamato la polizia. Nessuno ci aveva mai neppure pensato”.

Un altro capitolo di The Revolution Starts at Home intitolato “Assumersi i rischi: strategie di assunzione della responsabilità collettiva nei gruppi auto-gestiti” fornisce un altro esempio. Le autrici, il collettivo di donne di colore Communities Against Rape and Abuse (CARA) – Alisa Bierria, Onion Carrillo, Eboni Colbert, Xandra Ibarra, Theryn Kigvamasud’Vashti e Shale Maulanaauthor – descrivono una serie di azioni intraprese da membri di una comunità punk per affrontare le aggressioni perpetrate da Lou, proprietario di un club.

Le autrici riferiscono che Lou “incoraggiava […] le donne a ubriacarsi e poi le costringeva a fare sesso contro la loro volontà”. Nelle discussioni su cosa fare, i membri della comunità “non solo hanno riflettuto sulle esperienze delle vittime, ma anche su come la cultura alternativa locale avesse sostenuto questo tipo di atteggiamento”. Ad esempio, un settimanale popolare negli ambienti underground aveva spesso parlato in modo positivo della massiccia quantità di alcolici presenti alle feste organizzate dal locale di Lou. Con il consenso delle vittime, il gruppo ha prima stampato dei volantini che identificavano l’uomo e denunciavano i suoi atteggiamenti, poi ha chiesto che la scena underground si assumesse collettivamente la responsabilità dell’accaduto, ha criticato il giornale e ha suggerito di boicottare il club.

In risposta, il giornale ha pubblicato un articolo che difendeva l’uomo, lasciando intendere che, dal momento che le vittime non avevano sporto denuncia, le loro accuse non erano credibili. Lou ha minacciato di denunciarle per diffamazione. Ma la comunità punk ha continuato a lavorare con le vittime alla creazione di un documento che non solo denunciasse le loro esperienze, ma articolasse un’analisi critica della violenza sessuale e della cultura dello stupro all’interno della comunità ed esplicitasse cosa intendevano come “assunzione collettiva di responsabilità”. Hanno rilasciato la dichiarazione completa alla stampa e l’hanno pubblicata sul proprio sito web, scatenando nella comunità musicale allargata discussioni sui temi della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità. Lou non è più stato invitato a feste ed eventi, i membri della scena locale hanno iniziato a boicottare il locale e le band di fuori città evitavano di suonare lì, spingendo Lou ad accettare di impegnarsi con la comunità punk e a negoziare un incontro faccia a faccia. Alla fine, comunque, non ha mai accettato di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Il gruppo ha inoltre avviato un processo di formazione sul tema della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità, imparando a gestire in proprio dei seminari su queste tematiche e supportando il CARA e altre organizzazioni anti-violenza. Scrivono le attiviste di CARA che “il passaggio critico da compiere è la decisione di costruire l’ambiente che vogliamo ci sia all’interno del gruppo, invece che sprecare tutte le energie a combattere il problema che si vuole eliminare”.

Riflettendo oggi su questo episodio, Bierria, ora attivista di Survived and Punished, ha osservato che “si è messa in campo una risposta potente a un problema di cui spesso non si vuole parlare”.

Allo tempo stesso, ha sottolineato come “assumersi collettivamente la responsabilità dell’accaduto non solo serve a chiarire le responsabilità. Ma è un meccanismo che crea all’interno dei collettivi le condizioni tali per cui questi episodi non si verifichino di nuovo”. Tutto ciò, va riconosciuto, può essere frustrante. “Spesso vorremmo una soluzione più diretta, ma la violenza di genere è più complicata di così”. Negli ultimi due decenni, lei e altri hanno lavorato contro la violenza di genere, a favore dei processi di responsabilizzazione collettiva e dell’abolizione del carcere. Hanno documentato i loro processi, creando progetti e procedure cui lei e altri attivisti non avevano accesso 20 anni fa.

Questi esempi mostrano che i processi di assunzione collettiva della responsabilità da parte del gruppo sono disordinati e raramente seguono un percorso uniforme. Spesso, tuttavia, mescolano e prendono ispirazione da una serie distinta di strumenti alternativi che includono azioni a livello comunitario e individuale. Consulenza individuale per l’aggressore, rimozione dagli incarichi in vista, ammissione di colpa, scuse pubbliche e / o private, workshop e corsi di formazione volti a favorire specifici cambiamenti comportamentali sono solo alcune delle richieste che le comunità possono fare. Indipendentemente dalle forme che assumono, continuare a esplorare alternative alla violenza di stato in risposta alla violenza di genere è un compito essenziale per quei movimenti che vogliano porre fine a entrambe.

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Victoria Law è un giornalista freelance che si occupa di carcere, genere e resistenza. È l’autrice di Resistance Behind Bars: The Struggles of Incarcerated Women. Il suo prossimo libro in uscita, Your Home is Your Prison (in collaborazione con Maya Schenwar), analizza il modo in cui alcune comuni alternative al carcere servano in realtà a supportare il processo di criminalizzazione. I suoi scritti possono essere trovati su: https://victorialaw.net/.

1INCITE! da allora ha cambiato nome in INCITE! Women, Gender Non-conforming, and Trans people of Colour Against Violence.