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Storia della musica di protesta americana: da “Yankee Doodle” a Kendrick Lamar

venerdì, Settembre 1st, 2017

Come la musica di protesta è passata dagli stornelli della guerra civile ai video virali di Trump

Father John Misty, il sarcastico e cinico musicista dietro al successo del 2015 Bored in th USA, non è mai stato uno da astenersi dal fare critica sociale. Ma il suo terzo album, pubblicato il 7 aprile, si spinge ad un altro livello. Pure Comedy è infarcito di critiche sulla religione, il fanatismo religioso e la politica ed è accompagnato da video con montaggi di scene tratte dal giorno dell’inaugurazione di Trump e immagini di bambini che giocano con delle armi.

Anche se non è la prima volta che l’artista nel proprio lavoro si occupa di capitalismo e fragilità della società, questo disco ha un obiettivo più preciso: infatti è un vero e proprio album di protesta, sebbene composto con lo stile moralista e leggermente pretenzioso tipico di Misty. Con tracce dal titolo evocativo quali Things It Would Have Been Helpful to Know Before the Revolution e Two Wildly Different Perspectives e testi che danno delle stoccate agli “idioti eletti” e al surriscaldamento globale, vengono chiaramente presi di mira temi come la politica, il fanatismo religioso e l’ambiente.

Misty non è né il primo né l’unico artista ad aver composto musica di protesta. Al contrario. Questa è sempre stata una forma essenziale di espressione politica negli USA e in tempi di disordini politici e sociali, diventa un rifugio fondamentale sia per i musicisti, per i quali diviene una valvola di sfogo dove esprimere le proprie frustrazioni e convinzioni, sia per gli ascoltatori che hanno bisogno di un grido di battaglia.

A partire dai canti con struttura a “botta e risposta” fino ai video virali, la storia dell’evoluzione musicale di queste canzoni e del modo in cui si sono adattate alla tecnologia ci informa su quello che la musica di protesta è pronta a diventare oggi: una colonna sonora ad un’epoca di massiccia mobilitazione sociale che sia in grado di commuovere e dimostri grande qualità artistica.

 

Breve introduzione alla musica di protesta

La musica di protesta esiste da secoli: non appena se ne ha abbastanza dello status quo, si inizia a cantare il proprio dissenso. E poiché gli stili musicali, le emozioni umane e le questioni sociali sono così variegati, anche i canti di protesta lo sono.

Tali canzoni sono di solito scritte per essere parte di un movimento che lotta per cambiamenti culturali o politici e per galvanizzare quel movimento unendo le persone e ispirandole ad agire.

Le canzoni di protesta sono spesso di inclinazione liberale e di solito rientrano in due categorie principali: composizioni a tematica politica (che contestano il governo) oppure culturalmente orientate (che mirano a raccontare le ingiustizie affrontate dai gruppi emarginati).

Questa ampia categorizzazione lascia ampia libertà di sperimentazione ai cantautori e i brani possono essere di volta in volta tranquilli e tormentati, vivaci e spiccatamente critici, oppure semplici e accattivanti. E anche in momenti in cui non ci sono grandi mobilitazioni politiche o cambiamenti dei paradigmi culturali all’orizzonte, i musicisti possono continuare a contribuire al corpus con dei brani audaci riguardanti questioni più sottili.

 

Musica di protesta 1.0: guerra e schiavitù attraverso il canto

Le prime canzoni di protesta americane vengono create per uno scopo: aggregare le persone intorno ad una causa comune. Le melodie, semplici e ripetitive, sono spesso tratte da inni sacri o da canzoni che le persone già conoscevano, con testi composti in forma di “botta e risposta” di facile memorizzazione. Tali canzoni sono meno musicalmente raffinate, ma servono uno scopo.

La tradizione risale al periodo della fondazione del paese. Free America è una delle prime canzoni di protesta dei nascenti Stati Uniti: una chiamata alle armi composta dal rivoluzionario Joseph Warren. Yankee Doodle, oggi popolare canzone per bambini, viene invece scritta dai soldati inglesi per farsi beffe dei loro omologhi americani e successivamente ripresa e modificata dagli Americani per insultare i Britannici.

Le prime canzoni di lotta largamente conosciute negli Stati Uniti sono composte dagli schiavi, per lo più derivate da inni sacri aventi come temi la libertà o la fuga. Go Down, Moses, basata sull’episodio biblico di Mosè che libera gli Israeliti dalla schiavitù in Egitto, è stata addirittura utilizzata da Harriet Tubman come codice personale durante il suo servizio per la Underground Railroad. Gli spirituals hanno fornito l’opportunità di riunirsi, condividere sentimenti, lamentarsi o gioire.

Durante la guerra civile, gli Unionisti fanno propria John Brown’s Body. Cantata sulla melodia di The Battle Hymn of the Republic (celebre canto da accampamento con struttura a “botta e risposta”), John Brown’s Body prende il nome del noto antischiavista il cui assalto all’arsenale della città di Harpers Ferry (Virginia) ha esacerbato le tensioni che avrebbero portato allo scoppio della guerra civile.

Il testo ripete “John Brown giace nella tomba là nel pian / ma l’anima vive ancor”; mentre un verso successivo chiede di appendere Jefferson Davis, leader dei Confederati, ad un albero di mele. Questo testo è un tipico esempio dei canti di protesta del tempo: è semplice e ripetitivo e quindi facile da imparare e condividere con gli altri, caratteristiche che hanno contribuito a rendere la canzone una delle preferite dagli Unionisti.

 

La rinascita artistica: lotte razziali nel primo Novecento

Mentre l’America esce dalla guerra civile e le divisioni di classe e razza si accentuano, la musica di protesta cambia e si adatta al gusto musicale del primo Novecento.

La registrazione musicale elettronica comincia a diffondersi negli anni Trenta e radio e dispositivi di riproduzione audio facilitano la distribuzione su larga scala. L’avvento di questa nuova tecnologia rende possibile la proliferazione del canto in una dimensione esterna a quella della tradizione orale e guida la musica nella sua prima fase “pop”, grazie a generi come il jazz e il ragtime. La musica di protesta fa la stessa cosa, con melodie e testi tecnicamente più complessi rispetto alle semplici canzoni dell’era della guerra civile.

Il più fulgido esempio di questo periodo è Strange Fruit di Billie Holiday (1939). Come scrive Dorian Lynskey, giornalista musicale, nel suo libro 33 Revolutions Per Minute: A History of Protest Songs, From Billie Holiday to Green Day, il brano della Holiday è stato il primo nel suo genere, riuscendo a portare le canzoni di protesta nel regno della musica pop: “fino a questo momento, le canzoni di protesta avevano funzionato come mera propaganda, ma Strange Fruit ha dimostrato che potevano diventare arte”.

Strange Fruit attrae gli ascoltatori con la sua melodia vellutata e oscura e ne cattura l’attenzione con versi riguardanti i linciaggi che avvengono nel sud del paese. Il brano è una malinconica riflessione sui disordini civili del sud e utilizza la trasparente metafora dei frutti per evocare la vivida immagine dei corpi neri impiccati.

A differenza delle canzoni di protesta dell’epoca della guerra civile, Strange Fruit non è uno slogan o una chiamata alle armi, ma piuttosto uno straziante commento sullo stato del Paese, concepito perché la gente si interessasse al problema.

Strange Fruit ha ispirato un’approvazione entusiastica o una vera e propria repulsione fisica: in ogni caso, la risposta del pubblico è stata viscerale. Secondo Lynskey, la canzone era quasi totalmente vietata alla radio, il che significa che la maggior parte degli Americani se ne avevano sentito parlare, lo avevano fatto tramite il passaparola o la vivida descrizione delle performance della Holiday.

Dopo la morte della Holiday nel 1959, Strange Fruit è entrata nel corpus dei canti di protesta come un pezzo d’arte unico: una poesia che ha colpito un nervo scoperto. La canzone è qualcosa di più di uno slogan ripetitivo per le trincee; è un pezzo di cultura popolare, qualcosa che può sia essere apprezzato in un bar fumoso e sia suscitare in seguito discussioni, diffondendo insoddisfazione nei confronti dello status quo con una composizione bella e inquietante.

 

L’alba della musica folk

La musica di protesta si diffonde ulteriormente quando il folk inizia a essere passato in radio nel secondo dopoguerra e continua a dominare la scena musicale impegnata durante tutto il periodo che condurrà ai turbolenti anni ’70. Artisti folk come Pete Seeger e, un decennio dopo, Joan Baez e il trio Peter, Paul e Mary utilizzano una forma prevalentemente acustica per trasmettere la propria visione politica a una nazione in lotta per i diritti civili che sta per imbarcarsi in una guerra contro il Vietnam.

La musica, caratterizzata ora da composizioni di alta qualità artistica e testi contenenti sia pesanti metafore sia commenti politici diretti, unifica le diverse lotte. Poiché le canzoni vengono trasmesse in televisione ed eseguite in enormi concerti, i fan e i manifestanti possono interagire e fare proprie le canzoni in un modo completamente nuovo.

Woody Guthrie, cantautore dell’Oklahoma, è probabilmente il nome più conosciuto del genere e colui che ha dato inizio al movimento del folk di protesta. Guthrie era cresciuto tra la classe proletaria del Dust Bowl, ascoltando le canzoni di lotta del cantautore sindacalista Joe Hill e discutendo di socialismo seduto attorno ai falò.

Guthrie compone This Land is Your Land come risposta polemica alla grande hit God Bless America del popolarissimo compositore di Broadway Irving Berlin. Nella versione per la grande distribuzione vengono tagliati alcuni dei versi più critici, quali ad esempio: “There was a big high wall there that tried to stop me / The sign was painted, said ‘Private Property’”.

La canzone è diventata un inno per la classe operaia da cui egli proveniva e ciò è stato facilitato dalla sua reputazione come genuino sostenitore della causa. Le canzoni di Guthrie sono state viste come oneste e vissute, prive di lusinghe: tutte caratteristiche essenziali per una canzone di protesta di successo.

Bob Dylan, il cui nome è quasi sinonimo di musica impegnata degli anni ’60, cita Guthrie come una delle sue influenze principali. Ma nonostante la propria reputazione, Dylan nega di essere scrittore di canzoni di protesta. Insiste invece nel dire che i suoi brani, come Blowin’ in the Wind e Times They Are a Changin’, siano stati prima cooptati dai sostenitori dei diritti civili e dai manifestanti contro la guerra del Vietnam e poi impregnati di significato fino a renderli i brani identificativi di questi movimenti. E mentre i suoi pezzi venivano cantati a innumerevoli manifestazioni e presidi e ballati nei concerti, Dylan cercava di prendere le distanze dall’etichetta di leader di movimento.

Mentre Bob Dylan compie dei passi in avanti per la propria carriera, abbandonando la chitarra acustica in favore di quella elettrica in una mossa che sconvolge e indigna il pubblico del Newport Folk Festival del 1965, è ormai troppo tardi perché possa recuperare la proprietà sulla sua musica: secondo Lynskey, Dylan “perde la proprietà sulle proprie canzoni e sulle loro sfumature”. Le canzoni entrano nella storia come parte inscindibile del movimento per i diritti civili, sotto il controllo di chi le ha rese canti di protesta.

 

Protestare con il soul

Nello stesso momento del boom della musica folk, anche la popolarità del soul esplode. Negli anni Cinquanta, gli artisti neri iniziano a sviluppare un genere, il soul, che ha le proprie radici nel gospel, nel blues e nel jazz e che si contrappone in maniera decisa alle ingiustizie sociali dell’epoca.

Questi pezzi esplicitamente di protesta prendono il nome di “freedom songs”. L’etnomusicologa Tamara Roberts (Università della California Berkeley), ritiene che siano “particolarmente potenti perché sono nati in seno alla tradizione della chiesa afroamericana da un corpus condiviso di canzoni e sono quindi già in possesso di una storia”. Gli artisti che hanno composto queste canzoni contribuiscono a galvanizzare la comunità nera che partecipa al movimento per i diritti civili, dando agli attivisti un nuovo modo di esprimere sia le proprie speranze sia la frustrazione.

La prima canzone di protesta della cantautrice Nina Simone è esemplificativa dell’epoca. Scritta nel 1963 in seguito all’assassinio dell’attivista Medgar Evers in Mississippi e dopo che quattro giovani ragazze nere erano morte nell’attacco bomba alla Chiesa Battista della 16esima strada a Birmingham (Alabama), Mississippi Goddam diventa l’infuocato inno della protesta politica nera. Il testo esprime il rifiuto di conformarsi all’allora diffusa richiesta di “andarci piano” nel rivendicare la fine della segregazione razziale e cita le ingiustizie che la gente nera affronta quotidianamente.

Sam Cooke si pone su un piano diverso con A Change Is Gonna Come (1964), una traccia che esprime meno rabbia e più rassegnata speranza. What’s Going On di Marvin Gaye (primi anni ’70) potrebbe essere applicata a diverse rivendicazioni. “Fa allusione a tutti i cambiamenti sociali e a tutte le lotte in corso”, dice Roberts, “ma continua a tornare su questa dichiarazione, a volte una domanda, che può essere rivolta a molteplici persone e istituzioni”.

Poco dopo, nel 1971, il poeta e cantante Gil Scott-Heron lancia The Revolution Will Not Be Televised, un’ode parlata che fonde poesia e jazz al fine di creare una forma d’arte di protesta specificatamente afroamericana. Heron compone la canzone nel pesante clima politico che circonda la guerra del Vietnam e la sparatoria alla Kent State University (Ohio), che scatenano manifestazioni attraverso tutti gli Stati Uniti. The Revolution Will Not Be Televised dichiara che i movimenti politici appartengono a coloro che protestano: non ai media, non al governo, ma piuttosto agli attivisti e a coloro che vogliono promuovere il cambiamento.

 

Rap, rock e critica sociale negli anni ’80 e ’90

Con la fine della guerra del Vietnam, che aveva ispirato una moltitudine di canzoni di protesta, gli anni ’80 e ’90 portano un clima politico relativamente più calmo. E poiché i movimenti incentrati sui diritti civili perdono di centralità, la musica si concentra su tematiche di critica sociale a più ampio respiro.

Come era avvenuto con l’avvento della registrazione negli anni ’30, è lo strumento del video musicale a connotare queste decadi: MTV e VH1 incorporano alla musica le immagini, dando agli artisti un nuovo modo di esprimere sé stessi e le proprie opinioni.

Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 nascono il punk e il punk-rock, che danno vita a canzoni come Nazi Punks Fuck Off e Holiday in Cambodia, entrambe dei Dead Kennedys. Se il significato della prima è limpido, la seconda è un’acuta critica sociale che istituisce un paragone tra la vita agiata dei ventenni Americani benestanti e gli orrori della dittatura degli Khmer Rossi in Cambogia.

Sempre negli anni ’80, il rap diventa incredibilmente popolare con Fuck Tha Police degli N.W.A., una feroce critica alla brutalità della polizia. Fight The Power dei Public Enemy, con la sua chiamata alle armi “We’ve gotta fight the powers that be”, segue la stessa tendenza del rap di lotta. Un decennio più tardi, la band californiana, Rage Against the Machine, sfodera innumerevoli hit rap-rock come Sleep Now in the Fire, dedicata alla colonizzazione dell’America e alle bombe atomiche nella seconda guerra mondiale, e Testify, nel cui video vengono presi di mira Bush, Al Gore e la politica statunitense.

Quest’epoca vede anche la nascita del primo movimento rock specificatamente femminista: negli anni ’90 nasce infatti il cosiddetto riot grrrl, che è stato a lungo ricordato, nonostante la sua breve durata. Le riot grrrls si riuniscono con il conclamato obiettivo di lottare contro le restrizioni ai diritti riproduttivi promosse dal governo Bush, di protestare contro l’apartheid e in generale di lavorare per l’abbattimento del patriarcato.

La hit delle Bikini Kill Rebel Girl (1993) approccia il tema dell’amore tra lesbiche (ed è stata utilizzata in un video virale di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016), mentre A Real Man delle Sleater Kinney (1995) rivendica la scelta di rifiutare le avance di un uomo. Il movimento delle riot grrrls scompare a metà degli anni ’90, ma il suo atteggiamento grintoso è un chiaro esempio della frustrazione dell’epoca.

Gli anni ’80 e ’90 non producono una grande quantità di canzoni impegnate, ma hanno posto le basi per capire come sono le composizioni politicamente impegnate in un’epoca dove non esiste alcun grande movimento unitario. Nei pezzi, orientati soprattutto alla critica sociale, emergono alcuni temi comuni: femminismo, privilegi e brutalità della polizia; tutte tematiche che non sembrano ancora subire alcun miglioramento.

 

Bush e 11 settembre: la parziale rinascita della musica di protesta

La musica di protesta tende generalmente a fiorire in tempi di grande sconvolgimento politico. Dopo una relativa mancanza di turbolenze negli anni ’90, si poteva presumere che gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la conseguente invasione dell’Iraq ad opera di George W. Bush le avrebbero ridato nuova vita.

Ma mentre l’epoca successiva all’11 settembre favorisce l’insorgenza di profonde emozioni, frustrazioni e disordini che aiutano i cantanti a produrre alcuni capolavori, la mancanza di un movimento politico unitario impedisce la comparsa di una musica di protesta del nuovo millennio.

Questo non significa che non ci siano stati dei tentativi. Gruppi come i Green Day e i Bright Eyes criticano in chiave satirica la direzione che gli Stati Uniti hanno preso dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq. American Idiot dei Green Day, brano che dà il titolo al loro album del 2004, si concentra in particolare su quest’ultima e il cantante Billie Joe Armstrong fa specifico riferimento al modo in cui la copertura mediatica a ciclo continuo usando toni propagandistici abbia operato un lavaggio del cervello alla nazione forzandola a credere a ogni cosa passasse in televisione.

Il cantautore indie Conor Oberst (vero nome di Bright Eyes), nel 2005 lancia When the President Talks to God, aspra critica a Bush che esegue dal vivo in completa tenuta da cowboy al programma The Tonight Show with Jay Leno. Neil Young compone Let’s Impeach the President nel 2006; Natalie Maines, cantante delle Dixie Chicks, durante un concerto a Londra nel 2003, offende pubblicamente Bush, ponendo fine in questo modo alla stratosferica ascesa della band; mentre il rapper Sage Francis in Makeshift Patriot (ottobre 2001) critica la copertura mediatica data agli attacchi dell’11 settembre.

Questi artisti, e altri ancora, mantengono viva la tradizione di protesta musicale. E tuttavia, Bush viene rieletto, le truppe americane rimangono in Iraq e non rinasce alcun movimento politico coeso. A tal proposito, nel suo libro Dorian Lynskey cita Wayne Coyne dei Flaming Lips: “Non è come con il Vietnam. […] I giovani non stanno morendo allo stesso modo. Non c’è nessuna protesta seria. Non è che chi ascolta musica sia davvero impotente, è che semplicemente non gliene frega un cazzo.” La gente è scioccata dall’11 settembre e dalla guerra in Iraq; ma senza una lotta specifica e duratura, le canzoni di protesta non hanno nulla a cui fare da sottofondo.

I brani dell’era successiva all’11 settembre, pur essendo potenti se considerati singolarmente, sono indipendenti l’uno dall’altro: non sono inni di movimento, ma isolate esplosioni di rabbia e frustrazione.

 

Black Lives Matter, femminismo e identità queer nell’era di Obama

Questi pezzi vengono rapidamente relegati nel passato politico con l’elezione di Barack Obama nel 2008. Con un democratico alla Casa Bianca per la prima volta in otto anni e con il primo presidente nero in assoluto, ci si concentra su un diverso tipo di composizione: la canzone di empowerment.

I brani composti sotto Obama tendono più a celebrare l’identità delle minoranze o a supportarne i movimenti. In maniera simile a quanto accaduto negli anni ’80 e ’90 in un clima politico disteso, ma rinfrancata dall’elezione di un presidente nero, progressista e ampiamente celebrato, la musica inizia a concentrarsi su lotte di più lunga durata.

Lady Gaga canta in favore della definitiva accettazione delle persone queer nella sua hit del 2011 Born This Way; Alright di Kendrick Lamar diviene un inno non ufficiale del movimento Black Lives Matter e Beyoncé sdogana il femminismo nel brano Flawless e nell’album del 2014 che porta il suo nome.

Quando Obama viene eletto, Internet è già uno strumento indispensabile per la condivisione di musica. Ma è sotto la sua presidenza che i social network acquisiscono quella capacità di influenzare l’opinione pubblica che hanno oggi: Twitter, Facebook e YouTube nascono nel 2005, ma la loro popolarità cresce verso la fine del decennio. I social media promuovono un nuovo modo di condividere canzoni, dal momento che gli artisti possono raggiungere tutti i loro fan nel giro di pochi secondi. Analogamente nasce una nuova forma di protesta politica.

Prendiamo il caso di Formation di Beyoncè, che la cantante pubblica a sorpresa sul suo canale YouTube il giorno prima della sua esibizione al Super Bowl del 2016. Il video è composto da un montaggio di immagini che mostrano in sequenza il passaggio dell’uragano Katrina a New Orleans, poliziotti in assetto antisommossa e riferimenti al movimento Black Lives Matter e fornisce il contesto per capire la performance dell’artista al Super Bowl: uno spettacolo direttamente ispirato alle Pantere Nere. In poche ore, l’hashtag #Formation diventa un trend, fornendo alle persone uno spazio dove commentare il video, l’artista e le questioni proposte.

 

Una nuova epoca di viralità

Come Beyoncé ha reso chiaro, quando si tratta di aggregare e galvanizzare un pubblico, la musica di oggi ha un punto di forza rispetto a quella degli anni passati: la viralità. Le canzoni contemporanee si diffondono immediatamente online, soprattutto quando sono corredate da video significativi.

I Gorillaz, gruppo hip-hop e rap britannico, lanciano il loro primo singolo dal 2012, Hallelujah Money, il fine settimana precedente all’inaugurazione di Donald Trump. Il video del brano anti-Trump (che ha raggiunto più di 5,5 milioni di visualizzazioni) riproduce l’artista Benjamin Clementine mentre parla davanti a uno sfondo di immagini proiettate tra cui si vedono il Ku Klux Klan e degli arcobaleni.

A volte la viralità di una canzone è così forte da sconfinare dal mondo di internet a quello reale. Prima della marcia delle donne a Washington, il musicista di Los Angeles MILCK organizza online un gruppo di cantanti provenienti da tutto il paese e insegna loro una canzone sul femminismo intitolata Quiet. Il giorno della manifestazione, il gruppo (parte del movimento pussyhat) si incontra ed esegue la canzone, in stile flash mob, per le strade di Washington. Come nei canti “a botta e risposta” del passato, il coro è abbastanza semplice da far sì che un gruppo di persone possa facilmente impararlo online.

Interagire con tali canzoni e video è essa stessa una forma di protesta: anche se le persone non si riuniscono in massa spontaneamente per cantare, guardare un video o ascoltare un brano e poi postarlo sui social media, segnala il proprio interesse e il proprio impegno nei confronti della causa che tale canzone esprime. Quanti più “mi piace” e condivisioni un video riceve, tanto più forte è il sostegno delle persone a questa causa, anche se solo online.

D’altra parte, Roberts ritiene che alcune canzoni di protesta potrebbero funzionare meglio fuori della sfera online: “Penso che ora abbiamo bisogno di canzoni che possano essere condivise da chiunque e imparate velocemente, che possano essere parte di una protesta duratura e che riescano a convincere la gente a partecipare alla protesta più a lungo”.

 

La replica della musica a Trump

Nel corso della campagna presidenziale di Donald Trump, la musica forma un sottofondo di dissenso: artisti come Adele, Neil Young e i Queen diffidano Trump dall’utilizzare le loro canzoni durante i suoi convegni. Decine di cantanti prendono parola contro di lui nei loro concerti e sui social media. Nonostante ciò, Trump vince.

Con centinaia di migliaia di manifestanti scesi in piazza da quando è entrato in carica (marcia delle donne, marcia per la scienza e proteste negli aeroporti contro il “muslim ban”), l’aria è matura perché i musicisti si diano alla contestazione politica. Ma c’è un ulteriore elemento che avvantaggia i musicisti contemporanei rispetto ai brani impegnati delle epoche precedenti: lo stesso Trump.

Con i suoi atteggiamenti, discorsi e azioni, Trump manifesta il suo essere distante dalle norme e dai valori socialmente condivisi. A partire dal nastro di Access Hollywood, dove ha ammesso di aver molestato sessualmente delle donne, fino alla sua derisione di un giornalista disabile e al celebre “muslim ban” (ormai bloccato), il presidente stesso fornisce abbastanza carburante per alimentare la composizione di innumerevoli canzoni di protesta.

I pezzi Tiny Hands di Fiona Apple (“We don’t want your tiny hands anywhere near our underpants”) e Locker Room Talk dei Cold War Kids (“Dirt in your mouth / mic on the sleeve / we all heard how it sounded”) riflettono questo approccio ad hominem di protesta contro la presidenza Trump. In queste tracce, la Apple e i Cold War Kids riprendono lo stile ricco di rapidi scoppi d’ira che ha caratterizzato il periodo dopo l’11 settembre, con testi che sfruttano argomenti ben noti (le dimensioni delle mani di Trump, il nastro di Access Hollywood) e danno agli ascoltatori qualcosa di concreto a cui aggrapparsi, più che una vera e propria causa cui dedicarsi.

Anche i A Tribe Called Quest incanalano questa rabbia verso il nuovo presidente durante la loro performance ai Grammys del 2017, dove Busta Rhymes ringhia: “I just want to thank President Agent Orange for perpetuating all of the evil that you’ve been perpetuating throughout the United States / I want to thank President Agent Orange for the unsuccessful attempt at a Muslim Ban”, prima che il gruppo lanci We the People … , la loro nuova canzone politicamente connotata, in cui fanno aperto riferimento alle deportazioni e alla brutalità della polizia.

L’album in cui la canzone appare, tuttavia, era stato pubblicato prima dell’elezione di Trump. We got It from Here … Thank You 4 Your service, il primo album dei Tribe dopo 18 anni, è quello che Kwame Opam a The Verge ha definito “la quintessenza della musica di protesta” e contiene brani su immigrazione, sessismo e violenza della polizia. Si tratta di problemi sistemici, ma che possono essere facilmente incanalati in una rabbia personale verso Trump, come si vede nella loro performance ai Grammys.

Le politiche di Trump forniscono un ampio bacino di argomenti da cui attingere. Ciò dà origine a canzoni che riguardano i temi tipico del rapporto con le autorità e dei diritti umani e incoraggia i cantanti a scrivere brani i cui proventi vengono destinati a organizzazioni che potrebbero essere danneggiate da Trump. Il progetto 100 Days, 100 Songs è una continuazione dell’iniziativa nata nel periodo precedente alle elezioni 30 Days, 30 Songs: una serie di artisti, soprattutto indie, rilascia una canzone al giorno, i cui proventi vanno a sostenere organizzazioni che potrebbero essere influenzate negativamente dalle politiche del presidente, come Planned Parenthood e la American Civil Liberties Union (che hanno già visto un’impennata nelle donazioni dopo l’elezione di Trump). Analogamente, gli Arcade Fire e Mavis Staples pubblicano, alla vigilia dell’inaugurazione di Trump, I Give You Power, una traccia palpitante che parla della presa e della cessione del potere, i cui proventi sono stati interamente donati alla ACLU.

Ma la protesta musicale non deve essere accompagnata da donazioni o fare aperto riferimento a Trump e alle sue politiche per essere efficace, in particolare se si basa sulla tradizione nazionale della musica di protesta.

Mentre Lady Gaga, nota oppositrice di Trump (che ha definito “uno dei più famigerati bulli che abbiamo mai visto” in un tweet di novembre) si prepara per esibirsi nello spettacolo dell’intervallo del Super Bowl del 2017, dichiara in conferenza stampa: “le dichiarazioni che farò durante lo spettacolo sono le stesse che ho costantemente svolto in tutta la mia carriera”. Data la sua storia, è ragionevole aspettarsi che un messaggio anti-Trump, sottile o meno, farà capolino dalla sua performance.

Ma poi Gaga da avvio alla sua esibizione con una riproduzione in sequenza di God Bless America di Irving Berlin e di This Land is Your Land di Woody Guthrie, la famosa contestazione a Berlin che si erge a difesa delle minoranze sotto-rappresentate e inascoltate. Il centro della sua performance è l’inno queer Born This Way, che riesce nel tendere una mano in solidarietà di un enorme gruppo di persone emarginate durante l’evento sportivo più seguito dell’anno, senza che Trump o le sue politiche vengano mai menzionate per nome.

L’esibizione di Gaga funziona come protesta non attraverso l’estetica che i A Tribe Called Quest hanno usato ai Grammys, ma piuttosto attraverso i riferimenti alla tradizione americana della canzone di protesta e l’utilizzo di uno dei più grandi inni di empowerment dell’ultimo decennio.

 

I prossimi quattro anni

Unire una canzone di protesta tradizionale ad un inno di empowerment del nuovo millennio come ha fatto Lady Gaga potrebbe essere la chiave per creare la prossima generazione di una musica protesta che sia inclusiva e guardi al futuro. E anche se può essere difficile azzeccare la giusta canzone per chiamare all’azione, secondo Roberts (UC Berkeley) la musica di protesta può avere successo se scava nel passato.

“Le tradizioni ritornano, a volte perché il loro immaginario è particolarmente toccante, e talvolta perché l’esecuzione stessa è speciale”. Per esempio gli spirituals del XIX secolo sono stati ripresi negli anni Sessanta e hanno avuto un sacco di successo durante l’era del movimento per i diritti civili. Forse è per questo che A Change Is Gonna Come è ancora oggi considerato un inno.

Roberts è sicura che la musica pop tornerà a occuparsi di politica e questo potrà contribuire a creare un dialogo produttivo. “Ma voglio vedere più brani che dipingano la nostra visione del futuro e non siano una mera reazione agli eventi. Voglio che cominciamo a capire la storia degli altri”. Ciò significa meno canzoni ultraspecifiche sul solco di Tiny Hands di Fiona Apple e simili ad Alright di Kendrick Lamar. Canzoni che creino un dialogo sul futuro desiderato, invece di ruminare sulle ingiustizie e le frustrazioni del presente.

La cultura che creiamo in tempi come questi è essenziale, dice Roberts. “Questa è parte di ciò che ci ha sostenuto in passato e parte di ciò che ci sostiene adesso e che ci permette di connetterci tra di noi come esseri umani”. Ma come ci ricorda Dorian Lynskey al termine del suo libro: che la musica abbia o meno un seguito nella realtà “dipende da tutti noi”.

 


Questa è una traduzione della prima versione di questo articolo datata 22/05/2017.

Sciacquare i panni a Fiume – fascismo e lingua italiana

giovedì, Agosto 17th, 2017

 

Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta impoverendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale.

Antonio Gramsci, Quaderno 29 dei Quaderni dal carcere

 

Come ci ricorda Gramsci, la lingua è un nodo nevralgico per ogni istituzione statale. Mettere in atto una politica linguistica solida è uno dei modi più veloci per consolidare i consensi attorno a chi detiene il potere e permette di isolare rapidamente non soltanto gli elementi già marginalizzati della società, ma anche quella parte di attivisti e intellettuali non in linea con le posizioni governative. Sembra banale, ma un’operazione semplice come il cambio di alfabeto permette di bloccare l’uso scritto di una lingua per un tempo sufficiente a rendere vano il tentativo di controinformazione delle opposizioni: l’URSS del 1938 ha ben chiaro il concetto e applica la regola disciplinatamente sull’Asia Centrale. Risultato? Più del 90% della popolazione è alfabetizzato ma assolutamente non in grado di comprendere un semplice testo risalente al periodo pre-rivoluzionario.

Fate attenzione quindi: chi vi dice che la lingua è neutra, ha qualcosa da nascondere. La lingua non è neutra per definizione, essendo essa il prodotto della stratificazione storico-culturale di un’area e di una comunità, e i grammatici più intransigenti (quelli che si fanno venire un colpo apoplettico se gli dite la parola “petaloso” per intenderci) non sono persone che vi trovereste affianco sulle barricate. Ogni rivoluzione o contro-rivoluzione ha un lato oscuro della luna, un lato che spesso ignoriamo e che riguarda il modo in cui la lingua può essere usata come veicolo per le idee governative o può al contrario diventare sovversiva. Battaglie linguistiche ne vengono combattute ogni giorno: per vicinanza ideologica conosciamo bene la situazione del catalano, del gaelico e del curdo; meno bene conosciamo le sorti delle lingue dell’ex Unione Sovietica e probabilmente non sapremmo neppure collocare geograficamente lo shuar.

Ogni lingua è un mondo a parte, ma le strategie di controllo della produzione linguistica si somigliano tutte. A queste strategie ogni comunità resiste utilizzando tattiche diverse e diversi sono gli esiti che ne conseguono. Nel prossimo futuro mi piacerebbe sviscerare un po’ di questi casi di studio e dimostrare come la lingua possa diventare un potente strumento di resistenza del quale spesso siamo inconsapevoli.

Per entrare nel vivo della questione, partiamo da quello che è, a mio parere, un caso da manuale di politica linguistica repressiva: la lingua italiana sotto il fascismo. L’argomento è del tutto ignorato dalla storiografia anche perché l’ideologia linguistica del regno d’Italia prima e della repubblica poi non è sostanzialmente cambiata. Se l’immagine di gente che bolla i saluti romani come “ragazzata”, ma invoca colate laviche e collera celeste quando vi sente usare un termine dialettale vi è nota, continuate a leggere e scoprirete il lato oscuro della regolamentazione linguistica.

 


La pianificazione linguistica

L’operazione compiuta dal fascismo sulla lingua italiana a me è sempre parsa un esempio di pianificazione linguistica da manuale di cui ancora oggi si scontano le conseguenze ma di cui conosciamo poco o niente. Storicamente, gli studi sul rapporto tra lingua e fascismo in Italia si sono sviluppati su due direttrici: la prima ha riguardato l’analisi del livello stilistico della lingua. Per intenderci, quello che avete studiato alle superiori: le poesie futuriste, l’analisi del linguaggio dei media e il pescelunghismo di Mussolini che gli imponeva di aggiungere il suffisso -issimo ad ogni parola.

La seconda direttrice, ben più interessante, ha cercato di indagare la politica linguistica del regime. Se siete capitati su questo blog probabilmente potete citare almeno un caso di repressione linguistica ad opera del fascismo: il caso delle varietà slave in ex-Jugoslavia. Sarete però anche consapevoli del fatto che l’argomento non è particolarmente dibattuto e se per esempio in Spagna la responsabilità franchista nella repressione delle lingue locali è un dato di fatto acclarato, in Italia una riflessione sul ruolo che il fascismo ha avuto nel cristallizzare alcune politiche linguistiche manca del tutto.

Prima di continuare, però, definiamo cosa sia la pianificazione linguistica. Con questo termine si intende l’insieme delle misure adottate per modificare deliberatamente l’uso della lingua da parte di una comunità. Spesso chi mette in atto questo tipo di misure è un’autorità governativa (in questo caso, l’insieme delle misure intraprese si chiama politica linguistica), religiosa o culturale, ma anche gruppi informali possono ideare politiche di pianificazione linguistica. Questo per dire che il termine non ha una connotazione di per sé negativa e che può anzi riferirsi anche ad esperienze di resistenza linguistica piuttosto interessanti. Un esempio su tutti: la storia del termine Chicano. Nel 1960 la comunità messicana della California decide di riappropriarsi di quello che era stato fino a quel momento un insulto classista e di utilizzarlo orgogliosamente come indicatore di appartenenza comunitaria. Chicano passa dunque a segnalare una comunità che si riconosceva comunanza di tradizioni e di rivendicazioni politiche e che negli anni successivi riuscirà a ottenere significative vittorie.

Esistono tre tipi di pianificazione linguistica:

  1. la pianificazione del corpus
  2. la pianificazione dello status
  3. la pianificazione dell’acquisizione

Nel primo caso si va ad agire direttamente sulla forma della lingua e si procede alla creazione di una varietà standard. La stesura di un dizionario è un esempio semplice di questo tipo di interventi: un qualche tipo di autorità linguistica (ad esempio un lessicografo) stabilisce un elenco di termini che fanno parte del repertorio di una lingua. Tutto ciò che non compare su questa lista devia dallo standard e a meno che non siate Majakovskij o Fenoglio vi farà apparire come degli analfabeti.

Nel secondo caso si opera sulla funzione che una varietà ha all’interno della società. Un caso facile da comprendere è quello del rapporto tra dialetti e italiano standard: formalmente non c’è differenza tra i due, entrambi sono “lingue”, ma il secondo è varietà ufficiale di uno stato e i parlanti riconoscono che esistono dei contesti in cui è meglio usare questo rispetto alla varietà dialettale. Non è importante che il parlante sia d’accordo con questa differenza d’uso: molti la rispettano pur essendo orgogliosi della propria varietà regionale e tanto basta. Questo significa che NO, l’affermazione “il [varietà linguistica X] è una lingua e non un dialetto” non ha senso e potete finalmente smettere di usarla.

Nel terzo caso ci si riferisce all’insieme dei processi intrapresi da un governo per incentivare l’acquisizione di una lingua. Un esempio è la politica dell’UE che prevede che nelle scuole di ogni stato membro si studi almeno una lingua ufficiale in un altro degli stati membri. La prossima volta che vi lamentate perché avete dovuto studiare l’inglese, pensate che poteva capitarvi l’ungherese.

La politica linguistica del ventennio si concentra soprattutto sugli interventi del primo tipo, andando a lavorare sulla standardizzazione della lingua italiana. Anche se non mancano interventi repressivi nei confronti delle minoranze linguistiche (classificabili come esempi di secondo e terzo tipo) e propaganda contro l’uso del dialetto (secondo tipo). Gli interventi mirano a raggiungere quattro obiettivi:

  1. l’eliminazione dall’uso corrente dei termini di origine straniera
  2. il rifiuto del dialetto
  3. la repressione delle minoranze linguistiche
  4. la sostituzione del pronome di cortesia “lei” con il “voi”

Nelle prossime settimane cercherò di dettagliare meglio i quattro punti su cui si articola la pianificazione linguistica fascista. Intanto se volete un assaggio delle vette di demenzialità raggiunte, vi consiglio il documentario Me ne frego! – Il fascismo e la lingua italiana di Vanni Gandolfo e Valeria Della Valle. E non vi venga in mente di sottovalutare la virile prestanza del “voi”!

 


Riferimenti

[sulla politica linguistica del fascismo]

AA. VV., Parlare fascista : lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, Genova, Centro ligure di storia sociale, 1984.

Foresti, Fabio, Credere, obbedire, combattere: il regime linguistico nel Ventennio,Vol. 77, Edizioni Pendragon, 2003.

Klein, Gabriella, “L’«italianità della lingua» e l’Accademia d’Italia. Sulla politica linguistica fascista” in Quaderni storici, 1981, pagg. 639 – 675.

Klein, Gabriella, La politica linguistica del fascismo, Vol. 26, Bologna, Il Mulino, 1986.

Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana, dir. Vanni Gandolfo, Istituto Luce Cinecittà, 2014.

[per un’introduzione alla pianificazione linguistica e presentazione di alcuni casi di studio]

Iannàccaro, Gabriele, e Vittorio Dell’Aquila, La pianificazione linguistica: lingue, società e istituzioni, Carocci, 2004.