Archive for the ‘Linguaggi anti-autoritari’ Category

Riconciliare #MeToo e la lotta al carcere

giovedì, Luglio 18th, 2019

Foxfire – Cattive ragazze

Riprendendo il filo del discorso sul genere, un interessante contributo statunitense al tema dell’antisessismo anticarcerario.Non vi sto a rispiegare che la linguistica è inerentemente politica che già mi sembra di averci speso su parecchie righe.

L’articolo originale è stato pubblicato su Filtermag il 25/09/2018 e può essere reperito qui. Per ogni possibile errore di traduzione faccio mea culpa.

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Nel 2001 INCITE! Women of Colour Against Violence1 e Critical Resistance, organizzazione per l’abolizione del carcere, scrivevano queste parole: “Chiediamo ai movimenti di giustizia sociale di sviluppare strategie e analisi che affrontino sia la violenza statale che quella interpersonale, in particolare quella contro le donne. Attualmente, gli attivisti e i movimenti che affrontano il problema della violenza di stato (come gruppi anti-carcere e anti-polizia) spesso non entrano in comunicazione coi movimenti che si occupano di violenza domestica e sessuale”.

Gli ultimi 17 anni hanno visto un aumento di gruppi per l’abolizione del carcere. In netto contrasto con i sostenitori della riforma carceraria, che spingono per un miglioramento delle condizioni carcerarie, ma ritengono che le carceri siano in definitiva necessarie per garantire la sicurezza sociale, gli abolizionisti accusano le prigioni di essere luoghi di violenza che non potranno mai essere adeguatamente riformati. Le carceri devono essere eliminate; così come le condizioni che mandano le persone in prigione, inclusi razzismo, povertà e tutte le condizioni che possono portare alla violenza.

Grande assente in molte delle conversazioni sull’abolizione del carcere rimane, tuttavia, il discorso su come affrontare la violenza di genere senza fare affidamento su carcere e polizia. Al contrario, molte delle più importanti organizzazioni che combattono la violenza sessuale e domestica continuano a fare affidamento sul sistema carcerario. All’indomani della condanna a sei mesi inflitta a Brock Turner, studente bianco di Stanford che ha violentato una donna priva di conoscenza, svariati gruppi femministi si sono detti indignati per la brevità della sentenza e hanno chiesto la rimozione del giudice in carica al processo.

Allo stesso modo, man mano che crescevano le accuse contro Harvey Weinstein e Bill Cosby, le richieste di giustizia avevano sempre come obiettivo finale l’arresto e il carcere. Non si è riusciti a riconoscere che pene detentive più lunghe e severe sono sempre state comminate ai membri delle comunità di colore, senza che ciò prevenisse in alcun modo la violenza di genere.

Questo affidamento alle politiche di criminalizzazione rafforza la violenza di stato, che non solo è perpetrata in maniera schiacciante su uomini neri, latini e poveri, ma soprattutto rinforza un sistema che punisce le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali, anche quando queste sono vittime di violenza. Un esempio è il caso di Marissa Alexander, una madre della Florida inizialmente condannata a 20 anni di carcere per aver sparato un colpo di avvertimento al marito violento che la stava per aggredire. Un altro è il caso di Ky Peterson, transessuale nera che sta scontando una pena di 20 anni per aver ucciso l’uomo che la aveva violentata.

Come siamo arrivati alla separazione di questi due movimenti?

Nel 1994, il Congresso approva il Violence Against Women Act (VAWA), che obbliga la polizia a rispondere alle denunce di violenza sessuale, domestica, e altre violenze di genere. Questo è stato il risultato di anni di cause legali e attivismo di molte organizzazioni femministe che volevano costringere le forze dell’ordine a dare una risposta alla violenza di genere, piuttosto che ignorarla in quanto questione interpersonale. In molte giurisdizioni, il VAWA è stato implementato tramite leggi sull’arresto obbligatorio e pene detentive più lunghe. Ha inoltre portato alla politica del “doppio arresto”, per la quale la polizia può arrestare entrambe le persone coinvolte in un episodio di violenza di genere. Alcune giurisdizioni possono trattenere le vittime in quanto testimoni e minacciare multe e arresti se queste non cooperano con la procura. (La città di Columbus, in Georgia, ha cambiato questa sua politica dopo una causa intentata da Cleopatra Harrison, vittima di abusi, e dal Southern Centre for Human Rights).

“Femminismo carcerario” è il termine spesso usato per descrivere questo affidamento all’idea che un rafforzamento della polizia, l’inasprimento delle pene e la reclusione siano la soluzione primaria alla violenza di genere. In linea di massima, il femminismo carcerario considera le soluzioni alla violenza di genere attraverso il punto di vista della borghesia bianca e non considera come fattori quali razza, classe, genere e status di cittadinanza si possano intersecare, lasciando alcune donne più vulnerabili alla violenza, inclusa quella dello stato.

Parallelamente, il numero delle donne incarcerate è aumentato vertiginosamente. Nel 1980, le prigioni statunitensi detenevano 25.450 donne; 10 anni dopo, quel numero è quasi triplicato salendo a 77.762. Nel 2000, la cifra raddoppia di nuovo giungendo a 156.044 e oggi continua a crescere. A partire dal 2017, le detenute sono circa 209.000. (Questi numeri non includono le donne detenute nei centri di detenzione per migranti e nei penitenziari giovanili, né le transessuali detenute in penitenziari maschili). Almeno la metà delle detenute ha denunciato di aver subito violenze ancora prima dell’arresto.

È anche vero che quasi il 90% delle persone incarcerate sono uomini (o classificati come tali). Ma non tutte le attiviste femministe e anti-violenza hanno adottato la soluzione carceraria. Per anni, attiviste come Beth Richie e collettivi come INCITE!, hanno sottolineato come l’aumento della criminalizzazione sostituisca la violenza di forze dell’ordine, tribunali e prigioni a quella individuale, mentre non fa nulla per affrontare alla radice le cause della violenza di genere. Lo abbiamo visto nei casi di Marisa Alexander, Ky Peterson e innumerevoli altre donne e transessuali.

Nessuno sa quante migliaia di vittime di violenza sono dietro le sbarre perché le forze dell’ordine non sono riuscite a garantire la loro sicurezza. Questo perché nessuna agenzia tiene traccia di questi dati. Le statistiche più recenti hanno quasi 20 anni e provengono da un rapporto del Dipartimento di Giustizia del 1999 che affermava che quasi la metà delle donne detenute nelle prigioni statali e federali erano state vittime di abusi prima del loro arresto. Ma, poiché le donne costituiscono solo il 10% della popolazione carceraria della nazione, molte delle conversazioni sull’incarcerazione di massa e sull’abolizione del carcere continuano a riguardare solo gli uomini. Questa interpretazione dei fatti porta a un falso binarismo in cui gli uomini sono sono sempre incarcerati e le donne sempre vittime. Questa suddivisione emargina le persone (di qualsiasi genere) vittime di violenza relazionale e di stato e non riesce a rispondere ai loro bisogni.

Ho intervistato numerose vittime di violenza domestica che sono state incarcerate per essersi difese. Tutte riferiscono che si sono rivolte alla polizia e al sistema legale, e che entrambi non sono riusciti a proteggerle. A volte la polizia ha allontanato il loro aggressore per alcuni giorni, ma ciò non ha fermato la violenza. A volte i tribunali hanno emesso un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore ha palesemente ignorato. A volte la polizia non ha fatto nulla. A volte l’aggressore era parte della polizia stessa. Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggerle come vittime, le ha poi punite per essere sopravvissute alle aggressioni. In carcere, molte di queste vittime sono oggetto di violenza, sia per mano di altri detenuti, che da parte dei membri dello staff o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane.

Al tempo stesso, le organizzazioni anti-carcere continuano a riflettere l’incapacità della società in generale di prendere in considerazione i cambiamenti sociali e culturali necessari a porre fine alla violenza di genere, o di sviluppare modi concreti per prevenire e affrontare il problema della violenza sessuale e domestica nella vita quotidiana.

Secondo Hyejin Shim “i due movimenti non hanno mai realmente comunicato”. Shim lavora con comunità che si collocano all’intersezione tra violenza di genere e violenza di stato, in quanto membro dello staff dell’Asian Women’s Shelter e militante di Survived and Punished, gruppo auto-organizzato che si occupa di dare sostegno alle detenute incarcerate in conseguenza di episodi di violenza di genere. Sebbene gli sforzi per porre fine alla violenza di genere e l’abolizione del carcere siano spesso considerati incompatibili, Shim osserva che “entrambi si concentrano sul porre fine alla violenza”, che questa provenga dallo stato, da un indivudo, o da entrambi.

Giustizia trasformativa

Un modo alternativo per affrontare la violenza interpersonale senza fare affidamento sulla violenza di stato è attraverso la giustizia trasformativa. Il termine si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della vittima, ma anche le condizioni che hanno permesso la violenza. In altre parole, invece di astrarre gli atti di violenza dal contesto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare per far sì che ciò non accada mai più? Che cosa serve alla vittima per guarire?”. Non c’è una serie di passi giusti o sbagliati nella giustizia trasformativa: ogni processo dipende dalle persone e dalle circostanze.

Shim ci tiene a sottolineare che le persone spesso già si impegnano in processi di giustizia trasformativa, anche se non usano necessariamente questo termine. Ci si unisce per sostenere le vittime all’interno dei nostri spazi, aiutandole a identificare ciò di cui hanno bisogno e come accedervi. Shim sottolinea tuttavia che questo tipo di capacità è spesso sottovalutata all’interno dei gruppi e osserva come “all’interno dei nostri spazi sappiamo come organizzare un’azione diretta, ma spesso non siamo in grado di mediare un conflitto tra i membri o di dare supporto a una vittima di violenza”. In un momento in cui grazie a #MeToo sempre più persone stanno denunciando le proprie esperienze come vittime di violenza sessuale o domestica, “noi non siamo stati in grado di creare una rete di supporto adeguata”.

I movimenti anti-violenza hanno sviluppato alcune risorse per colmare queste lacune. Creative Interventions, un’organizzazione dedicata a fornire a “persone comuni le risorse per porre fine alla violenza”, ha pubblicato online una guida di 608 pagine sulle strategie per fermare la violenza di genere. Gli attivisti (e vittime di abusi) Ching-In Chen, Jai Dulani e Leah Lakshmi Piepnza-Samarasinha hanno compilato una zine (ora un libro) di 111 pagine intitolata The Revolution Starts at Home (“La rivoluzione comincia da casa”), che raccoglie una serie di casi in cui alcuni gruppi hanno obbligato i colpevoli di violenza ad assumersi la responsabilità di ciò che avevano fatto.

Un esempio è quello di un centro comunitario coreano di Oakland, in California, che ha gestito un episodio di violenza sessuale reso ancora più complicato da fattori culturali.

Nell’estate del 2006, il centro di Oakland aveva invitato dalla Corea del Sud un insegnante di percussioni perché tenesse un laboratorio di batteria di una settimana. Una notte, l’insegnante ha aggredito sessualmente una studentessa. Il centro ha deciso di gestire il processo iniziando con una telefonata immediata al centro di percussioni in Corea. E anche se “è stato culturalmente difficile per il gruppo coreano americano avanzare richieste agli anziani in Corea, tutti hanno deciso che era quello che andava fatto”.

Dopo che l’istituzione coreana si è assunta la responsabilità e si è scusata, il centro di Oakland ha inviato una lista di richieste, tra le quali figuravano l’obbligo per i membri del gruppo in Corea di partecipare a dei laboratori sulla violenza di genere, l’impegno a inviare almeno un’insegnante donna nei successivi scambi culturali con il gruppo negli Stati Uniti, e la richiesta che l’aggressore sospendesse la propria partecipazione al gruppo per almeno sei mesi e seguisse delle sessioni di terapia con un gruppo femminista di modo da riflettere sull’aggressione.

Il centro di Oakland da parte sua ha intrapreso un percorso offrendo laboratori sulla violenza di genere ai propri membri e ai membri di altri gruppi locali di percussioni, e dedicando il loro festival al tema della guarigione dalla violenza sessuale. Con il consenso della vittima, i fatti relativi all’incidente sono stati stampati nel programma “come sfida alla comunità ad assumersi la responsabilità collettiva di porre fine alle condizioni che perpetuano la violenza di genere, omertà inclusa”.

La storia non ha un finale felice: la vittima non è mai più tornata al centro; il lungo processo di riflessione sull’accaduto “ha indebolito le energie del gruppo e le amicizie che lo tenevano insieme”; l’insegnante di percussioni è tornato a partecipare ai festival in Corea del Sud, ma viene visto con risentimento e sospetto dai visitatori coreani americani. Ma quando Liz, presidente del centro, ha in seguito riflettuto sugli eventi, ha detto: “Alcune persone ci hanno chiesto perché non avessimo chiamato la polizia. Nessuno ci aveva mai neppure pensato”.

Un altro capitolo di The Revolution Starts at Home intitolato “Assumersi i rischi: strategie di assunzione della responsabilità collettiva nei gruppi auto-gestiti” fornisce un altro esempio. Le autrici, il collettivo di donne di colore Communities Against Rape and Abuse (CARA) – Alisa Bierria, Onion Carrillo, Eboni Colbert, Xandra Ibarra, Theryn Kigvamasud’Vashti e Shale Maulanaauthor – descrivono una serie di azioni intraprese da membri di una comunità punk per affrontare le aggressioni perpetrate da Lou, proprietario di un club.

Le autrici riferiscono che Lou “incoraggiava […] le donne a ubriacarsi e poi le costringeva a fare sesso contro la loro volontà”. Nelle discussioni su cosa fare, i membri della comunità “non solo hanno riflettuto sulle esperienze delle vittime, ma anche su come la cultura alternativa locale avesse sostenuto questo tipo di atteggiamento”. Ad esempio, un settimanale popolare negli ambienti underground aveva spesso parlato in modo positivo della massiccia quantità di alcolici presenti alle feste organizzate dal locale di Lou. Con il consenso delle vittime, il gruppo ha prima stampato dei volantini che identificavano l’uomo e denunciavano i suoi atteggiamenti, poi ha chiesto che la scena underground si assumesse collettivamente la responsabilità dell’accaduto, ha criticato il giornale e ha suggerito di boicottare il club.

In risposta, il giornale ha pubblicato un articolo che difendeva l’uomo, lasciando intendere che, dal momento che le vittime non avevano sporto denuncia, le loro accuse non erano credibili. Lou ha minacciato di denunciarle per diffamazione. Ma la comunità punk ha continuato a lavorare con le vittime alla creazione di un documento che non solo denunciasse le loro esperienze, ma articolasse un’analisi critica della violenza sessuale e della cultura dello stupro all’interno della comunità ed esplicitasse cosa intendevano come “assunzione collettiva di responsabilità”. Hanno rilasciato la dichiarazione completa alla stampa e l’hanno pubblicata sul proprio sito web, scatenando nella comunità musicale allargata discussioni sui temi della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità. Lou non è più stato invitato a feste ed eventi, i membri della scena locale hanno iniziato a boicottare il locale e le band di fuori città evitavano di suonare lì, spingendo Lou ad accettare di impegnarsi con la comunità punk e a negoziare un incontro faccia a faccia. Alla fine, comunque, non ha mai accettato di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Il gruppo ha inoltre avviato un processo di formazione sul tema della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità, imparando a gestire in proprio dei seminari su queste tematiche e supportando il CARA e altre organizzazioni anti-violenza. Scrivono le attiviste di CARA che “il passaggio critico da compiere è la decisione di costruire l’ambiente che vogliamo ci sia all’interno del gruppo, invece che sprecare tutte le energie a combattere il problema che si vuole eliminare”.

Riflettendo oggi su questo episodio, Bierria, ora attivista di Survived and Punished, ha osservato che “si è messa in campo una risposta potente a un problema di cui spesso non si vuole parlare”.

Allo tempo stesso, ha sottolineato come “assumersi collettivamente la responsabilità dell’accaduto non solo serve a chiarire le responsabilità. Ma è un meccanismo che crea all’interno dei collettivi le condizioni tali per cui questi episodi non si verifichino di nuovo”. Tutto ciò, va riconosciuto, può essere frustrante. “Spesso vorremmo una soluzione più diretta, ma la violenza di genere è più complicata di così”. Negli ultimi due decenni, lei e altri hanno lavorato contro la violenza di genere, a favore dei processi di responsabilizzazione collettiva e dell’abolizione del carcere. Hanno documentato i loro processi, creando progetti e procedure cui lei e altri attivisti non avevano accesso 20 anni fa.

Questi esempi mostrano che i processi di assunzione collettiva della responsabilità da parte del gruppo sono disordinati e raramente seguono un percorso uniforme. Spesso, tuttavia, mescolano e prendono ispirazione da una serie distinta di strumenti alternativi che includono azioni a livello comunitario e individuale. Consulenza individuale per l’aggressore, rimozione dagli incarichi in vista, ammissione di colpa, scuse pubbliche e / o private, workshop e corsi di formazione volti a favorire specifici cambiamenti comportamentali sono solo alcune delle richieste che le comunità possono fare. Indipendentemente dalle forme che assumono, continuare a esplorare alternative alla violenza di stato in risposta alla violenza di genere è un compito essenziale per quei movimenti che vogliano porre fine a entrambe.

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Victoria Law è un giornalista freelance che si occupa di carcere, genere e resistenza. È l’autrice di Resistance Behind Bars: The Struggles of Incarcerated Women. Il suo prossimo libro in uscita, Your Home is Your Prison (in collaborazione con Maya Schenwar), analizza il modo in cui alcune comuni alternative al carcere servano in realtà a supportare il processo di criminalizzazione. I suoi scritti possono essere trovati su: https://victorialaw.net/.

1INCITE! da allora ha cambiato nome in INCITE! Women, Gender Non-conforming, and Trans people of Colour Against Violence.

Il ritorno degli asterischi assassini – di linguaggio di genere e modalità comunicative anti-autoritarie

domenica, Marzo 17th, 2019

 

“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”

Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, 5.6

 

 

Recentemente ho avuto il dispiacere di leggere l’articolo di Annick Stevens “Sul sessimo inclusivo” nelle sue versioni italiana e francese, insieme ad annessi e connessi commenti sulla questione da parte di diversi compagni (tutti maschi) di diverse sfumature politiche. L’articolo e le successive discussioni aprono un mondo di riflessioni sulle modalità comunicative che una certa parte del movimento assume quando si parla di genere, e in particolare di linguaggio inclusivo. Prescindendo dal mero contenuto del dibattito “linguaggio inclusivo sì / linguaggio inclusivo no”, mi pare che sia utile analizzare i toni di questa discussione, perché sono indicativi di un certo modo di approcciarsi alle riflessioni che non è per nulla anti-autoritario.

La questione del linguaggio è lunga e complessa, coinvolge diversi gruppi con diversi interessi in paesi diversi, e sicuramente non può essere risolta nell’arrogante articolo della Stevens, né nella posizione di comodo di chi bolla i sostenitori del linguaggio inclusivo come “borghesi benpensanti”. Io non sono grande fan degli asterischi né delle doppie desinenze, ma che chi propone queste soluzioni venga zittita e liquidata come antirivoluzionaria mi fa vollere o sang’. Prima di tutto perché questa pratica è un sistema autoritario e schifoso che dovremmo bandire dai nostri spazi, e poi perché parecchie delle critiche mosse a chi sostiene il linguaggio inclusivo sono frutto della non conoscenza del contesto che ha portato alla nascita di questo movimento, e basterebbe fare una ricerca in rete per non incappare nell’errore. Stevens (ex docente di filosofia all’Università di Liegi) evidentemente questa ricerca non la ha fatta.

 

Un po’ di storia

Prima di tutto bisogna considerare che quando parliamo di linguaggio inclusivo ci stiamo riferendo a due fenomeni distinti che vengono sovrapposti arbitrariamente: da una parte abbiamo le politiche linguistiche ufficiali e dall’altra un movimento nato dal basso. L’Accademia della Crusca (similarmente a quanto fanno altre accademie di lingua europee) ha pubblicato un manuale sul linguaggio inclusivo che riflette quelle che sono le preoccupazioni istituzionali in riguardo: “tradurre” documenti, cariche istituzionali, professioni, etc. dal genere maschile a quello femminile. Le istituzioni linguistiche si danno come obiettivo quello di normare la lingua, per cui i loro documenti hanno come unico fine la creazione di un manuale di stile (delle “istruzioni per l’uso” se preferiamo). Esempi di queste azioni sono il dibattito sulla corretta forma femminile della parola ministro o sindaco. Una volta stabilita la norma linguistica, il contributo istituzionale alla lotta contro il sessismo si esaurisce.

Dall’altra parte della barricata si muovono invece gruppi che considerano il linguaggio inclusivo come una pratica quotidiana volta ad EVIDENZIARE l’esistenza di un problema e a metterlo in discussione: l’uso della forma maschile come forma base non marcata in italiano è vissuto in maniera problematica perché rappresenta linguisticamente un fenomeno sociale, ovvero l’esistenza di una serie di condizioni storiche e sociali per cui individui di genere maschile si trovano ad essere privilegiati nella società italiana contemporanea. E a questo punto ci sono due corollari a questa riflessione che devono essere esplicitati per evitare che si levino gli scudi:

  1. Dire che il genere maschile è privilegiato non significa dire che ogni uomo, in ogni momento della sua vita, in ogni circostanza, sia privilegiato, o che goda sempre e comunque dei benefici di questo privilegio. Significa dire che a livello sociale questa è la tendenza, e che, volente o nolente, chi nasce “maschio” (con tutte le discussioni che possiamo fare su questa etichetta e su questa frase e sul non-binarismo dei generi) tende a beneficiare di questa sua condizione.Ecco questo è un punto che io trovo importante da ribadire, perché se uno sta in un movimento che si professa anti-autoritario o anti-sistemico a qualsiasi livello può non essere d’accordo con le modalità di lotta a questo fenomeno, ma non con la nozione dell’esistenza di questo fenomeno. Il sessismo NON è stato inventato negli Stati Uniti dai liberali e non si risolve alla fine della storia dopo che abbiamo risolto cose più importanti.
  2. Dire che il sessismo nella lingua italiana rappresenta un fenomeno sociale NON vuol dire credere che se eliminiamo i generi grammaticali eliminiamo il sessismo. L’idea che “il discorso è costitutivo della realtà” non è un’idea strampalata che le nazifemministe urlano in piazza, ma una teoria supportata da studi prestigiosi che può contare su un’intera corrente teoretica della linguistica (linguistica funzionale) più sul supporto di svariate altre discipline (qui ho citato alcuni autori). Il sessismo si ritrova ANCHE nella lingua italiana, e chi propone soluzioni alternative non è una fattucchiera che crede che gli asterischi elimineranno magicamente la violenza di genere, quindi basta tirare in ballo considerazioni alla Sapir-Whorf perché queste pratiche di riappropriazione linguistica hanno una storia anche al di fuori dei movimenti anti-sessisti (e in questi contesti non vengono criticate con gli stessi toni da fine del mondo).

 

Ora, se il punto 1 è ancora sostenuto da alcuni dei compagni con cui ho avuto a che fare; il punto 2 è la critica largamente più diffusa perché permette di liquidare il dibattito come se fosse il parto della mente di poche povere mentecatte che non comprendono la realtà in cui vivono. Ci tengo a sottolineare che spesso chi mantiene queste posizioni non si interfaccia con gruppi che si occupano di generi ed orientamento sessuale a nessun livello, ed è già interessante che a sostenere che il linguaggio inclusivo sia sessista siano (prevalentemente) maschi etero, perché già riusciamo a scorgere quello che è il vero obiettivo di questa critica “tecnica” (spoiler alert: le femministe cattive che in realtà non sono vere compagne™).

La terza posizione emersa dal dibattito, ovvero “io uso la parola puttana ma sono meno sessista di alcuni compagni che usano gli asterischi che invece menano la tipa”, è una stronzata e non la prenderò in considerazione per rispetto della vostra intelligenza.

 


“Del sessismo inclusivo”

L’articolo di Stevens è un perfetto esempio delle modalità di discussione della questione in vigore al momento ed è insopportabile per due ragioni: la prima è che è un lavoro superficiale e approssimativo, l’autrice infatti non ha familiarità con la linguistica come campo di studi (o perlomeno con le direzioni di ricerca degli ultimi 50 anni ormai) e non le interessa averla (ve lo ricordate Stalin sulla linguistica?). La seconda è la maniera subdola in cui Stevens costruisce il proprio argomento instillando l’idea che il linguaggio inclusivo sia il capriccio di gruppi che in realtà non sono interessati allo smantellamento delle gerarchie sociali. Questo secondo punto è particolarmente fastidioso perché anziché ingaggiare la posizione politica di questi gruppi, Stevens li marchia come “puritani”, “borghesi” e “ossessionati dalla forma più che dalla sostanza”. In questo modo chi sostiene la necessità del linguaggio inclusivo viene messa nella posizione di dover difendere la propria purezza politica per poter continuare il dibattito. Questo tipo di atteggiamento, ça va sans dire, non è né utile, né radicale, né anti-egemonico.

 

1. Le problème linguistique

Stevens (2018) basa il lato “tecnico” del suo articolo sull’idea che perché il linguaggio inclusivo sia davvero utile, dovrebbe esistere una correlazione diretta tra l’uso del maschile come plurale di default quando ci si riferisce a un gruppo misto e il livello di oppressione di genere nelle società che utilizzano questa strategia grammaticale. Questo è un argomento fantoccio. Quella che Stevens sta criticando qui è l’idea che i parlanti di una lingua possano concepire la realtà solo nei termini permessi dalla lingua che parlano (la cosidetta ipotesi di Sapir Whorf).

La derivazione logica di questa argomentazione è la stronzata che si sente dire a volte per cui dato che lingue senza genere grammaticale (Turco, Kazako, Mongolo, etc.) vengono parlate in società dove le donne non sono libere, ALLORA l’assenza di genere grammaticale non ha alcuna conseguenza sulla società. Stevens si spinge a chiedere che vengano fatti degli studi statistici cross-linguistici per dimostrare che non esiste una correlazione tra genere grammaticale e oppressione di genere. Questo tipo di richiesta avrebbe senso in un contesto in cui l’ipotesi di Sapir Whorf godesse davvero di supporto scientifico, ma dal momento che più o meno a partire dagli anni ’70 nessuno si è più sognato di sostenerla (almeno nella sua “versione forte”), concentrarsi su questo lato della questione è un modo per approcciare il problema dall’unico lato facilmente attaccabile (ovvero il lato che è già stato attaccato negli ultimi 50 anni e che è stato collettivamente superato da chi di linguistica si occupa davvero).

NESSUNA supporta l’idea che cancellare il genere grammaticale dai dizionari sistemerà in automatico ogni problema sociale, quello che viene fatto notare è il fatto che alcune dinamiche sociali si riflettono nella lingua, ma poiché l’evoluzione linguistica è arbitraria, non c’è nessuna garanzia che questa stesse dinamiche vengano espresse nella grammatica di tutte le lingue. Se il genere grammaticale esiste, è perché per qualche motivo per i parlanti di una lingua aveva senso che esistesse. Stevens convenientemente non nomina la “piccola” questione dell’arbitrarietà della lingua e capovolge i nessi di causa-effetto.

La seconda argomentazione “tecnica” introdotta nell’articolo ha senso solo per chi si è formato nell’ambito di una tradizione linguistica generativa (Chomsky, per intenderci) e si ostina a negare la dimensione sociale del fenomeno lingua. La sua posizione funziona più o meno così: dal momento che l’esistenza del maschile plurale non ha mai posto problemi prima di oggi, e dal momento che i parlanti hanno accettato questa convenzione grammaticale, allora introdurre una forma alternativa causerebbe incomprensioni. A questo punto, bisogna ricordare all’autrice due cose: 1) la lingua è un prodotto sociale, per cui può evolvere e modificarsi nel tempo; 2) l’idea che una lingua abbia bisogno di non essere ambigua per poter funzionare è fattualmente sbagliata. Ad esempio, nessun parlante nativo ha problemi a disambiguare il significato di “ancora” nelle frasi “la nave ha levato l’ancora” e “l’autrice ha detto ancora un’altra stronzata sulla lingua”. Siamo perfettamente in grado di comunicare nonostante l’ambiguità della lingua per una serie di motivi sociali, psicologici, storici, pragmatici e neurobiologici che sono stati ampiamente documentati e provati da almeno 30 anni, ma tutto questo viene convenientemente taciuto.

L’ultimo punto che vale la pena menzionare è il fatto che Stevens con il termine “scrittura inclusiva” si riferisce alla sola pratica di utilizzare le forme maschili e femminili contemporaneamente (e.g. les travaileur.euses che traduce “lavoratori e lavoratrici”). In questo modo può ignorare il fatto che esistono altre forme di linguaggio inclusivo alle quali la sua argomentazione non può essere applicata (es. l’uso degli asterischi per evitare la declinazione del nome). Criticando solo la strategia della traduzione “binaria”, Stevens può fingere che chiunque supporti l’uso del linguaggio inclusivo sia ossessionata dalla necessità di imporre il genere in ogni aspetto della società e può chiamare queste persone conservatrici e borghesi, evitando di ingaggiare la posizione politica che propongono.

In parole povere, le argomentazioni “tecniche” proposte dall’autrice sono basate su teorie linguistiche datate e dichiarano chiaramente la sua mancanza di formazione linguistica.


2. Le problème de la domination

L’unico problema che Stevens ha con il linguaggio inclusivo è politico, ma l’inserimento di un paragrafo sulla linguistica le permette di presentare la propria posizione come “oggettiva”. Fin dalle prime righe del suo articolo, i lettori sono invitati a “riflettere senza pregiudizi” sulla questione, e l’autrice sostiene di entrare nel dibattito per contrastare gli “effetti perversi” che il linguaggio inclusivo ha sulla società. Se la sua posizione ingaggiasse una critica politica, sarebbe accettabile, ma l’autrice non fa altro che presentare come “puritane benpensanti e borghesi” chiunque supporti il linguaggio inclusivo. Questo metodo comunicativo è disgustoso e autoritario, e non dovrebbe avere posto all’interno di alcun gruppo che si professi “contro il sistema”.

Per essere una che si definisce anarchica, le scelte lessicali della Stevens sono le stesse dei peggiori sostenitori dello status quo: il suo intero articolo è costruito sfruttando l’accostamento metaforico tra un movimento politico e una malattia che si espande (stessa scelta lessicale di gente come Trump ed Erdogan). La presenza del termine perverso usato per identificare un concetto che va oltre la norma che lei stessa precedentemente definisce “tradizionale” mi fa domandare cosa intenda l’autrice per “anarchia”. Nelle stesse scelte lessicali del suo articolo Stevens ci dimostra il motivo per cui la linguistica funzionale sostiene che “il linguaggio nell’uso quotidiano è costitutivo della realtà”: lei stessa non riesce a muoversi oltre le tradizionali forme espressive della lingua, e costruisce il suo saggio attingendo a una tradizione retorica che è il preciso frutto delle convenzioni sociali e storiche che la hanno generata. Al di là delle giravolte stilistiche, quello che l’autrice sta dicendo è un ritornello vecchio come l’insegnamento dell’italiano nelle scuole: “la grammatica funziona così perché ha sempre funzionato così”.

Stevens discute a livello teorico e astratto una pratica che era nata con il preciso scopo di non diventare astratta. Il linguaggio inclusivo era stato proposto da svariati gruppi attivisti per “risolvere” il fatto che molte non si sentivano rappresentate nelle narrazioni politiche quotidiane. Nessuna ha mai creduto che l’asterisco fosse la formula magica per sistemare la società, e dire che chi sostiene questa pratica non capisce i problemi che le donne affrontano nel quotidiano (Stevens 2018, p.2) è chiaramente falso. L’idea che il femminismo sia una corrente teorica che si occupa unicamente dei problemi delle donne è una posizione che deriva dal rifiuto di alcune correnti di pensiero “radicali” di ingaggiare con la letteratura prodotta da autrici femministe negli ultimi 70 anni. Nel 2018 dire che il femminismo non si occupa di razza e classe è semplicemente idiota ed è una posizione così pigra che non vale neppure la pena criticarla.

In tutto questo, neppure una volta viene nominato il fatto che alcune strategie utilizzate dal linguaggio inclusivo fossero state introdotte da movimenti non cis-gender. La critica al sessismo inclusivo viene portata avanti da un’autrice che non sente neppure una volta l’esigenza di verificare che tra chi propone questa lingua ci siano quelle stesse persone che dovrebbero beneficiare dalla sua argomentazione. Per Stevens il problema con questo tipo di linguaggio è il fatto che forza le donne a prendere atto del proprio genere in ogni situazione, e rincara la dose dicendo che in quanto donna non ha mai sperimentato traumi nell’imparare la grammatica. Inutile ricordare che è solo la sua esperienza come donna (bianca, cis-gender, accademica, probabilmente di classe sociale elevata) che conta qui; le esperienze delle donne che invece supportano il linguaggio inclusivo non contano.

L’autrice tratta le sue oppositrici come delle imbecilli che mancano di senso critico o, peggio, di interesse nello smantellare le forme egemoniche di pensiero. Cade nella trappola di considerare il femminismo bianco, conservatore e istituzionalista come unica espressione del movimento femminista e così facendo fornisce a una parte del movimento la perfetta scusa per poter continuare ad avere atteggiamenti sessisti e bollare come “capricci” ogni richiesta di maggiore considerazione avanzata dai militanti non maschi o non cis-gender.

Inutile ribadire che questa posizione politica è inaccettabile.

 

La foto è stata presa dal blog Intersezioni. Potete leggere il loro articolo qui.

 


Riassunto per chi ha di meglio da fare che leggersi il mio sproloquio per intero:

  • criticare il linguaggio inclusivo è sacrosanto;
  • discutere di quali siano i vantaggi e gli svantaggi di specifiche pratiche di linguaggio inclusivo è cosa buona e giusta (es. io preferisco usare il femminile plurale al posto dell’asterisco e trovo la”-u” al termine delle parole particolarmente fastidiosa);
  • dare delle “benpensanti borghesi” a chi lo utilizza è una pratica che non si differenzia in nulla dal repertorio linguistico del potere e che non dovrebbe avere spazio in alcun gruppo che si definisca anti-autoritario ad alcun titolo;
  • tirare in ballo la linguistica per difendere posizioni prescrittive sull’uso della lingua è in generale una pessima idea.

Tutto il resto è noia e sessismo mascherato da lotta rivoluzionaria.

 


Riferimenti

Stevens, Anneck (2018). Sul sessismo inclusivo. Disponibile nella versione italiana su Finimondo.

 

Per approfondire

Linguaggio inclusivo:

Ehrlich, S., & King, R. (1992). Gender-based language reform and the social construction of meaning. Discourse & Society, 3(2), 151-166.

Inoue, M. (2007). Language and gender in an age of neoliberalism. Gender & Language, 1(1).

Zimman, L. (2018). 18 Pronouns and Possibilities. Language and Social Justice in Practice.

“Perché non hai detto no?” – pragmatica del rifiuto e violenza di genere

venerdì, Marzo 8th, 2019

 

“Ma via, la tua spada riponi
ora nel fodero; e poi saliam sul mio letto: ché quivi
nei cuor d’entrambi induca fiducia l’amplesso d’amore”

Circe ad Ulisse
sugli indizi sottili con cui una donna
vi fa capire che vuole portarvi a letto

Odissea, Libro X, traduzione di Ettore Romagnoli (1926)

Disclaimer: nell’articolo si fa riferimento alla violenza di genere come ad un meccanismo perpetuato unicamente su donne da parte di uomini. Sono perfettamente consapevole che questo non cattura la complessità del fenomeno; gli studi linguistici sul rifiuto, tuttavia, si sono occupati solamente di questa dimensione. L’accademia statunitense sta via via allargando l’indagine anche a situazioni che non coinvolgono solo persone cis-gender ed eterosessuali. Restate connessi per ulteriori aggiornamenti.


Emile Levy – Circe

La nozione di linguaggio come elemento costitutivo del reale è vecchia quanto Bakthin (1981), Bourdieau (2003), Foucault (1969), Voloshinov (1976), e altri che non nomino per mancanza di tempo e spazio. La mia esperienza è che chi nega questo fatto solitamente o non è consapevole della (o non ha mai riflettuto sulla) questione, oppure utilizza la scusa del “non è attraverso il linguaggio che cambiamo la società” come dito dietro cui nascondere sessismo/razzismo/classismo/ableismo e qualsivoglia tipo di discriminazione. L’idea che il linguaggio non abbia ripercussioni sul nostro quotidiano e non abbia posto nelle lotte è datata, non supportata dalla ricerca (quasi tutta sviluppatasi in correnti teoretiche che non sono facilmente liquidabili come “borghesi” o “liberal”) e si basa sull’idea che esistano “le cause giuste” e il resto – ovvero tutto quello che può essere posposto alla rivoluzione.

Uno dei compiti della linguistica è spiegare COME il linguaggio ha un effetto sulla nostra vita quotidiana. E in onore della giornata di oggi e di tutte le compagne che stanno lottando, ci occuperemo di un caso esemplare di come la nostra percezione del parlato quotidiano abbia delle ripercussioni enormi sulle nostre vite e sulle nostre lotte. Attraverso l’analisi conversazionale e l’analisi critica del discorso smonteremo la retorica del rifiuto all’interno della dinamiche di genere.

La retorica del rifiuto

Al di là dei numerosi altri fattori da considerare nel rispondere alla domanda (meccanismi di socializzazione, sessismo istituzionalizzato, rapporti di potere e gerarchie di genere, etc.), il modo in cui concepiamo la violenza di genere ha a che fare con un meccanismo chiamato framing (Lakoff and Johnson 1980), ovvero il modo in cui ci viene presentato un concetto. Centrale nell’educazione (formale e non) di moltissime è stata l’idea che “a dire no” (l’atto linguistico del rifiuto) si possa imparare, e che dire di no ci metta al riparo da situazioni di violenza. Attraverso il ripetuto framing del concetto di consenso come l’atto di poter esercitare il proprio rifiuto, è filtrata nella società questa idea che “basta dire no” in maniera convinta per segnalare all’altro che non vogliamo avere un rapporto.

“Basta dire di no” è un messaggio pervasivo e tossico, che una parte del movimento femminista (non italiano) ha visto per un certo periodo come una strategia di empowerment femminile. Riappropriarsi del rifiuto come strumento per riprendere controllo dei propri desideri e del proprio corpo, e di far valere i propri bisogni. Questo tipo di approccio poggia sulla convinzione che la violenza di genere sia il risultato di un errore di comunicazione tra la vittima e l’autore della violenza, che non è in grado di cogliere gli indizi verbali e non verbali che gli vengono proposti (Tannen 1991). Il corollario a questa posizione è l’idea che esista una differenza sostanziale nel modo in cui uomini e donne recepiscono il rifiuto, e che uomini e donne abbiano diversi stili di interagire che fanno sì che nella comunicazione tra i due generi si creino degli spazi di incomprensione. Inutile dire che questa interpretazione è inaccettabile (per non dire questo).

Come diciamo di no

Rifiutare una richiesta più o meno esplicita non è facile. Opporre e accettare un rifiuto è una pratica sociale raffinata e complessa, che richiede una serie di capacità interazionali specifiche: non vogliamo offendere la nostra interlocutrice, vogliamo che mantenga un’idea positiva di noi, non vogliamo sembrare troppo dirette (Goffman 1971).

Lo studio di una serie di conversazioni quotidiane ci restituiscono l’idea che nella realtà di tutti i giorni noi non “diciamo di no”, ma utilizziamo diverse strategie per esprimere la stessa idea (Kitzinger & Frith 1999). Le più comuni includono:

  • pause o ritardi nella risposta, spesso accompagnate da segni di comunicazione non verbale quali sorrisi, spostamento dello sguardo, e movimenti delle mani volti a segnalare che siamo occupate con altro. Una lunga pausa dopo un’offerta è un segnale chiaro che la nostra interlocutrice non è interessata.
  • tentennamenti, espressioni come “mmm”, “ehm”, seguiti a volte da pause.
  • palliativi, ovvero frasi dette con l’intenzione di riparare all’eventuale torto fatto all’interlocutrice. Espressioni come “magari domani, oggi non posso”, o il grande classico milanese “ci becchiamo per un aperitivo uno di questi giorni”.
  • giustificazioni, dette con l’obiettivo di sembrare “impossibilitate” a fare qualcosa, e non “non desiderose” di farla.

La lista potrebbe essere più lunga, ma il punto della questione è che se qualcuno mi invita ad andare a bere una birra e io rispondo “ah cavolo domani sera? eh sì forse ho da fare, ti tengo aggiornato. dammi il tuo numero che ti scrivo io”, a voi non serve un “no” per capire dove sto andando a parare. Per avere un’idea delle dimensioni quantitative del fenomeno, in uno studio sulle strategie di rifiuto utilizzate dai parlanti italiani, su 395 occorrenze di atti che segnalano rifiuto da parte di un interlocutore, solo nell’1,8% dei casi notiamo un rifiuto netto (“No”, “No grazie”) (Frescura 1997).

Sebbene ci siano degli stili di interazione preferiti dalle donne (vengono usati più tentennamenti e meno formule di rifiuto netto), non c’è alcun dato che dimostri come gli uomini non siano in grado di comprendere un rifiuto, anche quando questo è formalmente espresso da un “sì”. Esempio: “andiamo al cinema?” “sì son già là”. Se non capite il significato di questa frase, o non siete dei parlanti madrelingua, oppure siete un software di traduzione automatico basato su regole (in tal caso, distopie tecnologiche permettendo, non avete bisogno di imparare cosa sia il consenso).

La ricerca suggerisce che le conversazioni siano complesse, “sì” può voler dire “no” e “no” non deve essere necessariamente un rifiuto. Che cosa implica tutto questo per la lotta alla violenza di genere? Implica il fatto che le donne tendono a non opporre un rifiuto netto alla richiesta di prestazioni sessuali in parte perché “dire semplicemente di no” non è normale in nessun contesto quotidiano. Il sesso viene rifiutato attraverso quelle stesse strategie che sono tranquillamente riconosciute dagli uomini eterosessuali nella vita di tutti giorni. Dire che la mancanza di un rifiuto netto rende impossibile ad un uomo di capire che una donna sta negando il proprio consenso equivale a dire che il suddetto uomo non è in grado di interpretare normali meccanismi di comunicazione che utilizza ogni giorno (Kitzinger & Frith 1999).

E se non capite il 98% delle vostre interazioni giornaliere, magari è tempo di prendere in considerazione l’ipotesi che siate un calcolatore elettronico degli anni ’70.

 


Riferimenti

Bakhtin, M. M. (1981). The dialogic imagination: Four essays (Vol. 1). University of texas Press.

Bourdieu, P. (2003). Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, tr. it. Cortina.

Foucault, M. (1969). L’archeologia del sapere, tr. it. Rizzoli, Milano.

Frescura, M. (1997). Strategie di rifiuto in italiano: uno studio etnografico. Italica, 74(4), 542-559.

Goffman, I. (1971). Relations in Public. New York: Harper and Row, 19

Kitzinger, C., & Frith, H. (1999). Just say no? The use of conversation analysis in developing a feminist perspective on sexual refusal. Discourse & Society, 10(3), 293-316.

Lakoff, G., & Johnson, M. (1980). Metaphors we live by. Chicago, IL: University of.

Tannen, D. (1991). You Just Don’t Understand: Women and Men in Conversation. London:Virago.

Volosinov, V. N. (1976). Marxismo e filosofia del linguaggio (Vol. 43), tr. it. EDIZIONI DEDALO.

Bibliografia per approfondire

Cameron, D., and Don Kulick. (2003). Language and Sexuality. Cambridge: Cambridge University Press. – per un’analisi della feticizzazione del “no” e di come il rifiuto netto da parte di una donna venga interpretato come un invito a farle cambiare idea

Ehrlich, S., Holmes, J., & Meyerhoff, M. (Eds.). (2017). The handbook of language, gender, and sexuality. John Wiley & Sons.