Il ritorno degli asterischi assassini – di linguaggio di genere e modalità comunicative anti-autoritarie

 

“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”

Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, 5.6

 

 

Recentemente ho avuto il dispiacere di leggere l’articolo di Annick Stevens “Sul sessimo inclusivo” nelle sue versioni italiana e francese, insieme ad annessi e connessi commenti sulla questione da parte di diversi compagni (tutti maschi) di diverse sfumature politiche. L’articolo e le successive discussioni aprono un mondo di riflessioni sulle modalità comunicative che una certa parte del movimento assume quando si parla di genere, e in particolare di linguaggio inclusivo. Prescindendo dal mero contenuto del dibattito “linguaggio inclusivo sì / linguaggio inclusivo no”, mi pare che sia utile analizzare i toni di questa discussione, perché sono indicativi di un certo modo di approcciarsi alle riflessioni che non è per nulla anti-autoritario.

La questione del linguaggio è lunga e complessa, coinvolge diversi gruppi con diversi interessi in paesi diversi, e sicuramente non può essere risolta nell’arrogante articolo della Stevens, né nella posizione di comodo di chi bolla i sostenitori del linguaggio inclusivo come “borghesi benpensanti”. Io non sono grande fan degli asterischi né delle doppie desinenze, ma che chi propone queste soluzioni venga zittita e liquidata come antirivoluzionaria mi fa vollere o sang’. Prima di tutto perché questa pratica è un sistema autoritario e schifoso che dovremmo bandire dai nostri spazi, e poi perché parecchie delle critiche mosse a chi sostiene il linguaggio inclusivo sono frutto della non conoscenza del contesto che ha portato alla nascita di questo movimento, e basterebbe fare una ricerca in rete per non incappare nell’errore. Stevens (ex docente di filosofia all’Università di Liegi) evidentemente questa ricerca non la ha fatta.

 

Un po’ di storia

Prima di tutto bisogna considerare che quando parliamo di linguaggio inclusivo ci stiamo riferendo a due fenomeni distinti che vengono sovrapposti arbitrariamente: da una parte abbiamo le politiche linguistiche ufficiali e dall’altra un movimento nato dal basso. L’Accademia della Crusca (similarmente a quanto fanno altre accademie di lingua europee) ha pubblicato un manuale sul linguaggio inclusivo che riflette quelle che sono le preoccupazioni istituzionali in riguardo: “tradurre” documenti, cariche istituzionali, professioni, etc. dal genere maschile a quello femminile. Le istituzioni linguistiche si danno come obiettivo quello di normare la lingua, per cui i loro documenti hanno come unico fine la creazione di un manuale di stile (delle “istruzioni per l’uso” se preferiamo). Esempi di queste azioni sono il dibattito sulla corretta forma femminile della parola ministro o sindaco. Una volta stabilita la norma linguistica, il contributo istituzionale alla lotta contro il sessismo si esaurisce.

Dall’altra parte della barricata si muovono invece gruppi che considerano il linguaggio inclusivo come una pratica quotidiana volta ad EVIDENZIARE l’esistenza di un problema e a metterlo in discussione: l’uso della forma maschile come forma base non marcata in italiano è vissuto in maniera problematica perché rappresenta linguisticamente un fenomeno sociale, ovvero l’esistenza di una serie di condizioni storiche e sociali per cui individui di genere maschile si trovano ad essere privilegiati nella società italiana contemporanea. E a questo punto ci sono due corollari a questa riflessione che devono essere esplicitati per evitare che si levino gli scudi:

  1. Dire che il genere maschile è privilegiato non significa dire che ogni uomo, in ogni momento della sua vita, in ogni circostanza, sia privilegiato, o che goda sempre e comunque dei benefici di questo privilegio. Significa dire che a livello sociale questa è la tendenza, e che, volente o nolente, chi nasce “maschio” (con tutte le discussioni che possiamo fare su questa etichetta e su questa frase e sul non-binarismo dei generi) tende a beneficiare di questa sua condizione.Ecco questo è un punto che io trovo importante da ribadire, perché se uno sta in un movimento che si professa anti-autoritario o anti-sistemico a qualsiasi livello può non essere d’accordo con le modalità di lotta a questo fenomeno, ma non con la nozione dell’esistenza di questo fenomeno. Il sessismo NON è stato inventato negli Stati Uniti dai liberali e non si risolve alla fine della storia dopo che abbiamo risolto cose più importanti.
  2. Dire che il sessismo nella lingua italiana rappresenta un fenomeno sociale NON vuol dire credere che se eliminiamo i generi grammaticali eliminiamo il sessismo. L’idea che “il discorso è costitutivo della realtà” non è un’idea strampalata che le nazifemministe urlano in piazza, ma una teoria supportata da studi prestigiosi che può contare su un’intera corrente teoretica della linguistica (linguistica funzionale) più sul supporto di svariate altre discipline (qui ho citato alcuni autori). Il sessismo si ritrova ANCHE nella lingua italiana, e chi propone soluzioni alternative non è una fattucchiera che crede che gli asterischi elimineranno magicamente la violenza di genere, quindi basta tirare in ballo considerazioni alla Sapir-Whorf perché queste pratiche di riappropriazione linguistica hanno una storia anche al di fuori dei movimenti anti-sessisti (e in questi contesti non vengono criticate con gli stessi toni da fine del mondo).

 

Ora, se il punto 1 è ancora sostenuto da alcuni dei compagni con cui ho avuto a che fare; il punto 2 è la critica largamente più diffusa perché permette di liquidare il dibattito come se fosse il parto della mente di poche povere mentecatte che non comprendono la realtà in cui vivono. Ci tengo a sottolineare che spesso chi mantiene queste posizioni non si interfaccia con gruppi che si occupano di generi ed orientamento sessuale a nessun livello, ed è già interessante che a sostenere che il linguaggio inclusivo sia sessista siano (prevalentemente) maschi etero, perché già riusciamo a scorgere quello che è il vero obiettivo di questa critica “tecnica” (spoiler alert: le femministe cattive che in realtà non sono vere compagne™).

La terza posizione emersa dal dibattito, ovvero “io uso la parola puttana ma sono meno sessista di alcuni compagni che usano gli asterischi che invece menano la tipa”, è una stronzata e non la prenderò in considerazione per rispetto della vostra intelligenza.

 


“Del sessismo inclusivo”

L’articolo di Stevens è un perfetto esempio delle modalità di discussione della questione in vigore al momento ed è insopportabile per due ragioni: la prima è che è un lavoro superficiale e approssimativo, l’autrice infatti non ha familiarità con la linguistica come campo di studi (o perlomeno con le direzioni di ricerca degli ultimi 50 anni ormai) e non le interessa averla (ve lo ricordate Stalin sulla linguistica?). La seconda è la maniera subdola in cui Stevens costruisce il proprio argomento instillando l’idea che il linguaggio inclusivo sia il capriccio di gruppi che in realtà non sono interessati allo smantellamento delle gerarchie sociali. Questo secondo punto è particolarmente fastidioso perché anziché ingaggiare la posizione politica di questi gruppi, Stevens li marchia come “puritani”, “borghesi” e “ossessionati dalla forma più che dalla sostanza”. In questo modo chi sostiene la necessità del linguaggio inclusivo viene messa nella posizione di dover difendere la propria purezza politica per poter continuare il dibattito. Questo tipo di atteggiamento, ça va sans dire, non è né utile, né radicale, né anti-egemonico.

 

1. Le problème linguistique

Stevens (2018) basa il lato “tecnico” del suo articolo sull’idea che perché il linguaggio inclusivo sia davvero utile, dovrebbe esistere una correlazione diretta tra l’uso del maschile come plurale di default quando ci si riferisce a un gruppo misto e il livello di oppressione di genere nelle società che utilizzano questa strategia grammaticale. Questo è un argomento fantoccio. Quella che Stevens sta criticando qui è l’idea che i parlanti di una lingua possano concepire la realtà solo nei termini permessi dalla lingua che parlano (la cosidetta ipotesi di Sapir Whorf).

La derivazione logica di questa argomentazione è la stronzata che si sente dire a volte per cui dato che lingue senza genere grammaticale (Turco, Kazako, Mongolo, etc.) vengono parlate in società dove le donne non sono libere, ALLORA l’assenza di genere grammaticale non ha alcuna conseguenza sulla società. Stevens si spinge a chiedere che vengano fatti degli studi statistici cross-linguistici per dimostrare che non esiste una correlazione tra genere grammaticale e oppressione di genere. Questo tipo di richiesta avrebbe senso in un contesto in cui l’ipotesi di Sapir Whorf godesse davvero di supporto scientifico, ma dal momento che più o meno a partire dagli anni ’70 nessuno si è più sognato di sostenerla (almeno nella sua “versione forte”), concentrarsi su questo lato della questione è un modo per approcciare il problema dall’unico lato facilmente attaccabile (ovvero il lato che è già stato attaccato negli ultimi 50 anni e che è stato collettivamente superato da chi di linguistica si occupa davvero).

NESSUNA supporta l’idea che cancellare il genere grammaticale dai dizionari sistemerà in automatico ogni problema sociale, quello che viene fatto notare è il fatto che alcune dinamiche sociali si riflettono nella lingua, ma poiché l’evoluzione linguistica è arbitraria, non c’è nessuna garanzia che questa stesse dinamiche vengano espresse nella grammatica di tutte le lingue. Se il genere grammaticale esiste, è perché per qualche motivo per i parlanti di una lingua aveva senso che esistesse. Stevens convenientemente non nomina la “piccola” questione dell’arbitrarietà della lingua e capovolge i nessi di causa-effetto.

La seconda argomentazione “tecnica” introdotta nell’articolo ha senso solo per chi si è formato nell’ambito di una tradizione linguistica generativa (Chomsky, per intenderci) e si ostina a negare la dimensione sociale del fenomeno lingua. La sua posizione funziona più o meno così: dal momento che l’esistenza del maschile plurale non ha mai posto problemi prima di oggi, e dal momento che i parlanti hanno accettato questa convenzione grammaticale, allora introdurre una forma alternativa causerebbe incomprensioni. A questo punto, bisogna ricordare all’autrice due cose: 1) la lingua è un prodotto sociale, per cui può evolvere e modificarsi nel tempo; 2) l’idea che una lingua abbia bisogno di non essere ambigua per poter funzionare è fattualmente sbagliata. Ad esempio, nessun parlante nativo ha problemi a disambiguare il significato di “ancora” nelle frasi “la nave ha levato l’ancora” e “l’autrice ha detto ancora un’altra stronzata sulla lingua”. Siamo perfettamente in grado di comunicare nonostante l’ambiguità della lingua per una serie di motivi sociali, psicologici, storici, pragmatici e neurobiologici che sono stati ampiamente documentati e provati da almeno 30 anni, ma tutto questo viene convenientemente taciuto.

L’ultimo punto che vale la pena menzionare è il fatto che Stevens con il termine “scrittura inclusiva” si riferisce alla sola pratica di utilizzare le forme maschili e femminili contemporaneamente (e.g. les travaileur.euses che traduce “lavoratori e lavoratrici”). In questo modo può ignorare il fatto che esistono altre forme di linguaggio inclusivo alle quali la sua argomentazione non può essere applicata (es. l’uso degli asterischi per evitare la declinazione del nome). Criticando solo la strategia della traduzione “binaria”, Stevens può fingere che chiunque supporti l’uso del linguaggio inclusivo sia ossessionata dalla necessità di imporre il genere in ogni aspetto della società e può chiamare queste persone conservatrici e borghesi, evitando di ingaggiare la posizione politica che propongono.

In parole povere, le argomentazioni “tecniche” proposte dall’autrice sono basate su teorie linguistiche datate e dichiarano chiaramente la sua mancanza di formazione linguistica.


2. Le problème de la domination

L’unico problema che Stevens ha con il linguaggio inclusivo è politico, ma l’inserimento di un paragrafo sulla linguistica le permette di presentare la propria posizione come “oggettiva”. Fin dalle prime righe del suo articolo, i lettori sono invitati a “riflettere senza pregiudizi” sulla questione, e l’autrice sostiene di entrare nel dibattito per contrastare gli “effetti perversi” che il linguaggio inclusivo ha sulla società. Se la sua posizione ingaggiasse una critica politica, sarebbe accettabile, ma l’autrice non fa altro che presentare come “puritane benpensanti e borghesi” chiunque supporti il linguaggio inclusivo. Questo metodo comunicativo è disgustoso e autoritario, e non dovrebbe avere posto all’interno di alcun gruppo che si professi “contro il sistema”.

Per essere una che si definisce anarchica, le scelte lessicali della Stevens sono le stesse dei peggiori sostenitori dello status quo: il suo intero articolo è costruito sfruttando l’accostamento metaforico tra un movimento politico e una malattia che si espande (stessa scelta lessicale di gente come Trump ed Erdogan). La presenza del termine perverso usato per identificare un concetto che va oltre la norma che lei stessa precedentemente definisce “tradizionale” mi fa domandare cosa intenda l’autrice per “anarchia”. Nelle stesse scelte lessicali del suo articolo Stevens ci dimostra il motivo per cui la linguistica funzionale sostiene che “il linguaggio nell’uso quotidiano è costitutivo della realtà”: lei stessa non riesce a muoversi oltre le tradizionali forme espressive della lingua, e costruisce il suo saggio attingendo a una tradizione retorica che è il preciso frutto delle convenzioni sociali e storiche che la hanno generata. Al di là delle giravolte stilistiche, quello che l’autrice sta dicendo è un ritornello vecchio come l’insegnamento dell’italiano nelle scuole: “la grammatica funziona così perché ha sempre funzionato così”.

Stevens discute a livello teorico e astratto una pratica che era nata con il preciso scopo di non diventare astratta. Il linguaggio inclusivo era stato proposto da svariati gruppi attivisti per “risolvere” il fatto che molte non si sentivano rappresentate nelle narrazioni politiche quotidiane. Nessuna ha mai creduto che l’asterisco fosse la formula magica per sistemare la società, e dire che chi sostiene questa pratica non capisce i problemi che le donne affrontano nel quotidiano (Stevens 2018, p.2) è chiaramente falso. L’idea che il femminismo sia una corrente teorica che si occupa unicamente dei problemi delle donne è una posizione che deriva dal rifiuto di alcune correnti di pensiero “radicali” di ingaggiare con la letteratura prodotta da autrici femministe negli ultimi 70 anni. Nel 2018 dire che il femminismo non si occupa di razza e classe è semplicemente idiota ed è una posizione così pigra che non vale neppure la pena criticarla.

In tutto questo, neppure una volta viene nominato il fatto che alcune strategie utilizzate dal linguaggio inclusivo fossero state introdotte da movimenti non cis-gender. La critica al sessismo inclusivo viene portata avanti da un’autrice che non sente neppure una volta l’esigenza di verificare che tra chi propone questa lingua ci siano quelle stesse persone che dovrebbero beneficiare dalla sua argomentazione. Per Stevens il problema con questo tipo di linguaggio è il fatto che forza le donne a prendere atto del proprio genere in ogni situazione, e rincara la dose dicendo che in quanto donna non ha mai sperimentato traumi nell’imparare la grammatica. Inutile ricordare che è solo la sua esperienza come donna (bianca, cis-gender, accademica, probabilmente di classe sociale elevata) che conta qui; le esperienze delle donne che invece supportano il linguaggio inclusivo non contano.

L’autrice tratta le sue oppositrici come delle imbecilli che mancano di senso critico o, peggio, di interesse nello smantellare le forme egemoniche di pensiero. Cade nella trappola di considerare il femminismo bianco, conservatore e istituzionalista come unica espressione del movimento femminista e così facendo fornisce a una parte del movimento la perfetta scusa per poter continuare ad avere atteggiamenti sessisti e bollare come “capricci” ogni richiesta di maggiore considerazione avanzata dai militanti non maschi o non cis-gender.

Inutile ribadire che questa posizione politica è inaccettabile.

 

La foto è stata presa dal blog Intersezioni. Potete leggere il loro articolo qui.

 


Riassunto per chi ha di meglio da fare che leggersi il mio sproloquio per intero:

  • criticare il linguaggio inclusivo è sacrosanto;
  • discutere di quali siano i vantaggi e gli svantaggi di specifiche pratiche di linguaggio inclusivo è cosa buona e giusta (es. io preferisco usare il femminile plurale al posto dell’asterisco e trovo la”-u” al termine delle parole particolarmente fastidiosa);
  • dare delle “benpensanti borghesi” a chi lo utilizza è una pratica che non si differenzia in nulla dal repertorio linguistico del potere e che non dovrebbe avere spazio in alcun gruppo che si definisca anti-autoritario ad alcun titolo;
  • tirare in ballo la linguistica per difendere posizioni prescrittive sull’uso della lingua è in generale una pessima idea.

Tutto il resto è noia e sessismo mascherato da lotta rivoluzionaria.

 


Riferimenti

Stevens, Anneck (2018). Sul sessismo inclusivo. Disponibile nella versione italiana su Finimondo.

 

Per approfondire

Linguaggio inclusivo:

Ehrlich, S., & King, R. (1992). Gender-based language reform and the social construction of meaning. Discourse & Society, 3(2), 151-166.

Inoue, M. (2007). Language and gender in an age of neoliberalism. Gender & Language, 1(1).

Zimman, L. (2018). 18 Pronouns and Possibilities. Language and Social Justice in Practice.

Tags:

Comments are closed.