OmegaT: uno strumento open-source per la traduzione assistita

Luglio 12th, 2018 by Strelka
If you have a natural aversion to reading instructions, and your approach to new software is to click on every button you see until something resembling the desired effect occurs, then OmegaT is probably not suitable for you.

 

Anche per quest’anno si è concluso l’hackmeeting, l’incontro delle controculture digitali italiane, una tre giorni di condivisione critica di saperi, autogestione e riflessione collettiva sulle tecnologie che utilizziamo quotidianamente (qui una carrellata dei seminari presentati quest’anno). Tra i talk di quest’anno, anche il mio dedicato a uno strumento utile a chi si trova a tradurre documenti di testo medio-lunghi o documenti brevi ma simili tra loro (ad esempio volantini).

OmegaT è un software open-source per la traduzione assistita da computer (CAT). La traduzione assistita è un sistema nel quale un traduttore umano utilizza un programma per automatizzare il processo traduttivo. Non va confusa con la traduzione automatica (machine translation), che è invece il servizio che offrono Google Traduttore o Deep L.

Se imparare a usare un CAT può sembrare complesso o inutile, è importante invece considerare che questo tipo di strumenti hanno svariati vantaggi che rendono il loro uso ideale anche per chi non si occupa di traduzione a livello lavorativo. Un buon CAT infatti

  1. automatizza il processo di traduzione, lasciando la possibilità di concentrarsi sui compiti più difficili;
  2. mantiene in memoria le scelte traduttive, garantendo la coerenza tra testi diversi o all’interno dello stesso testo;
  3. permette di collaborare alla traduzione di un testo;
  4. restituisce il testo tradotto in un documento che mantiene la formattazione dell’originale.

 

OmegaT è uno strumento abbastanza intuitivo, ma richiede comunque un minimo di buona volontà nel leggersi le istruzioni: il tempo che impiegate ad imparare come usare questo software è tempo che recupererete al momento di tradurre. Se state valutando di usare uno di questi strumenti, ma OmegaT non vi convince, vorrete riconsiderare il vostro rapporto con i software proprietari. Ad ogni modo ricordatevi che un buon CAT dovrebbe avere almeno queste componenti:

  • una memoria di traduzione (TM) che possa essere esportata ed importata per nuovi progetti. La TM è un database che mantiene in memoria un segmento e la sua traduzione. Questi elementi vengono salvati in coppia e vengono riproposti dal programma ogni volta che il testo di partenza presenta una combinazione di parole identica o simile a quella tradotta precedentemente. Una memoria di traduzione ricca permette di ridurre notevolmente i tempi di traduzione perché permette di riutilizzare scelte effettuate in precedenza.
  • un glossario che possa essere modificato dall’utente e riciclato per altri progetti. Un glossario è una lista di termini con corrispondente traduzione che viene compilata dal traduttore o dall’autore del testo di partenza (o dal cliente se state effettuando una traduzione per lavoro). Una buona pratica per tradurre documenti politici è quella di salvarsi in un glossario le specifiche traduzioni di ogni concetto o gruppo politico e riciclare queste traduzioni in tutti i testi successivi per mantenere la coerenza nel corso del tempo.
  • diversi dizionari che vi vengano in soccorso quando non trovate le parole giuste per l’occasione.
  • la capacità di fare desktop publishing, ovvero mantenere la formattazione del documento di partenza in quello di arrivo, così da risparmiarvi l’onere di dover riformattare tutto una volta finita la traduzione.

 


Tradurre in 5 minuti

(Qui la presentazione utilizzata per il seminario con le schermate del programma. Qui un articolo che ho tradotto con OmegaT.)

Per prima cosa volete installare un dizionario e attivare la funzione di correzione ortografica (di default non attivi su OmegaT). Per fare questo seguite il percorso Opzioni > Preferenze > Correttore ortografico. Selezionando Installa nuovo dizionario il programma vi permetterà di scegliere tra i dizionari in dotazione per ogni lingua (dovete installare un dizionario per ogni lingua verso cui traducete). Cliccando su Controlla automaticamente l’ortografia il programma controllerà le vostre traduzioni man mano che lavorate.

 

Per avviare un nuovo progetto su OmegaT, basterà selezionare Progetto > Nuovo.

 

Una volta aperto un nuovo progetto, vi si presenterà una schermata che vi chiede di salvare il vostro progetto in una cartella. Questo passaggio è fondamentale, dal momento che in OmegaT ogni progetto è costituito da una serie di cartelle contenenti statistiche, glossari e TM, oltre al documento con la traduzione, a cui il programma avrà bisogno di accedere nel corso del lavoro. Prestate attenzione a dove salvate questa cartella, dal momento che se volete caricare nuovi glossari o TM avrete bisogno di accedervi.

 

A questo punto OmegaT vi chiederà di selezionare i parametri del vostro progetto. Qui vi viene chiesto di selezionare le due lingue con cui state lavorando: la lingua di partenza è la varietà in cui è scritto il testo su cui state lavorando, mentre la lingua di arrivo è la varietà in cui voi state traducendo il testo. Selezionando la casella Abilita la segmentazione a livello di frase permetterete al programma di dividere il testo in tanti segmenti di traduzione quanti sono i periodi del testo (o di spezzare i periodi se questi sono considerati troppo lunghi). Se deselezionate questa opzione, OmegaT tratterà il vostro testo come un unico segmento (o lo spezzerà in paragrafi): questa opzione vanifica l’utilità di avere una memoria di traduzione e dovrebbe essere evitata. L’opzione Propagazione automatica delle traduzioni dovrebbe essere automaticamente settata in un nuovo progetto: questa funzione permette ad OmegaT di tradurre in automatico un segmento se questo è identico al 100% ad un segmento da voi tradotto in precedenza.

 

Una volta selezionati i parametri del vostro progetto, si aprirà una finestra che vi chiederà di caricare i file contenenti il testo che volete tradurre (non tutti i formati sono supportati da OmegaT). Il programma vi permetterà di navigare fino al file desiderato e cliccando su Copia i file nella cartella di partenza, i file verranno inseriti nella corrispondente cartella \source\ del progetto e preparati per la traduzione.

 

A questo punto il vostro file è pronto per la traduzione e questa è la schermata che vi si presenterà. Il segmento in traduzione al momento sarà visualizzato in entrambe le lingue, mentre il testo già tradotto apparirà solo nella lingua di arrivo, e quello da tradurre solo nella lingua di partenza. Mano a mano che continuerete la traduzione, OmegaT vi avviserà di eventuali somiglianze con segmenti precedenti e vi ricorderà come avete tradotto quel segmento (Concordanze parziali – fuzzy). I tag che circondano alcuni dei segmenti sono indicazioni di formattazione e non vanno toccati se volete preservare il formato nel documento di arrivo.

 

Sull’angolo in basso a destra dell’interfaccia di OmegaT potete notare una serie di numeri. Questi sono indicatori sul progresso di traduzione. Il primo numero (7/26) si riferisce al numero di segmenti presenti nel testo: in questo caso sono stati tradotti 8 segmenti su un totale di 26. La seconda proporzione (2/18) si riferisce al numero di segmenti univoci presenti nel testo (segmenti che non si ripetono), mentre il terzo numero riporta nuovamente il numero totale di segmenti presenti nella traduzione (nel caso in cui il progetto sia composto da più di un file questo numero sarebbe costituito dalla somma dei segmenti presenti in ogni file). L’ultimo indicatore (54/29) si riferisce al numero dei caratteri presenti nel segmento nella lingua di partenza e in quella di arrivo: in questo caso il segmento nella prima è lungo 54 caratteri, mentre la traduzione è lunga 29 caratteri. Questa informazione può essere particolarmente utile se avete limiti di spazio da rispettare perché vi permette di regolarvi sulla lunghezza della vostra traduzione senza doverla vedere su carta o schermo.

 

Una volta che avete terminato di tradurre il testo, potete creare il documento di arrivo selezionando Progetto > Crea i documenti di arrivo. A questo punto potrete dedicarvi alla correzione del lavoro. Un buon consiglio è quello di stampare il testo di arrivo e leggere il vostro lavoro su carta (magari lasciando passare qualche ora dalla traduzione) per individuare meglio eventuali errori. Una volta corretto il testo, tuttavia, sarebbe una buona pratica quella di non correggere direttamente il testo nel file di arrivo, ma di tornare in OmegaT, recuperare i segmenti dove vanno implementate le correzioni e generare un nuovo testo di arrivo corretto. In questo modo verrà modificata anche la vostra memoria di traduzione e le modifiche verranno tenute in memoria per traduzioni future.

 


Impostare un progetto condiviso

La funzionalità che ho apprezzato maggiormente in questo programma è la possibilità di lavorare in collaborazione con altri utenti. OmegaT fornisce diverse possibilità per lavorare a un progetto condiviso, la soluzione che si è rivelata più comoda per me è stata quella di creare una repository git condivisa (nel mio caso su Lattuga, un server autogestito) e di darvi accesso alle compagne che stanno collaborando con me. Io ho provato ad avviare un progetto condiviso su Linux e su Windows, e nel primo caso il procedimento è molto più intuitivo e semplice. Se utilizzate Windows o Mac troverete i dettagli su come avviare un progetto condiviso nella documentazione di OmegaT. Se state valutando l’ipotesi di passare a un sistema non proprietario (es. Linux), ma temete che sia più complicato da usare, sappiate che in OmegaT i progetti condivisi creano molti meno problemi che in Windows (dove diverse versioni di OmegaT non sono sempre compatibili tra loro nei progetti condivisi).

Per avviare un progetto condiviso è necessario che una tra le utenti diventi amministratrice del progetto. Il primo passo è creare una nuova repository che ospiterà tutte le cartelle del vostro progetto.

 

A questo punto dovreste trovarvi davanti a questa schermata, che vi darà le indicazioni per inizializzare il vostro progetto e vi fornirà una URL che potrete condividere con tutte le vostre collaboratrici. Quello che avete davanti non è ancora un progetto. Non potete aprire una repository vuota, per cui non appena creata questa cartella condivisa, vi verrà chiesto di eseguire il primo commit. Se non siete pratiche di informatica, sappiate che Lattuga rende questo processo estremamente semplice, perché vi basterà copiare riga per riga il codice con le istruzioni per creare un commit e passarlo nel terminale (Ctrl+Alt+T per aprire il terminale). Potreste dover installare dei pacchetti aggiuntivi per far funzionare il programma, ma tutte le istruzioni vi verranno fornite nel terminale.

 

Al termine del processo, vi troverete davanti una nuova schermata. Questa è la vostra cartella condivisa. In un primo momento conterrà solamente questo file README.md che avete creato seguendo le istruzioni precedenti. Una buona idea è quella di scrivere una descrizione del vostro progetto in questo file, per permettere a chi accederà alla cartella in un secondo momento di orientarsi meglio.

 

Una volta creata, la vostra repository dovrà contenere una serie di file per funzionare correttamente per chiunque si aggiunga come collaboratrice al progetto. Senza questi file il programma non permetterà di scaricare i progetti in collaborazione. Credo ci siano modi più eleganti per questo passaggio, ma il metodo più sicuro per far funzionare il tutto per me è stato creare un progetto in OmegaT sul mio computer (e quindi seguire i passaggi indicati sopra), incollare le cartelle create dal programma nella repository su Lattuga, e cancellare il progetto non condiviso. Per far sì che il programma funzioni dovete includere nella repository condivisa i seguenti file:

  • il file di progetto omegat – omega.project
  • tutti i file contenuti nella cartella /source/ (ovvero i file contenenti i testi da tradurre)

 

A questo punto il vostro progetto condiviso è pronto. Se avete scelto di utilizzare Lattuga, le vostre collaboratrici dovranno creare un proprio account sul server ed essere da voi autorizzate ad avere accesso al progetto. A questo punto sia voi sia le vostre collaboratrici non dovrete fare altro che seguire il percorso Progetto > Scarica il progetto in collaborazione e inserire la URL della vostra repository. OmegaT riconoscerà che state caricando materiale da una cartella Git e vi chiederà nome utente e password per creare una copia locale della repository sul vostro computer.

 

Potete quindi iniziare a tradurre il documento dal vostro computer senza preoccuparvi di altro. OmegaT aggiornerà in automatico ogni 3 minuti circa il vostro progetto, distribuendo le modifiche ai glossari e alla memoria di traduzione a chiunque stia collaborando al progetto.

Se vi interessano altri tutorial, il sito di OmegaT fornisce un’ottima documentazione in diverse lingue, tra cui un tutorial con esercitazioni (in inglese), un breve tutorial con consigli di traduzione (in russo) e un video tutorial (in portoghese brasiliano). La documentazione inoltre vi spiegherà nel dettaglio svariate altre funzioni che non ho toccato in questa breve presentazione, ma che potranno rivelarsi utili (tra tutte la traduzione automatica).

Frasario compatto italiano – nazifemminista

Marzo 8th, 2018 by Strelka

I commenti su femminismo, misoginia e tutto ciò che in generale riguarda le donne che trovo sull’internette mi perplimono a vari livelli. Poi ho avuto l’illuminazione: il problema principale risiede nel fatto che io e gli autori di questi commenti non parliamo nella stessa lingua. Dopo un anno di documentazione linguistica così attenta che la SOAS dovrebbe finanziarmi la ricerca ho deciso che ho abbastanza materiale da stilare un frasario. Tempo due anni e ci pubblico pure una grammatica.

Sostituite a ciò che leggete la sua traduzione in nazifemminista e vi sentirete subito meglio.

Metodologia della ricerca: il corpus di riferimento è stato costruito tramite la raccolta e la sistematizzazione di produzione linguistica in lingua italiana da parte di utenti madrelingua. Il materiale è stato estratto da commenti ad articoli di giornale online, post su Facebook e messaggi su Twitter. Poiché ai fini della ricerca non era fondamentale la forma in cui questi commenti sono stati prodotti, ci si è riservati di eliminare errori grammaticali e ortografici che avrebbero inficiato lo scopo finale dello studio.

Questa ricerca non ha ricevuto finanziamenti da organizzazioni nazionali o sovranazionali. L’ego di nessun parlante nativo è stato ferito nel realizzare questo frasario.


Sezione 1 – lo sciopero internazionale (da commenti in merito all’8 marzo 2017)

“Scioperare l’otto marzo è una forma di violenza contro le donne che non vogliono farlo e contro gli uomini” = “ho dei problemi ad ammettere che esistano dei privilegi perché altrimenti dovrei iniziare a interrogarmi sul fatto che li metto in pratica tutti i giorni/ne sono oppressa”

“Sono d’accordo col contenuto della protesta, ma non con la forma” = “credo che le minoranze oppresse possano manifestare il proprio dissenso contro i detentori di un privilegio solamente nei tempi e nei modi indicati dal suddetto detentore del privilegio”. Questa riciclatevela per ogni situazione dove un maschio bianco eterosessuale di classe media vi spiegherà per quale motivo non sta scendendo in piazza con voi.

“Protestate per il nulla” = “non ho letto le rivendicazioni dello sciopero” (nel migliore dei casi)

“Io non ho bisogno di questo sciopero perché il mio uomo mi rispetta/perché al lavoro prendo lo stesso stipendio dei miei colleghi” = “nonostante l’adolescenza sia passata da un pezzo, ho dei problemi a concepire l’idea di non essere il metro di paragone dell’intero esperibile umano”

“Lo sciopero di oggi ha danneggiato soprattutto le donne che lavorano costringendole a fare fatica per recarsi al lavoro” = “credo che salari minori, trattamenti discriminatori e una gestione sessista del presidio di maternità siano un ben misero prezzo da pagare per avere dei treni che arrivano in orario”

“Il vero femminismo è un altro” = “la questione non mi è mai fregata molto, ma oggi ne parlano tutti e mantenere questo approccio vago e misterioso mi fa sembrare più preparato”

“Ma queste dove erano quando [inserire qui un qualsiasi diritto smantellato]?” = “dagli anni ’20 ad oggi non ho avuto accesso a qualsivoglia mezzo di comunicazione, dal piccione viaggiatore a Twitter, e quindi non ho avuto modo di notare che le donne hanno preso parte a tutte le mobilitazioni rivoluzionarie di questo secolo e di quelli precedenti”

“Finalmente lo avete ammesso che questa è la festa solo delle donne comuniste!”. Il progetto pilota non è riuscito ad ottenere informazioni sufficienti a questo riguardo, ma siamo certi che in future pubblicazioni giungeremo a conclusioni soddisfacenti.

 


Sezione 2 – le donne sono inspiegabilmente diverse tra loro

“Le donne sono le prime a [inserire un comportamento ritenuto sbagliato]”. Variante accettata “Anche le donne hanno atteggiamenti sessisti” = “ritengo che ogni altra categoria umana sia il prodotto della società in cui viene educata e socializzata. Le donne no: loro sono impermeabili ai condizionamenti sociali e immutabili nei secoli dei secoli amen”

 


Sezione 3 – le pene del giovane maschio etero bianco

“Tutti gli esseri umani valgono uguale” = “una semplice ricerca su wikipedia mi avrebbe permesso di capire il significato dei termini femminismo e genere, ma non sono in grado di comprendere un semplice testo scritto nella mia lingua madre”. Questa frase può essere utilizzata anche per lamentarsi della “lobby gay”, della “sostituzione etnica” o dei “ragazzi morti che combattevano per la RSI”.

“Si parla sempre di gay, lesbiche e donne. E gli uomini mai?”. Variante accettata “anche gli uomini sono discriminati ma nessuno ne parla” = “per qualche oscura ragione sono convinto che l’abbattimento delle discriminazioni verso determinate categorie sia una cosa che andrà a mio svantaggio”

“Io credo che uomini e donne siano pari, ma non uguali. Prendete ad esempio la biologia, …” = “cioè mi state dicendo che sesso e genere non sono la stessa cosa?” (sì, quindi in pratica sei femminista: stacce!)

“Se le donne davvero non volessero i ruoli di genere non li rispetterebbero” = “il termine ruoli di genere è letteralmente l’unico concetto della sociologia che conosco” (Judith Butler, levate che è arrivato il Maschio a spiegarci cosa fare!)

“Non tutti gli uomini [praticano il comportamento oppressivo X]” = “nonostante l’adolescenza sia passata da un pezzo, ho dei problemi a concepire l’idea di non essere il metro di paragone dell’intero esperibile umano”

“Anche gli uomini subiscono [comportamento oppressivo X] ma di loro non si parla mai!” = “in che senso anche gli uomini sono vittime del sistema patriarcale?”

Storia della musica di protesta americana: da “Yankee Doodle” a Kendrick Lamar

Settembre 1st, 2017 by Strelka

Come la musica di protesta è passata dagli stornelli della guerra civile ai video virali di Trump

Father John Misty, il sarcastico e cinico musicista dietro al successo del 2015 Bored in th USA, non è mai stato uno da astenersi dal fare critica sociale. Ma il suo terzo album, pubblicato il 7 aprile, si spinge ad un altro livello. Pure Comedy è infarcito di critiche sulla religione, il fanatismo religioso e la politica ed è accompagnato da video con montaggi di scene tratte dal giorno dell’inaugurazione di Trump e immagini di bambini che giocano con delle armi.

Anche se non è la prima volta che l’artista nel proprio lavoro si occupa di capitalismo e fragilità della società, questo disco ha un obiettivo più preciso: infatti è un vero e proprio album di protesta, sebbene composto con lo stile moralista e leggermente pretenzioso tipico di Misty. Con tracce dal titolo evocativo quali Things It Would Have Been Helpful to Know Before the Revolution e Two Wildly Different Perspectives e testi che danno delle stoccate agli “idioti eletti” e al surriscaldamento globale, vengono chiaramente presi di mira temi come la politica, il fanatismo religioso e l’ambiente.

Misty non è né il primo né l’unico artista ad aver composto musica di protesta. Al contrario. Questa è sempre stata una forma essenziale di espressione politica negli USA e in tempi di disordini politici e sociali, diventa un rifugio fondamentale sia per i musicisti, per i quali diviene una valvola di sfogo dove esprimere le proprie frustrazioni e convinzioni, sia per gli ascoltatori che hanno bisogno di un grido di battaglia.

A partire dai canti con struttura a “botta e risposta” fino ai video virali, la storia dell’evoluzione musicale di queste canzoni e del modo in cui si sono adattate alla tecnologia ci informa su quello che la musica di protesta è pronta a diventare oggi: una colonna sonora ad un’epoca di massiccia mobilitazione sociale che sia in grado di commuovere e dimostri grande qualità artistica.

 

Breve introduzione alla musica di protesta

La musica di protesta esiste da secoli: non appena se ne ha abbastanza dello status quo, si inizia a cantare il proprio dissenso. E poiché gli stili musicali, le emozioni umane e le questioni sociali sono così variegati, anche i canti di protesta lo sono.

Tali canzoni sono di solito scritte per essere parte di un movimento che lotta per cambiamenti culturali o politici e per galvanizzare quel movimento unendo le persone e ispirandole ad agire.

Le canzoni di protesta sono spesso di inclinazione liberale e di solito rientrano in due categorie principali: composizioni a tematica politica (che contestano il governo) oppure culturalmente orientate (che mirano a raccontare le ingiustizie affrontate dai gruppi emarginati).

Questa ampia categorizzazione lascia ampia libertà di sperimentazione ai cantautori e i brani possono essere di volta in volta tranquilli e tormentati, vivaci e spiccatamente critici, oppure semplici e accattivanti. E anche in momenti in cui non ci sono grandi mobilitazioni politiche o cambiamenti dei paradigmi culturali all’orizzonte, i musicisti possono continuare a contribuire al corpus con dei brani audaci riguardanti questioni più sottili.

 

Musica di protesta 1.0: guerra e schiavitù attraverso il canto

Le prime canzoni di protesta americane vengono create per uno scopo: aggregare le persone intorno ad una causa comune. Le melodie, semplici e ripetitive, sono spesso tratte da inni sacri o da canzoni che le persone già conoscevano, con testi composti in forma di “botta e risposta” di facile memorizzazione. Tali canzoni sono meno musicalmente raffinate, ma servono uno scopo.

La tradizione risale al periodo della fondazione del paese. Free America è una delle prime canzoni di protesta dei nascenti Stati Uniti: una chiamata alle armi composta dal rivoluzionario Joseph Warren. Yankee Doodle, oggi popolare canzone per bambini, viene invece scritta dai soldati inglesi per farsi beffe dei loro omologhi americani e successivamente ripresa e modificata dagli Americani per insultare i Britannici.

Le prime canzoni di lotta largamente conosciute negli Stati Uniti sono composte dagli schiavi, per lo più derivate da inni sacri aventi come temi la libertà o la fuga. Go Down, Moses, basata sull’episodio biblico di Mosè che libera gli Israeliti dalla schiavitù in Egitto, è stata addirittura utilizzata da Harriet Tubman come codice personale durante il suo servizio per la Underground Railroad. Gli spirituals hanno fornito l’opportunità di riunirsi, condividere sentimenti, lamentarsi o gioire.

Durante la guerra civile, gli Unionisti fanno propria John Brown’s Body. Cantata sulla melodia di The Battle Hymn of the Republic (celebre canto da accampamento con struttura a “botta e risposta”), John Brown’s Body prende il nome del noto antischiavista il cui assalto all’arsenale della città di Harpers Ferry (Virginia) ha esacerbato le tensioni che avrebbero portato allo scoppio della guerra civile.

Il testo ripete “John Brown giace nella tomba là nel pian / ma l’anima vive ancor”; mentre un verso successivo chiede di appendere Jefferson Davis, leader dei Confederati, ad un albero di mele. Questo testo è un tipico esempio dei canti di protesta del tempo: è semplice e ripetitivo e quindi facile da imparare e condividere con gli altri, caratteristiche che hanno contribuito a rendere la canzone una delle preferite dagli Unionisti.

 

La rinascita artistica: lotte razziali nel primo Novecento

Mentre l’America esce dalla guerra civile e le divisioni di classe e razza si accentuano, la musica di protesta cambia e si adatta al gusto musicale del primo Novecento.

La registrazione musicale elettronica comincia a diffondersi negli anni Trenta e radio e dispositivi di riproduzione audio facilitano la distribuzione su larga scala. L’avvento di questa nuova tecnologia rende possibile la proliferazione del canto in una dimensione esterna a quella della tradizione orale e guida la musica nella sua prima fase “pop”, grazie a generi come il jazz e il ragtime. La musica di protesta fa la stessa cosa, con melodie e testi tecnicamente più complessi rispetto alle semplici canzoni dell’era della guerra civile.

Il più fulgido esempio di questo periodo è Strange Fruit di Billie Holiday (1939). Come scrive Dorian Lynskey, giornalista musicale, nel suo libro 33 Revolutions Per Minute: A History of Protest Songs, From Billie Holiday to Green Day, il brano della Holiday è stato il primo nel suo genere, riuscendo a portare le canzoni di protesta nel regno della musica pop: “fino a questo momento, le canzoni di protesta avevano funzionato come mera propaganda, ma Strange Fruit ha dimostrato che potevano diventare arte”.

Strange Fruit attrae gli ascoltatori con la sua melodia vellutata e oscura e ne cattura l’attenzione con versi riguardanti i linciaggi che avvengono nel sud del paese. Il brano è una malinconica riflessione sui disordini civili del sud e utilizza la trasparente metafora dei frutti per evocare la vivida immagine dei corpi neri impiccati.

A differenza delle canzoni di protesta dell’epoca della guerra civile, Strange Fruit non è uno slogan o una chiamata alle armi, ma piuttosto uno straziante commento sullo stato del Paese, concepito perché la gente si interessasse al problema.

Strange Fruit ha ispirato un’approvazione entusiastica o una vera e propria repulsione fisica: in ogni caso, la risposta del pubblico è stata viscerale. Secondo Lynskey, la canzone era quasi totalmente vietata alla radio, il che significa che la maggior parte degli Americani se ne avevano sentito parlare, lo avevano fatto tramite il passaparola o la vivida descrizione delle performance della Holiday.

Dopo la morte della Holiday nel 1959, Strange Fruit è entrata nel corpus dei canti di protesta come un pezzo d’arte unico: una poesia che ha colpito un nervo scoperto. La canzone è qualcosa di più di uno slogan ripetitivo per le trincee; è un pezzo di cultura popolare, qualcosa che può sia essere apprezzato in un bar fumoso e sia suscitare in seguito discussioni, diffondendo insoddisfazione nei confronti dello status quo con una composizione bella e inquietante.

 

L’alba della musica folk

La musica di protesta si diffonde ulteriormente quando il folk inizia a essere passato in radio nel secondo dopoguerra e continua a dominare la scena musicale impegnata durante tutto il periodo che condurrà ai turbolenti anni ’70. Artisti folk come Pete Seeger e, un decennio dopo, Joan Baez e il trio Peter, Paul e Mary utilizzano una forma prevalentemente acustica per trasmettere la propria visione politica a una nazione in lotta per i diritti civili che sta per imbarcarsi in una guerra contro il Vietnam.

La musica, caratterizzata ora da composizioni di alta qualità artistica e testi contenenti sia pesanti metafore sia commenti politici diretti, unifica le diverse lotte. Poiché le canzoni vengono trasmesse in televisione ed eseguite in enormi concerti, i fan e i manifestanti possono interagire e fare proprie le canzoni in un modo completamente nuovo.

Woody Guthrie, cantautore dell’Oklahoma, è probabilmente il nome più conosciuto del genere e colui che ha dato inizio al movimento del folk di protesta. Guthrie era cresciuto tra la classe proletaria del Dust Bowl, ascoltando le canzoni di lotta del cantautore sindacalista Joe Hill e discutendo di socialismo seduto attorno ai falò.

Guthrie compone This Land is Your Land come risposta polemica alla grande hit God Bless America del popolarissimo compositore di Broadway Irving Berlin. Nella versione per la grande distribuzione vengono tagliati alcuni dei versi più critici, quali ad esempio: “There was a big high wall there that tried to stop me / The sign was painted, said ‘Private Property’”.

La canzone è diventata un inno per la classe operaia da cui egli proveniva e ciò è stato facilitato dalla sua reputazione come genuino sostenitore della causa. Le canzoni di Guthrie sono state viste come oneste e vissute, prive di lusinghe: tutte caratteristiche essenziali per una canzone di protesta di successo.

Bob Dylan, il cui nome è quasi sinonimo di musica impegnata degli anni ’60, cita Guthrie come una delle sue influenze principali. Ma nonostante la propria reputazione, Dylan nega di essere scrittore di canzoni di protesta. Insiste invece nel dire che i suoi brani, come Blowin’ in the Wind e Times They Are a Changin’, siano stati prima cooptati dai sostenitori dei diritti civili e dai manifestanti contro la guerra del Vietnam e poi impregnati di significato fino a renderli i brani identificativi di questi movimenti. E mentre i suoi pezzi venivano cantati a innumerevoli manifestazioni e presidi e ballati nei concerti, Dylan cercava di prendere le distanze dall’etichetta di leader di movimento.

Mentre Bob Dylan compie dei passi in avanti per la propria carriera, abbandonando la chitarra acustica in favore di quella elettrica in una mossa che sconvolge e indigna il pubblico del Newport Folk Festival del 1965, è ormai troppo tardi perché possa recuperare la proprietà sulla sua musica: secondo Lynskey, Dylan “perde la proprietà sulle proprie canzoni e sulle loro sfumature”. Le canzoni entrano nella storia come parte inscindibile del movimento per i diritti civili, sotto il controllo di chi le ha rese canti di protesta.

 

Protestare con il soul

Nello stesso momento del boom della musica folk, anche la popolarità del soul esplode. Negli anni Cinquanta, gli artisti neri iniziano a sviluppare un genere, il soul, che ha le proprie radici nel gospel, nel blues e nel jazz e che si contrappone in maniera decisa alle ingiustizie sociali dell’epoca.

Questi pezzi esplicitamente di protesta prendono il nome di “freedom songs”. L’etnomusicologa Tamara Roberts (Università della California Berkeley), ritiene che siano “particolarmente potenti perché sono nati in seno alla tradizione della chiesa afroamericana da un corpus condiviso di canzoni e sono quindi già in possesso di una storia”. Gli artisti che hanno composto queste canzoni contribuiscono a galvanizzare la comunità nera che partecipa al movimento per i diritti civili, dando agli attivisti un nuovo modo di esprimere sia le proprie speranze sia la frustrazione.

La prima canzone di protesta della cantautrice Nina Simone è esemplificativa dell’epoca. Scritta nel 1963 in seguito all’assassinio dell’attivista Medgar Evers in Mississippi e dopo che quattro giovani ragazze nere erano morte nell’attacco bomba alla Chiesa Battista della 16esima strada a Birmingham (Alabama), Mississippi Goddam diventa l’infuocato inno della protesta politica nera. Il testo esprime il rifiuto di conformarsi all’allora diffusa richiesta di “andarci piano” nel rivendicare la fine della segregazione razziale e cita le ingiustizie che la gente nera affronta quotidianamente.

Sam Cooke si pone su un piano diverso con A Change Is Gonna Come (1964), una traccia che esprime meno rabbia e più rassegnata speranza. What’s Going On di Marvin Gaye (primi anni ’70) potrebbe essere applicata a diverse rivendicazioni. “Fa allusione a tutti i cambiamenti sociali e a tutte le lotte in corso”, dice Roberts, “ma continua a tornare su questa dichiarazione, a volte una domanda, che può essere rivolta a molteplici persone e istituzioni”.

Poco dopo, nel 1971, il poeta e cantante Gil Scott-Heron lancia The Revolution Will Not Be Televised, un’ode parlata che fonde poesia e jazz al fine di creare una forma d’arte di protesta specificatamente afroamericana. Heron compone la canzone nel pesante clima politico che circonda la guerra del Vietnam e la sparatoria alla Kent State University (Ohio), che scatenano manifestazioni attraverso tutti gli Stati Uniti. The Revolution Will Not Be Televised dichiara che i movimenti politici appartengono a coloro che protestano: non ai media, non al governo, ma piuttosto agli attivisti e a coloro che vogliono promuovere il cambiamento.

 

Rap, rock e critica sociale negli anni ’80 e ’90

Con la fine della guerra del Vietnam, che aveva ispirato una moltitudine di canzoni di protesta, gli anni ’80 e ’90 portano un clima politico relativamente più calmo. E poiché i movimenti incentrati sui diritti civili perdono di centralità, la musica si concentra su tematiche di critica sociale a più ampio respiro.

Come era avvenuto con l’avvento della registrazione negli anni ’30, è lo strumento del video musicale a connotare queste decadi: MTV e VH1 incorporano alla musica le immagini, dando agli artisti un nuovo modo di esprimere sé stessi e le proprie opinioni.

Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 nascono il punk e il punk-rock, che danno vita a canzoni come Nazi Punks Fuck Off e Holiday in Cambodia, entrambe dei Dead Kennedys. Se il significato della prima è limpido, la seconda è un’acuta critica sociale che istituisce un paragone tra la vita agiata dei ventenni Americani benestanti e gli orrori della dittatura degli Khmer Rossi in Cambogia.

Sempre negli anni ’80, il rap diventa incredibilmente popolare con Fuck Tha Police degli N.W.A., una feroce critica alla brutalità della polizia. Fight The Power dei Public Enemy, con la sua chiamata alle armi “We’ve gotta fight the powers that be”, segue la stessa tendenza del rap di lotta. Un decennio più tardi, la band californiana, Rage Against the Machine, sfodera innumerevoli hit rap-rock come Sleep Now in the Fire, dedicata alla colonizzazione dell’America e alle bombe atomiche nella seconda guerra mondiale, e Testify, nel cui video vengono presi di mira Bush, Al Gore e la politica statunitense.

Quest’epoca vede anche la nascita del primo movimento rock specificatamente femminista: negli anni ’90 nasce infatti il cosiddetto riot grrrl, che è stato a lungo ricordato, nonostante la sua breve durata. Le riot grrrls si riuniscono con il conclamato obiettivo di lottare contro le restrizioni ai diritti riproduttivi promosse dal governo Bush, di protestare contro l’apartheid e in generale di lavorare per l’abbattimento del patriarcato.

La hit delle Bikini Kill Rebel Girl (1993) approccia il tema dell’amore tra lesbiche (ed è stata utilizzata in un video virale di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016), mentre A Real Man delle Sleater Kinney (1995) rivendica la scelta di rifiutare le avance di un uomo. Il movimento delle riot grrrls scompare a metà degli anni ’90, ma il suo atteggiamento grintoso è un chiaro esempio della frustrazione dell’epoca.

Gli anni ’80 e ’90 non producono una grande quantità di canzoni impegnate, ma hanno posto le basi per capire come sono le composizioni politicamente impegnate in un’epoca dove non esiste alcun grande movimento unitario. Nei pezzi, orientati soprattutto alla critica sociale, emergono alcuni temi comuni: femminismo, privilegi e brutalità della polizia; tutte tematiche che non sembrano ancora subire alcun miglioramento.

 

Bush e 11 settembre: la parziale rinascita della musica di protesta

La musica di protesta tende generalmente a fiorire in tempi di grande sconvolgimento politico. Dopo una relativa mancanza di turbolenze negli anni ’90, si poteva presumere che gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la conseguente invasione dell’Iraq ad opera di George W. Bush le avrebbero ridato nuova vita.

Ma mentre l’epoca successiva all’11 settembre favorisce l’insorgenza di profonde emozioni, frustrazioni e disordini che aiutano i cantanti a produrre alcuni capolavori, la mancanza di un movimento politico unitario impedisce la comparsa di una musica di protesta del nuovo millennio.

Questo non significa che non ci siano stati dei tentativi. Gruppi come i Green Day e i Bright Eyes criticano in chiave satirica la direzione che gli Stati Uniti hanno preso dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq. American Idiot dei Green Day, brano che dà il titolo al loro album del 2004, si concentra in particolare su quest’ultima e il cantante Billie Joe Armstrong fa specifico riferimento al modo in cui la copertura mediatica a ciclo continuo usando toni propagandistici abbia operato un lavaggio del cervello alla nazione forzandola a credere a ogni cosa passasse in televisione.

Il cantautore indie Conor Oberst (vero nome di Bright Eyes), nel 2005 lancia When the President Talks to God, aspra critica a Bush che esegue dal vivo in completa tenuta da cowboy al programma The Tonight Show with Jay Leno. Neil Young compone Let’s Impeach the President nel 2006; Natalie Maines, cantante delle Dixie Chicks, durante un concerto a Londra nel 2003, offende pubblicamente Bush, ponendo fine in questo modo alla stratosferica ascesa della band; mentre il rapper Sage Francis in Makeshift Patriot (ottobre 2001) critica la copertura mediatica data agli attacchi dell’11 settembre.

Questi artisti, e altri ancora, mantengono viva la tradizione di protesta musicale. E tuttavia, Bush viene rieletto, le truppe americane rimangono in Iraq e non rinasce alcun movimento politico coeso. A tal proposito, nel suo libro Dorian Lynskey cita Wayne Coyne dei Flaming Lips: “Non è come con il Vietnam. […] I giovani non stanno morendo allo stesso modo. Non c’è nessuna protesta seria. Non è che chi ascolta musica sia davvero impotente, è che semplicemente non gliene frega un cazzo.” La gente è scioccata dall’11 settembre e dalla guerra in Iraq; ma senza una lotta specifica e duratura, le canzoni di protesta non hanno nulla a cui fare da sottofondo.

I brani dell’era successiva all’11 settembre, pur essendo potenti se considerati singolarmente, sono indipendenti l’uno dall’altro: non sono inni di movimento, ma isolate esplosioni di rabbia e frustrazione.

 

Black Lives Matter, femminismo e identità queer nell’era di Obama

Questi pezzi vengono rapidamente relegati nel passato politico con l’elezione di Barack Obama nel 2008. Con un democratico alla Casa Bianca per la prima volta in otto anni e con il primo presidente nero in assoluto, ci si concentra su un diverso tipo di composizione: la canzone di empowerment.

I brani composti sotto Obama tendono più a celebrare l’identità delle minoranze o a supportarne i movimenti. In maniera simile a quanto accaduto negli anni ’80 e ’90 in un clima politico disteso, ma rinfrancata dall’elezione di un presidente nero, progressista e ampiamente celebrato, la musica inizia a concentrarsi su lotte di più lunga durata.

Lady Gaga canta in favore della definitiva accettazione delle persone queer nella sua hit del 2011 Born This Way; Alright di Kendrick Lamar diviene un inno non ufficiale del movimento Black Lives Matter e Beyoncé sdogana il femminismo nel brano Flawless e nell’album del 2014 che porta il suo nome.

Quando Obama viene eletto, Internet è già uno strumento indispensabile per la condivisione di musica. Ma è sotto la sua presidenza che i social network acquisiscono quella capacità di influenzare l’opinione pubblica che hanno oggi: Twitter, Facebook e YouTube nascono nel 2005, ma la loro popolarità cresce verso la fine del decennio. I social media promuovono un nuovo modo di condividere canzoni, dal momento che gli artisti possono raggiungere tutti i loro fan nel giro di pochi secondi. Analogamente nasce una nuova forma di protesta politica.

Prendiamo il caso di Formation di Beyoncè, che la cantante pubblica a sorpresa sul suo canale YouTube il giorno prima della sua esibizione al Super Bowl del 2016. Il video è composto da un montaggio di immagini che mostrano in sequenza il passaggio dell’uragano Katrina a New Orleans, poliziotti in assetto antisommossa e riferimenti al movimento Black Lives Matter e fornisce il contesto per capire la performance dell’artista al Super Bowl: uno spettacolo direttamente ispirato alle Pantere Nere. In poche ore, l’hashtag #Formation diventa un trend, fornendo alle persone uno spazio dove commentare il video, l’artista e le questioni proposte.

 

Una nuova epoca di viralità

Come Beyoncé ha reso chiaro, quando si tratta di aggregare e galvanizzare un pubblico, la musica di oggi ha un punto di forza rispetto a quella degli anni passati: la viralità. Le canzoni contemporanee si diffondono immediatamente online, soprattutto quando sono corredate da video significativi.

I Gorillaz, gruppo hip-hop e rap britannico, lanciano il loro primo singolo dal 2012, Hallelujah Money, il fine settimana precedente all’inaugurazione di Donald Trump. Il video del brano anti-Trump (che ha raggiunto più di 5,5 milioni di visualizzazioni) riproduce l’artista Benjamin Clementine mentre parla davanti a uno sfondo di immagini proiettate tra cui si vedono il Ku Klux Klan e degli arcobaleni.

A volte la viralità di una canzone è così forte da sconfinare dal mondo di internet a quello reale. Prima della marcia delle donne a Washington, il musicista di Los Angeles MILCK organizza online un gruppo di cantanti provenienti da tutto il paese e insegna loro una canzone sul femminismo intitolata Quiet. Il giorno della manifestazione, il gruppo (parte del movimento pussyhat) si incontra ed esegue la canzone, in stile flash mob, per le strade di Washington. Come nei canti “a botta e risposta” del passato, il coro è abbastanza semplice da far sì che un gruppo di persone possa facilmente impararlo online.

Interagire con tali canzoni e video è essa stessa una forma di protesta: anche se le persone non si riuniscono in massa spontaneamente per cantare, guardare un video o ascoltare un brano e poi postarlo sui social media, segnala il proprio interesse e il proprio impegno nei confronti della causa che tale canzone esprime. Quanti più “mi piace” e condivisioni un video riceve, tanto più forte è il sostegno delle persone a questa causa, anche se solo online.

D’altra parte, Roberts ritiene che alcune canzoni di protesta potrebbero funzionare meglio fuori della sfera online: “Penso che ora abbiamo bisogno di canzoni che possano essere condivise da chiunque e imparate velocemente, che possano essere parte di una protesta duratura e che riescano a convincere la gente a partecipare alla protesta più a lungo”.

 

La replica della musica a Trump

Nel corso della campagna presidenziale di Donald Trump, la musica forma un sottofondo di dissenso: artisti come Adele, Neil Young e i Queen diffidano Trump dall’utilizzare le loro canzoni durante i suoi convegni. Decine di cantanti prendono parola contro di lui nei loro concerti e sui social media. Nonostante ciò, Trump vince.

Con centinaia di migliaia di manifestanti scesi in piazza da quando è entrato in carica (marcia delle donne, marcia per la scienza e proteste negli aeroporti contro il “muslim ban”), l’aria è matura perché i musicisti si diano alla contestazione politica. Ma c’è un ulteriore elemento che avvantaggia i musicisti contemporanei rispetto ai brani impegnati delle epoche precedenti: lo stesso Trump.

Con i suoi atteggiamenti, discorsi e azioni, Trump manifesta il suo essere distante dalle norme e dai valori socialmente condivisi. A partire dal nastro di Access Hollywood, dove ha ammesso di aver molestato sessualmente delle donne, fino alla sua derisione di un giornalista disabile e al celebre “muslim ban” (ormai bloccato), il presidente stesso fornisce abbastanza carburante per alimentare la composizione di innumerevoli canzoni di protesta.

I pezzi Tiny Hands di Fiona Apple (“We don’t want your tiny hands anywhere near our underpants”) e Locker Room Talk dei Cold War Kids (“Dirt in your mouth / mic on the sleeve / we all heard how it sounded”) riflettono questo approccio ad hominem di protesta contro la presidenza Trump. In queste tracce, la Apple e i Cold War Kids riprendono lo stile ricco di rapidi scoppi d’ira che ha caratterizzato il periodo dopo l’11 settembre, con testi che sfruttano argomenti ben noti (le dimensioni delle mani di Trump, il nastro di Access Hollywood) e danno agli ascoltatori qualcosa di concreto a cui aggrapparsi, più che una vera e propria causa cui dedicarsi.

Anche i A Tribe Called Quest incanalano questa rabbia verso il nuovo presidente durante la loro performance ai Grammys del 2017, dove Busta Rhymes ringhia: “I just want to thank President Agent Orange for perpetuating all of the evil that you’ve been perpetuating throughout the United States / I want to thank President Agent Orange for the unsuccessful attempt at a Muslim Ban”, prima che il gruppo lanci We the People … , la loro nuova canzone politicamente connotata, in cui fanno aperto riferimento alle deportazioni e alla brutalità della polizia.

L’album in cui la canzone appare, tuttavia, era stato pubblicato prima dell’elezione di Trump. We got It from Here … Thank You 4 Your service, il primo album dei Tribe dopo 18 anni, è quello che Kwame Opam a The Verge ha definito “la quintessenza della musica di protesta” e contiene brani su immigrazione, sessismo e violenza della polizia. Si tratta di problemi sistemici, ma che possono essere facilmente incanalati in una rabbia personale verso Trump, come si vede nella loro performance ai Grammys.

Le politiche di Trump forniscono un ampio bacino di argomenti da cui attingere. Ciò dà origine a canzoni che riguardano i temi tipico del rapporto con le autorità e dei diritti umani e incoraggia i cantanti a scrivere brani i cui proventi vengono destinati a organizzazioni che potrebbero essere danneggiate da Trump. Il progetto 100 Days, 100 Songs è una continuazione dell’iniziativa nata nel periodo precedente alle elezioni 30 Days, 30 Songs: una serie di artisti, soprattutto indie, rilascia una canzone al giorno, i cui proventi vanno a sostenere organizzazioni che potrebbero essere influenzate negativamente dalle politiche del presidente, come Planned Parenthood e la American Civil Liberties Union (che hanno già visto un’impennata nelle donazioni dopo l’elezione di Trump). Analogamente, gli Arcade Fire e Mavis Staples pubblicano, alla vigilia dell’inaugurazione di Trump, I Give You Power, una traccia palpitante che parla della presa e della cessione del potere, i cui proventi sono stati interamente donati alla ACLU.

Ma la protesta musicale non deve essere accompagnata da donazioni o fare aperto riferimento a Trump e alle sue politiche per essere efficace, in particolare se si basa sulla tradizione nazionale della musica di protesta.

Mentre Lady Gaga, nota oppositrice di Trump (che ha definito “uno dei più famigerati bulli che abbiamo mai visto” in un tweet di novembre) si prepara per esibirsi nello spettacolo dell’intervallo del Super Bowl del 2017, dichiara in conferenza stampa: “le dichiarazioni che farò durante lo spettacolo sono le stesse che ho costantemente svolto in tutta la mia carriera”. Data la sua storia, è ragionevole aspettarsi che un messaggio anti-Trump, sottile o meno, farà capolino dalla sua performance.

Ma poi Gaga da avvio alla sua esibizione con una riproduzione in sequenza di God Bless America di Irving Berlin e di This Land is Your Land di Woody Guthrie, la famosa contestazione a Berlin che si erge a difesa delle minoranze sotto-rappresentate e inascoltate. Il centro della sua performance è l’inno queer Born This Way, che riesce nel tendere una mano in solidarietà di un enorme gruppo di persone emarginate durante l’evento sportivo più seguito dell’anno, senza che Trump o le sue politiche vengano mai menzionate per nome.

L’esibizione di Gaga funziona come protesta non attraverso l’estetica che i A Tribe Called Quest hanno usato ai Grammys, ma piuttosto attraverso i riferimenti alla tradizione americana della canzone di protesta e l’utilizzo di uno dei più grandi inni di empowerment dell’ultimo decennio.

 

I prossimi quattro anni

Unire una canzone di protesta tradizionale ad un inno di empowerment del nuovo millennio come ha fatto Lady Gaga potrebbe essere la chiave per creare la prossima generazione di una musica protesta che sia inclusiva e guardi al futuro. E anche se può essere difficile azzeccare la giusta canzone per chiamare all’azione, secondo Roberts (UC Berkeley) la musica di protesta può avere successo se scava nel passato.

“Le tradizioni ritornano, a volte perché il loro immaginario è particolarmente toccante, e talvolta perché l’esecuzione stessa è speciale”. Per esempio gli spirituals del XIX secolo sono stati ripresi negli anni Sessanta e hanno avuto un sacco di successo durante l’era del movimento per i diritti civili. Forse è per questo che A Change Is Gonna Come è ancora oggi considerato un inno.

Roberts è sicura che la musica pop tornerà a occuparsi di politica e questo potrà contribuire a creare un dialogo produttivo. “Ma voglio vedere più brani che dipingano la nostra visione del futuro e non siano una mera reazione agli eventi. Voglio che cominciamo a capire la storia degli altri”. Ciò significa meno canzoni ultraspecifiche sul solco di Tiny Hands di Fiona Apple e simili ad Alright di Kendrick Lamar. Canzoni che creino un dialogo sul futuro desiderato, invece di ruminare sulle ingiustizie e le frustrazioni del presente.

La cultura che creiamo in tempi come questi è essenziale, dice Roberts. “Questa è parte di ciò che ci ha sostenuto in passato e parte di ciò che ci sostiene adesso e che ci permette di connetterci tra di noi come esseri umani”. Ma come ci ricorda Dorian Lynskey al termine del suo libro: che la musica abbia o meno un seguito nella realtà “dipende da tutti noi”.

 


Questa è una traduzione della prima versione di questo articolo datata 22/05/2017.