Archive for the ‘Lingue e minoranze’ Category

Raccontare una rivolta: lingua russa e alfabeto latino in Kazakistan

venerdì, Gennaio 28th, 2022

Gli avvenimenti del gennaio 2022 sono stati per qualcuno la prima volta che si sentiva parlare del Kazakistan in termini diversi da Borat o dall’Unione Sovietica. Nel giro di un paio di settimane il mondo ha realizzato che l’Asia Centrale non è un’entità monolitica allineata agli interessi della Russia, ma che al contrario in ogni stato si muove un complesso panorama sociale. Questo complesso panorama sociale è il motivo per cui ancora oggi è complicato affermare con certezza quale fosse la composizione di piazza delle rivolte kazake.

Ho letto parecchie buone analisi politiche sul Kazakistan (qui una di Yurii Colombo e qui la registrazione di un dibattito sul futuro del paese con Maria Chiara Franceschelli e Paolo Sorbello), ma nessuna conteneva alcun accenno alla situazione linguistica del paese. Questo silenzio mi è sembrato abbastanza stupefacente per due motivi. Il primo è legato a una questione di origine e interpretazione delle fonti. Il secondo ha a che vedere con lo specifico ruolo che la lingua kazaka, e in particolare il suo alfabeto, gioca nello scacchiere politico dell’area.

A beneficio di chi non si occupa di linguistica centro asiatica a tempo pieno, facciamo un riassunto della composizione del paese. Secondo gli ultimi dati (censimento del 2021), in Kazakistan vivono circa 18 milioni di persone, di cui il 70% circa si considera di etnia kazaka, il 20% di etnia russa, e il rimanente 10% è composto in prevalenza da persone provenienti da altri stati dell’Asia Centrale e del Caucaso. Nel 1997 una legge ha identificato russo e kazako come lingue ufficiali del paese. Se non consideriamo la possibilità che chi risponde al censimento possa non parlare né russo né kazako, nel 2007 il 26% della popolazione parlava russo, il 16% kazako, e il 58% era bilingue. Prendete questi dati con le pinze: chi ha mai lavorato con dei censimenti sa che questi sono spesso inaffidabili. Nel caso specifico della lingua, spesso non è chiaro come venga interpretata la competenza da chi compila e da chi risponde. Pensateci in questi termini: se domani vi chiedessero di indicare su un questionario statale se parlate inglese, senza darvi ulteriori informazioni, come rispondereste? Magari avete una laurea in lingua straniere e vi è stato ripetuto per anni che se non avete un livello C2 in una certificazione ufficiale allora non parlate davvero una lingua. Magari avete genitore 1 che vi parla in inglese giamaicano e voi capite tutto ma non sapete rispondere. Tirare la linea tra cosa conti come competenza linguistica e cosa no è una questione spinosa che non può prescindere da preferenze e identità individuali. Ad aggiungere ulteriore confusione c’è il fatto che le sezioni linguistiche dei censimenti sovietici (e degli stati eredi) sono state completamente ristrutturate nel tempo, e quindi i dati storici non sono esattamente comprabili a quelli odierni.

Nel 2007 l’ex presidente Nazarbayev ha dato l’avvio a una politica di trilinguismo che punta a rendere ugualmente competente in kazako, russo e inglese ogni persona educata nel sistema scolastico del paese. A 15 anni di distanza è probabile che questa politica abbia contribuito a un cambiamento delle percentuali riportate sopra. Nel 2023 il paese smetterà di utilizzare l’alfabeto cirillico e adotterà l’alfabeto latino.

Il russo come unica fonte?

Riguardo al primo punto, voglio dare il seguente caveat: questo è un blog di linguistica e capita che io mi occupi di Asia Centrale e che parli kazako. Chi ha coperto gli sviluppi della questione in tempo reale e ci ha costruito delle analisi ha fatto un lavoro incredibile e non è assolutamente mia intenzione sminuire questo lavoro. Penso che questo sia l’unico contesto in cui affrontare il problema della lingua d’origine delle fonti abbia senso. Una volta tolto il cappello da linguista mi rimetto alle analisi geopolitiche di chi ne sa più di me. Se sembra che sto mettendo le mani avanti, beh sì.

Non era necessariamente ovvio a chiunque abbia seguito gli sviluppi e i commenti sulla questione che le notizie pervenute in occidente sono arrivate quasi unicamente tramite il russo. Anche nel caso di media o attivisti kazaki, abbiamo unicamente avuto accesso al materiale prodotto o tradotto in questa lingua. Questo approccio nasce da una rappresentazione abbastanza monolitica delle culture centro asiatiche, a mio avviso abbastanza diffusa nel giornalismo e nell’accademia, ovvero dall’idea che la competenza in russo sia sufficiente ad avere una piena esperienza delle società locali. Questo approccio è storicamente sensato: la quasi totalità della produzione politica e scientifica in Asia Centrale era ed è ancora oggi prodotta in russo.

Se vi interessa monitorare l’evoluzione delle comunicazioni presidenziali sulle manifestazioni, il russo è sufficiente. Ma chiunque lavori con la popolazione kazaka sa che, se è vero che si può tranquillamente vivere nel paese parlando solo russo, è altrettanto vero che il kazako è usato molto e che alcune fasce demografiche lo preferiscono. E a maggior ragione potrebbero preferirlo in un contesto politico di questo tipo (ma ne parleremo dopo). Usare solo notizie in russo, quindi, anche quando prodotte dalla popolazione kazaka, significa scegliere di focalizzare la propria attenzione su una certa fetta demografica a scapito di altre. Questa decisione non è necessariamente un problema, e produrre un’analisi significa innanzitutto prendere una posizione. Nel caso in questione però sembra che spesso questa posizione fosse obbligata dalla mancanza di competenza in kazako e neache oggetto di critica.

La forza di un alfabeto

La questione della lingua in cui escono le notizie dal paese è relativamente banale per chi sta in occidente. Si potrebbe dire che va bene non stiamo rappresentando propriamente tutte le sfaccettature della società locale, ma comunque meglio che niente. E poi queste restrizioni sono sempre vere per chi fa giornalismo anche in relazione a paesi dove si usano lingue più studiate del kazako. Vero, ma sulla lingua kazaka negli ultimi anni si sta giocando un’importante partita politica e gli avvenimenti di gennaio 2022 hanno rinforzato questa impressione.

L’esempio più lampante del discorso politico sulla lingua kazaka arriva da Margarita Simonyan, capo redattore di Russia Today, un canale televisivo russo in lingua inglese finanziato dal Cremlino. A seguito della richiesta da parte del governo kazako di inviare le truppe dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva nel paese, Simonyan sui social un post dove elenca una serie di richieste da fare al Kazakistan come condizione per l’appoggio militare russo.

Le condizioni indicate qui sono il riconoscimento della Crimea come legittimamente parte della Russia (1), il ritorno del cirillico (2), l’ufficializzazione del russo come lingua di stato del Kazakistan (3), e la preservazione di un particolare tipo di istituzione educativa di lingua e ordinamento russi (4). Seguono altri post e rivendicazioni che non ho riportato. Per chi non si occupa di Asia centrale, il punto 2 potrebbe sembrare irrilevante, soprattutto a fronte degli sviluppi nel paese. Tuttavia, la lingua ha storicamente avuto un ruolo fondamentale nella costruzione delle entità nazionali, e la scelta di un sistema di scrittura contribuisce alla demarcazione ideologica di chi sta dentro o fuori la nazione.

In modo simile a quello dei paesi vicini, il kazako è stato scritto in caratteri arabi fino al 1929, quando il governo sovietico ha deciso di sostituire all’alfabeto arabo un alfabeto su base latina. Sulla campagna di latinizzazione degli alfabeti tradizionali delle lingue dell’Unione Sovietica ci si dovrà occupare in un altro post, ma basti sapere che nel caso delle popolazioni islamiche dell’Asia Centrale l’obiettivo del governo è quello di rompere la relazione culturale che le lega al mondo arabo. Questo viene fatto per evitare che l’Islam venga opposto ideologicamente al comunismo, dato che un sincretismo ideologico formalizzato di queste due posizioni arriverà solo con Ali Shariati dopo il ’60. Nel 1940, per fermare le rivendicazioni panturche, i sovietici cambiano ancora una volta il sistema di scrittura dell’area passando definitivamente al cirillico. Cambiare alfabeto di fatto toglie una piattaforma comunicativa ai gruppi intellettuali del paese e li isola dal resto della popolazione.

Nel 2007 l’ex presidente Nazarbayev annuncia la decisione di cambiare nuovamente l’alfabeto per tornare al latino. Questa nuove versione dell’alfabeto non è la stessa che era in uso nel 1929. A fine 2021 è stata identificata la versione definitiva che entrerà in vigore dal 2023. Nel discorso alla nazione, Nazarbayev cita a sostegno della decisione la necessità di aprire il Kazakistan alla globalizzazione: l’utilizzo di una scrittura latina faciliterà il collegamento del Paese con l’estero e l’accesso a internet. Viene anche suggerito che utilizzare un alfabeto latino incoraggerebbe l’apprendimento del kazako come lingua seconda all’estero. Saranno inoltre facilitati gli investimenti nel paese. Tutti questi argomenti, ovviamente, sono veri solo nel caso delle lingue scritte su base latina, perchè se la vostra lingua madre fosse scritta in alfabeto cirillico non avreste problemi col kazako contemporaneo. Insomma è chiaro che quando Nazarbayev parla di estero ha in mente solo alcuni interlocutori internazionali, e la lingua diventa un riferimento a questi paesi e alla loro posizione sul palcoscenico internazionale.

Il post di Margarita Simonyan ci dimostra che in Russia una certa parte della scena politica è ben consapevole del significato di questa riforma ortografica: eliminare il cirillico significa dare un colpo alla potenza culturale russa nell’area. Attenzione però a non semplificare la questione sui binari delle politiche governative. Una parte della popolazione kazaka si identifica come culturalmente e linguisticamente russa o slava: per queste persone il passaggio al latino significa una diminuzione del loro ruolo nella costruzione culturale del proprio paese. La popolazione più anziana, che è stata educata nel sistema sovietico, teme di incontrare problemi nel processo di rialfabetizzazione. Una certa parte della popolazione kazaka, inoltre, non vede necessariamente come un vantaggio l’idea di essere in maggior contatto con l’occidente, dal momento che la Cina ha grossi legami commerciali col paese. Insomma, come spesso accade in questioni di lingue nazionali, la situazione è meno chiara di quello che la politica ci vuole far credere.

1. Overtura: autarchia linguistica e guerra ai forestierismi

venerdì, Agosto 25th, 2017

 

“Oltre di questo io voglio che tu consideri, come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste coll’altre lingue; ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale converte i vocaboli ch’ella ha accattati da altri, nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano ma la disordina loro, perchè quello ch’ella reca da altri, lo tira a se in modo, che par suo”

Niccolò Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua

 

La teoria linguistica che prospera sotto il fascismo è il cosiddetto neopurismo. In controtendenza alle teorie precedenti, il neopurismo considera la lingua un fenomeno inscindibile dalla comunità che la utilizza e le riconosce un ruolo fondamentale nel normare la realtà. Allineandosi in pieno col carattere nazionalista del fascismo, questa nuova forma di purismo identifica nella lingua italiana la lingua della nazione e dichiara guerra a tutto ciò che potrebbe corromperla. Due sono i “fronti” che vengono identificati: quello interno, costituito dai dialetti e dalle lingue minoritarie parlati sul territorio, e quello esterno, ovvero i termini stranieri utilizzati nella lingua comune. Inizieremo ad analizzare questa seconda area d’azione in parte perché è il caso di studio più semplice tra i tre, in parte perché è sulla lotta ai forestierismi che si affinano le armi teoriche poi utilizzate per giustificare l’azione sulle varietà altre.

Allineandosi perfettamente all’atteggiamento protezionista in campo economico, la politica linguistica fascista prende di mira come primo obiettivo i forestierismi, ovvero i termini di origine straniera presenti nella lingua comune. All’epoca la maggior parte di tali termini era costituita da adattamenti dal francese, anche se l’inglese stava filtrando sempre più attraverso le lingue speciali (ad esempio la lingua del calcio).

A fornire una base teorica a questo processo interviene Bruno Migliorini che nel 1940 definirà il neopurismo come la “tendenza ad escludere dalla lingua quelle voci straniere e quei neologismi che siano in contrasto con la struttura della lingua, favorendo, invece, i neologismi necessari e ben foggiati”. Nell’idea di Migliorini una élite intellettuale depositaria di “buon gusto” linguistico dovrebbe assumersi l’incarico di agire sulla lingua determinando quali parole siano adatte all’italiano e quali no. Il metodo per portare a termine questo compito è un’altra invenzione di Migliorini: la glottotecnica, ovvero un procedimento che valuta le caratteristiche fonologiche e morfologiche di un termine straniero e stabilisce la sua utilità al lessico italiano. Laddove un termine si riferisca a un concetto non altrimenti espresso in italiano, si può procedere all’adattamento fonologico e morfologico e introdurlo nella lingua come neologismo. E se c’è chi, come Arrigo Castellani, difende questa metodologia esaltandone il carattere non discriminatorio in quanto basato su criteri interni alla lingua e non esterni (Castellani 1979), è pur sempre vero che gli strumenti privilegiati da Migliorini per rendere operative tali scelte rimarranno la censura linguistica e la coercizione applicate in ambito di insegnamento scolastico (Cardia 2008, pag. 50).

Il programma di bonifica linguistica dell’italiano prende avvio in sordina nel 1923 con il decreto n.352 che introduce una tassa sulle insegne straniere tra il plauso di alcuni linguisti e giornalisti, quali Tommaso Tittoni, che vedevano in questa decisione un modo per salvaguardare l’identità e il prestigio nazionale. Nel 1930 viene vietato il cinema straniero e diversi giornali cominciano una campagna in favore dell’eliminazione dei forestierismi: nel 1932 “La Tribuna” (Roma) bandisce un concorso a premi per le migliori sostituzioni di 50 parole straniere, mentre la “Gazzetta del Popolo” (Torino) nel 1933 affida a Paolo Monelli la rubrica Una parola al giorno in cui ogni giorno l’autore fornisce l’equivalenza italiana di un termine straniero di uso comune. Monelli, uno da cui perfino Migliorini prenderà le distanze definendo il suo lavoro di censura linguistica privo di obiettività (per dire), pubblicherà poi un libro dal titolo Barbaro dominio in cui raccoglie la lista di proscrizione dei termini da vietare. Il titolo è ripreso dal Principe di Machiavelli e fa riferimento in maniera polemica a un’altra opera del Machiavelli, il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in cui questi difendeva l’utilità dei forestierismi. Commentando soddisfatto il proprio lavoro, Monelli dichiarerà: “Tale campagna è stata lodata per la chiarezza fascista che l’ha animata: più bella lode non le si poteva fare” (Monelli, epigrafe a Barbaro dominio, 1933).

Nel 1934 si vieta l’uso di forestierismi nei giornali e dal 1936 in avanti, seguendo le vicende politiche italiane e complice una serrata propaganda xenofoba in seguito alla rottura delle relazioni internazionali, anche enti quali ad esempio il Touring Club Italiano vengono obbligati a sostituire il loro nome, divenuto ora Consociazione turistica italiana. Facendomi interprete del Monelli-pensiero suggerisco anche Alpinismo arlecchino incendiario e Radio temporanea mancanza di energia elettrica.

Nel 1938 il decreto n. 2172 vieta i nomi stranieri nelle insegne dei locali pubblici e l’anno dopo il decreto n. 1238 impedisce l’uso di nomi propri stranieri per i neonati di nazionalità italiana. Nel 1940 (decreto n. 2042) si proibisce l’esposizione di parole straniere in qualsiasi forma (insegne o pubblicità) e nel 1942 col decreto n. 720 l’Accademia d’Italia viene ufficialmente incaricata di stilare delle liste di sostituzioni ufficiali dei termini stranieri.

L’Accademia d’Italia (oggi Accademia dei Lincei) nomina dunque una Commissione per l’italianità della lingua, formata per metà da professori universitari e per metà di membri del direttivo del Partito Nazionale Fascista, avente il compito di valutare singoli termini e decidere se sia lecito o meno utilizzarli in italiano. Nel biennio 1941 – 1943 vengono proposte circa 1500 sostituzioni in parte pubblicate sul suo “Bollettino d’informazioni” (Klein 1986) e in parte in appendice all’ottava edizione del Dizionario moderno di Panzini (Panzini 1942). La discussione accademica su alcuni di questi termini è stata accesissima e ci ha regalato termini quali arlecchino per “cocktail”, quisibeve o taberna potoria o ber per “bar”, slancio per “swing” (il ballo) e (udite udite) ferribotto per “ferryboat”. Ma l’estro creativo non si ferma qui e va a colpire anche quei termini colpevoli di essere formati dalla giustapposizione di un sostantivo e di un aggettivo di nazionalità: è il caso per esempio dell'”insalata russa” che viene trasformata in una più patriottica insalata tricolore o della “chiave inglese” che diventa chiavemorsa (Cardia 2008, pagg. 43 – 45; Foresti 2003; Klein 1986).

Alcune importanti eccezioni sfuggono alla furia censoria fascista: secondo il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, camerata è infatti un adattamento linguistico dallo spagnolo camarada indicante una grande stanza dove soggiornavano i soldati e poi passato a indicare per metonimia il gruppo di soldati che vi alloggiavano. Non pensiate che la questione su questo termine sia banale: basta una semplice ricerca su un qualsiasi motore per entrare in un mondo inquietante, fatto di “fascisti del XXI secolo” che propongono di sostituire il termine con quirite (voi ridete ma qui si rischia di dover iniziare a usare antiquirite), e di gente che sulla traduzione del russo továrišč (товарищ “compagno”) tira in ballo delle teorie così fantasiose, che l’ipotesi che vuole il basco la lingua degli alieni al confronto è scienza.

Quasi nessuna di queste soluzioni verrà mantenuta dopo la caduta del fascismo, a parte termini quale regista e autista proposti da Migliorini, e anche la monumentale opera di un nuovo dizionario della lingua italiana a cura dell’Accademia d’Italia si interrompe alla lettera C. Ogni termine avrebbe dovuto contenere esempi d’uso tratti dalla letteratura italiana e almeno un esempio tratto da un discorso o uno scritto di Mussolini.

Secondo Nicola Cardia, la funzione della Commissione è quella di assicurasi il controllo burocratico della politica linguistica e, attraverso questa, imporsi come forza egemonizzatrice della vita culturale del paese. Il processo di normativizzazione della lingua è stato portato avanti in direzione univoca dalla classe al potere con la chiara intenzione di controllare l’accesso a questo strumento da parte delle classi socialmente più svantaggiate (Cardia 2008, pagg. 49 – 52).

A mio parere inoltre, sembra nel migliore dei casi ingenuo pensare che mostri sacri della linguistica quali Migliorini abbiano avvallato questo processo in maniera del tutto inconsapevole rispetto al contesto politico nel quale si sono trovati ad operare. Il sostegno che il fascismo ha dato a queste figure accademiche è innegabile e credo che da entrambi i lati ci fosse la consapevolezza delle ragioni per cui questa guerra agli esotismi è stata combattuta. Migliorini tornerà dalla Svizzera in Italia nel 1938, in seguito alla creazione presso l’Università di Firenze di una cattedra in Storia della lingua italiana (prima in Italia) che gli viene assegnata; e se è sicuramente innegabile che una simile disciplina ha un suo motivo di esistere separatamente dallo studio delle lingue neolatine, dovremmo essere davvero ciechi per non ammettere che l’amore spassionato per la ricerca non è il motivo per cui il  regime ha creato quella cattedra. L’opera di pianificazione fascista è stata attivamente sostenuta da grandi figure della linguistica italiana, le quali, per motivi diversi, erano genuinamente convinte della sua bontà. Non  si può studiare una politica linguistica scindendola dal contesto socio-politico in cui viene costruita e non si può di conseguenza pensare che chi ha contribuito allo sviluppo di questa pianificazione non sia conscio di tale contesto.

Per fascisti del terzo millennio e rigurgiti vari lo studio della guerra ai forestierismi e dello stile comunicativo di Mussolini riassumono più o meno l’intera politica linguistica fascista. E non per caso. Finché si tratta di fornire traduzione strampalate come ferribotto o di gonfiare il petto urlando verbi in forma infinita, non c’è molto di cui preoccuparsi. Ma il caso di studio degli esotismi è a mio parere fondamentale perché permette di spiegare in maniera efficace l’ideologia linguistica del regime. Citando Gabriella Klein: “il dibattito su questi problemi di politica linguistica ha come retroterra ideologico la vecchia questione della lingua con le sue convinzioni puristiche e nazionalistiche basate sull’equiparazione (storicamente non provata) fra lingua e nazione, fra lingua e popolo” (Klein 1986, pag. 22). L’equivalenza “una nazione = una lingua” determina conseguenze ben più gravi della lotta ai forestierismi e quando si tratterà di sradicare l’uso dei dialetti al sud Italia o di eliminare le minoranze linguistiche alpine e slave, il fascismo si muoverà in maniera molto meno goffa.

 


Riferimenti

Cardia, Nicola, “Il neopurismo e la politica linguistica del fascismo” in Ècho des ètudes romane, Vol. IX, num. I, 2008, pagg. 43 – 54.

Castellani, Arrigo, “Neopurismo e glottotecnica: l’intervento linguistico secondo Migliorini” in L’opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi, Firenze, Accademia della Crusca, 1979, pagg. 23 – 32.

Foresti, Fabio, Credere, obbedire, combattere: il regime linguistico nel Ventennio, Vol. 77, Edizioni Pendragon, 2003.

Klein, Gabriella, La politica linguistica del fascismo, Vol. 26, Bologna, Il Mulino, 1986.

Migliorini, Bruno, La lingua italiana nel Novecento. Con un saggio introduttivo di Ghino Ghinassi (a cura di Fanfani, Massimo Luca), Firenze, Casa editrice Le Lettere, 1990.

Monelli, Paolo, Barbaro dominio: processo a 500 parole esotiche, Milano, Hoepli, 1933.

Panzini, Alfredo, Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, ed. postuma a cura di A. Schiaffini & B. Migliorini con un’appendice di cinquemila voci e gli elenchi dei forestierismi banditi dall’Accademia d’Italia, Milano, Hoepli, 1942.

Raffaelli, Sergio, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945), Bologna, il Mulino, 1983.

La versione online dell’Enciclopedia dell’Italiano edita da Treccani (2011) contiene una voce dedicata al neopurismo compilata da Massimo Fanfani.

Sciacquare i panni a Fiume – fascismo e lingua italiana

giovedì, Agosto 17th, 2017

 

Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta impoverendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale.

Antonio Gramsci, Quaderno 29 dei Quaderni dal carcere

 

Come ci ricorda Gramsci, la lingua è un nodo nevralgico per ogni istituzione statale. Mettere in atto una politica linguistica solida è uno dei modi più veloci per consolidare i consensi attorno a chi detiene il potere e permette di isolare rapidamente non soltanto gli elementi già marginalizzati della società, ma anche quella parte di attivisti e intellettuali non in linea con le posizioni governative. Sembra banale, ma un’operazione semplice come il cambio di alfabeto permette di bloccare l’uso scritto di una lingua per un tempo sufficiente a rendere vano il tentativo di controinformazione delle opposizioni: l’URSS del 1938 ha ben chiaro il concetto e applica la regola disciplinatamente sull’Asia Centrale. Risultato? Più del 90% della popolazione è alfabetizzato ma assolutamente non in grado di comprendere un semplice testo risalente al periodo pre-rivoluzionario.

Fate attenzione quindi: chi vi dice che la lingua è neutra, ha qualcosa da nascondere. La lingua non è neutra per definizione, essendo essa il prodotto della stratificazione storico-culturale di un’area e di una comunità, e i grammatici più intransigenti (quelli che si fanno venire un colpo apoplettico se gli dite la parola “petaloso” per intenderci) non sono persone che vi trovereste affianco sulle barricate. Ogni rivoluzione o contro-rivoluzione ha un lato oscuro della luna, un lato che spesso ignoriamo e che riguarda il modo in cui la lingua può essere usata come veicolo per le idee governative o può al contrario diventare sovversiva. Battaglie linguistiche ne vengono combattute ogni giorno: per vicinanza ideologica conosciamo bene la situazione del catalano, del gaelico e del curdo; meno bene conosciamo le sorti delle lingue dell’ex Unione Sovietica e probabilmente non sapremmo neppure collocare geograficamente lo shuar.

Ogni lingua è un mondo a parte, ma le strategie di controllo della produzione linguistica si somigliano tutte. A queste strategie ogni comunità resiste utilizzando tattiche diverse e diversi sono gli esiti che ne conseguono. Nel prossimo futuro mi piacerebbe sviscerare un po’ di questi casi di studio e dimostrare come la lingua possa diventare un potente strumento di resistenza del quale spesso siamo inconsapevoli.

Per entrare nel vivo della questione, partiamo da quello che è, a mio parere, un caso da manuale di politica linguistica repressiva: la lingua italiana sotto il fascismo. L’argomento è del tutto ignorato dalla storiografia anche perché l’ideologia linguistica del regno d’Italia prima e della repubblica poi non è sostanzialmente cambiata. Se l’immagine di gente che bolla i saluti romani come “ragazzata”, ma invoca colate laviche e collera celeste quando vi sente usare un termine dialettale vi è nota, continuate a leggere e scoprirete il lato oscuro della regolamentazione linguistica.

 


La pianificazione linguistica

L’operazione compiuta dal fascismo sulla lingua italiana a me è sempre parsa un esempio di pianificazione linguistica da manuale di cui ancora oggi si scontano le conseguenze ma di cui conosciamo poco o niente. Storicamente, gli studi sul rapporto tra lingua e fascismo in Italia si sono sviluppati su due direttrici: la prima ha riguardato l’analisi del livello stilistico della lingua. Per intenderci, quello che avete studiato alle superiori: le poesie futuriste, l’analisi del linguaggio dei media e il pescelunghismo di Mussolini che gli imponeva di aggiungere il suffisso -issimo ad ogni parola.

La seconda direttrice, ben più interessante, ha cercato di indagare la politica linguistica del regime. Se siete capitati su questo blog probabilmente potete citare almeno un caso di repressione linguistica ad opera del fascismo: il caso delle varietà slave in ex-Jugoslavia. Sarete però anche consapevoli del fatto che l’argomento non è particolarmente dibattuto e se per esempio in Spagna la responsabilità franchista nella repressione delle lingue locali è un dato di fatto acclarato, in Italia una riflessione sul ruolo che il fascismo ha avuto nel cristallizzare alcune politiche linguistiche manca del tutto.

Prima di continuare, però, definiamo cosa sia la pianificazione linguistica. Con questo termine si intende l’insieme delle misure adottate per modificare deliberatamente l’uso della lingua da parte di una comunità. Spesso chi mette in atto questo tipo di misure è un’autorità governativa (in questo caso, l’insieme delle misure intraprese si chiama politica linguistica), religiosa o culturale, ma anche gruppi informali possono ideare politiche di pianificazione linguistica. Questo per dire che il termine non ha una connotazione di per sé negativa e che può anzi riferirsi anche ad esperienze di resistenza linguistica piuttosto interessanti. Un esempio su tutti: la storia del termine Chicano. Nel 1960 la comunità messicana della California decide di riappropriarsi di quello che era stato fino a quel momento un insulto classista e di utilizzarlo orgogliosamente come indicatore di appartenenza comunitaria. Chicano passa dunque a segnalare una comunità che si riconosceva comunanza di tradizioni e di rivendicazioni politiche e che negli anni successivi riuscirà a ottenere significative vittorie.

Esistono tre tipi di pianificazione linguistica:

  1. la pianificazione del corpus
  2. la pianificazione dello status
  3. la pianificazione dell’acquisizione

Nel primo caso si va ad agire direttamente sulla forma della lingua e si procede alla creazione di una varietà standard. La stesura di un dizionario è un esempio semplice di questo tipo di interventi: un qualche tipo di autorità linguistica (ad esempio un lessicografo) stabilisce un elenco di termini che fanno parte del repertorio di una lingua. Tutto ciò che non compare su questa lista devia dallo standard e a meno che non siate Majakovskij o Fenoglio vi farà apparire come degli analfabeti.

Nel secondo caso si opera sulla funzione che una varietà ha all’interno della società. Un caso facile da comprendere è quello del rapporto tra dialetti e italiano standard: formalmente non c’è differenza tra i due, entrambi sono “lingue”, ma il secondo è varietà ufficiale di uno stato e i parlanti riconoscono che esistono dei contesti in cui è meglio usare questo rispetto alla varietà dialettale. Non è importante che il parlante sia d’accordo con questa differenza d’uso: molti la rispettano pur essendo orgogliosi della propria varietà regionale e tanto basta. Questo significa che NO, l’affermazione “il [varietà linguistica X] è una lingua e non un dialetto” non ha senso e potete finalmente smettere di usarla.

Nel terzo caso ci si riferisce all’insieme dei processi intrapresi da un governo per incentivare l’acquisizione di una lingua. Un esempio è la politica dell’UE che prevede che nelle scuole di ogni stato membro si studi almeno una lingua ufficiale in un altro degli stati membri. La prossima volta che vi lamentate perché avete dovuto studiare l’inglese, pensate che poteva capitarvi l’ungherese.

La politica linguistica del ventennio si concentra soprattutto sugli interventi del primo tipo, andando a lavorare sulla standardizzazione della lingua italiana. Anche se non mancano interventi repressivi nei confronti delle minoranze linguistiche (classificabili come esempi di secondo e terzo tipo) e propaganda contro l’uso del dialetto (secondo tipo). Gli interventi mirano a raggiungere quattro obiettivi:

  1. l’eliminazione dall’uso corrente dei termini di origine straniera
  2. il rifiuto del dialetto
  3. la repressione delle minoranze linguistiche
  4. la sostituzione del pronome di cortesia “lei” con il “voi”

Nelle prossime settimane cercherò di dettagliare meglio i quattro punti su cui si articola la pianificazione linguistica fascista. Intanto se volete un assaggio delle vette di demenzialità raggiunte, vi consiglio il documentario Me ne frego! – Il fascismo e la lingua italiana di Vanni Gandolfo e Valeria Della Valle. E non vi venga in mente di sottovalutare la virile prestanza del “voi”!

 


Riferimenti

[sulla politica linguistica del fascismo]

AA. VV., Parlare fascista : lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, Genova, Centro ligure di storia sociale, 1984.

Foresti, Fabio, Credere, obbedire, combattere: il regime linguistico nel Ventennio,Vol. 77, Edizioni Pendragon, 2003.

Klein, Gabriella, “L’«italianità della lingua» e l’Accademia d’Italia. Sulla politica linguistica fascista” in Quaderni storici, 1981, pagg. 639 – 675.

Klein, Gabriella, La politica linguistica del fascismo, Vol. 26, Bologna, Il Mulino, 1986.

Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana, dir. Vanni Gandolfo, Istituto Luce Cinecittà, 2014.

[per un’introduzione alla pianificazione linguistica e presentazione di alcuni casi di studio]

Iannàccaro, Gabriele, e Vittorio Dell’Aquila, La pianificazione linguistica: lingue, società e istituzioni, Carocci, 2004.