Raccontare una rivolta: lingua russa e alfabeto latino in Kazakistan

Gennaio 28th, 2022 by Strelka

Gli avvenimenti del gennaio 2022 sono stati per qualcuno la prima volta che si sentiva parlare del Kazakistan in termini diversi da Borat o dall’Unione Sovietica. Nel giro di un paio di settimane il mondo ha realizzato che l’Asia Centrale non è un’entità monolitica allineata agli interessi della Russia, ma che al contrario in ogni stato si muove un complesso panorama sociale. Questo complesso panorama sociale è il motivo per cui ancora oggi è complicato affermare con certezza quale fosse la composizione di piazza delle rivolte kazake.

Ho letto parecchie buone analisi politiche sul Kazakistan (qui una di Yurii Colombo e qui la registrazione di un dibattito sul futuro del paese con Maria Chiara Franceschelli e Paolo Sorbello), ma nessuna conteneva alcun accenno alla situazione linguistica del paese. Questo silenzio mi è sembrato abbastanza stupefacente per due motivi. Il primo è legato a una questione di origine e interpretazione delle fonti. Il secondo ha a che vedere con lo specifico ruolo che la lingua kazaka, e in particolare il suo alfabeto, gioca nello scacchiere politico dell’area.

A beneficio di chi non si occupa di linguistica centro asiatica a tempo pieno, facciamo un riassunto della composizione del paese. Secondo gli ultimi dati (censimento del 2021), in Kazakistan vivono circa 18 milioni di persone, di cui il 70% circa si considera di etnia kazaka, il 20% di etnia russa, e il rimanente 10% è composto in prevalenza da persone provenienti da altri stati dell’Asia Centrale e del Caucaso. Nel 1997 una legge ha identificato russo e kazako come lingue ufficiali del paese. Se non consideriamo la possibilità che chi risponde al censimento possa non parlare né russo né kazako, nel 2007 il 26% della popolazione parlava russo, il 16% kazako, e il 58% era bilingue. Prendete questi dati con le pinze: chi ha mai lavorato con dei censimenti sa che questi sono spesso inaffidabili. Nel caso specifico della lingua, spesso non è chiaro come venga interpretata la competenza da chi compila e da chi risponde. Pensateci in questi termini: se domani vi chiedessero di indicare su un questionario statale se parlate inglese, senza darvi ulteriori informazioni, come rispondereste? Magari avete una laurea in lingua straniere e vi è stato ripetuto per anni che se non avete un livello C2 in una certificazione ufficiale allora non parlate davvero una lingua. Magari avete genitore 1 che vi parla in inglese giamaicano e voi capite tutto ma non sapete rispondere. Tirare la linea tra cosa conti come competenza linguistica e cosa no è una questione spinosa che non può prescindere da preferenze e identità individuali. Ad aggiungere ulteriore confusione c’è il fatto che le sezioni linguistiche dei censimenti sovietici (e degli stati eredi) sono state completamente ristrutturate nel tempo, e quindi i dati storici non sono esattamente comprabili a quelli odierni.

Nel 2007 l’ex presidente Nazarbayev ha dato l’avvio a una politica di trilinguismo che punta a rendere ugualmente competente in kazako, russo e inglese ogni persona educata nel sistema scolastico del paese. A 15 anni di distanza è probabile che questa politica abbia contribuito a un cambiamento delle percentuali riportate sopra. Nel 2023 il paese smetterà di utilizzare l’alfabeto cirillico e adotterà l’alfabeto latino.

Il russo come unica fonte?

Riguardo al primo punto, voglio dare il seguente caveat: questo è un blog di linguistica e capita che io mi occupi di Asia Centrale e che parli kazako. Chi ha coperto gli sviluppi della questione in tempo reale e ci ha costruito delle analisi ha fatto un lavoro incredibile e non è assolutamente mia intenzione sminuire questo lavoro. Penso che questo sia l’unico contesto in cui affrontare il problema della lingua d’origine delle fonti abbia senso. Una volta tolto il cappello da linguista mi rimetto alle analisi geopolitiche di chi ne sa più di me. Se sembra che sto mettendo le mani avanti, beh sì.

Non era necessariamente ovvio a chiunque abbia seguito gli sviluppi e i commenti sulla questione che le notizie pervenute in occidente sono arrivate quasi unicamente tramite il russo. Anche nel caso di media o attivisti kazaki, abbiamo unicamente avuto accesso al materiale prodotto o tradotto in questa lingua. Questo approccio nasce da una rappresentazione abbastanza monolitica delle culture centro asiatiche, a mio avviso abbastanza diffusa nel giornalismo e nell’accademia, ovvero dall’idea che la competenza in russo sia sufficiente ad avere una piena esperienza delle società locali. Questo approccio è storicamente sensato: la quasi totalità della produzione politica e scientifica in Asia Centrale era ed è ancora oggi prodotta in russo.

Se vi interessa monitorare l’evoluzione delle comunicazioni presidenziali sulle manifestazioni, il russo è sufficiente. Ma chiunque lavori con la popolazione kazaka sa che, se è vero che si può tranquillamente vivere nel paese parlando solo russo, è altrettanto vero che il kazako è usato molto e che alcune fasce demografiche lo preferiscono. E a maggior ragione potrebbero preferirlo in un contesto politico di questo tipo (ma ne parleremo dopo). Usare solo notizie in russo, quindi, anche quando prodotte dalla popolazione kazaka, significa scegliere di focalizzare la propria attenzione su una certa fetta demografica a scapito di altre. Questa decisione non è necessariamente un problema, e produrre un’analisi significa innanzitutto prendere una posizione. Nel caso in questione però sembra che spesso questa posizione fosse obbligata dalla mancanza di competenza in kazako e neache oggetto di critica.

La forza di un alfabeto

La questione della lingua in cui escono le notizie dal paese è relativamente banale per chi sta in occidente. Si potrebbe dire che va bene non stiamo rappresentando propriamente tutte le sfaccettature della società locale, ma comunque meglio che niente. E poi queste restrizioni sono sempre vere per chi fa giornalismo anche in relazione a paesi dove si usano lingue più studiate del kazako. Vero, ma sulla lingua kazaka negli ultimi anni si sta giocando un’importante partita politica e gli avvenimenti di gennaio 2022 hanno rinforzato questa impressione.

L’esempio più lampante del discorso politico sulla lingua kazaka arriva da Margarita Simonyan, capo redattore di Russia Today, un canale televisivo russo in lingua inglese finanziato dal Cremlino. A seguito della richiesta da parte del governo kazako di inviare le truppe dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva nel paese, Simonyan sui social un post dove elenca una serie di richieste da fare al Kazakistan come condizione per l’appoggio militare russo.

Le condizioni indicate qui sono il riconoscimento della Crimea come legittimamente parte della Russia (1), il ritorno del cirillico (2), l’ufficializzazione del russo come lingua di stato del Kazakistan (3), e la preservazione di un particolare tipo di istituzione educativa di lingua e ordinamento russi (4). Seguono altri post e rivendicazioni che non ho riportato. Per chi non si occupa di Asia centrale, il punto 2 potrebbe sembrare irrilevante, soprattutto a fronte degli sviluppi nel paese. Tuttavia, la lingua ha storicamente avuto un ruolo fondamentale nella costruzione delle entità nazionali, e la scelta di un sistema di scrittura contribuisce alla demarcazione ideologica di chi sta dentro o fuori la nazione.

In modo simile a quello dei paesi vicini, il kazako è stato scritto in caratteri arabi fino al 1929, quando il governo sovietico ha deciso di sostituire all’alfabeto arabo un alfabeto su base latina. Sulla campagna di latinizzazione degli alfabeti tradizionali delle lingue dell’Unione Sovietica ci si dovrà occupare in un altro post, ma basti sapere che nel caso delle popolazioni islamiche dell’Asia Centrale l’obiettivo del governo è quello di rompere la relazione culturale che le lega al mondo arabo. Questo viene fatto per evitare che l’Islam venga opposto ideologicamente al comunismo, dato che un sincretismo ideologico formalizzato di queste due posizioni arriverà solo con Ali Shariati dopo il ’60. Nel 1940, per fermare le rivendicazioni panturche, i sovietici cambiano ancora una volta il sistema di scrittura dell’area passando definitivamente al cirillico. Cambiare alfabeto di fatto toglie una piattaforma comunicativa ai gruppi intellettuali del paese e li isola dal resto della popolazione.

Nel 2007 l’ex presidente Nazarbayev annuncia la decisione di cambiare nuovamente l’alfabeto per tornare al latino. Questa nuove versione dell’alfabeto non è la stessa che era in uso nel 1929. A fine 2021 è stata identificata la versione definitiva che entrerà in vigore dal 2023. Nel discorso alla nazione, Nazarbayev cita a sostegno della decisione la necessità di aprire il Kazakistan alla globalizzazione: l’utilizzo di una scrittura latina faciliterà il collegamento del Paese con l’estero e l’accesso a internet. Viene anche suggerito che utilizzare un alfabeto latino incoraggerebbe l’apprendimento del kazako come lingua seconda all’estero. Saranno inoltre facilitati gli investimenti nel paese. Tutti questi argomenti, ovviamente, sono veri solo nel caso delle lingue scritte su base latina, perchè se la vostra lingua madre fosse scritta in alfabeto cirillico non avreste problemi col kazako contemporaneo. Insomma è chiaro che quando Nazarbayev parla di estero ha in mente solo alcuni interlocutori internazionali, e la lingua diventa un riferimento a questi paesi e alla loro posizione sul palcoscenico internazionale.

Il post di Margarita Simonyan ci dimostra che in Russia una certa parte della scena politica è ben consapevole del significato di questa riforma ortografica: eliminare il cirillico significa dare un colpo alla potenza culturale russa nell’area. Attenzione però a non semplificare la questione sui binari delle politiche governative. Una parte della popolazione kazaka si identifica come culturalmente e linguisticamente russa o slava: per queste persone il passaggio al latino significa una diminuzione del loro ruolo nella costruzione culturale del proprio paese. La popolazione più anziana, che è stata educata nel sistema sovietico, teme di incontrare problemi nel processo di rialfabetizzazione. Una certa parte della popolazione kazaka, inoltre, non vede necessariamente come un vantaggio l’idea di essere in maggior contatto con l’occidente, dal momento che la Cina ha grossi legami commerciali col paese. Insomma, come spesso accade in questioni di lingue nazionali, la situazione è meno chiara di quello che la politica ci vuole far credere.

Etimologie insensate e dove trovarle – ode alla terra piatta

Luglio 31st, 2019 by Strelka

“L’etimologia è l’omeopatia della linguistica”

Docente di filosofia del pensiero linguistico (2014)

 

Se avete letto uno qualsiasi degli articoli di questo blog ormai lo sapete: la lingua è politica. E su questo non vi tedio oltre. Finora, però, vi ho presentato una serie di casi dove la politica dietro l’uso della lingua si manifestava in maniera abbastanza eclatante (vedi pianificazione linguistica, genere, e analisi conversazionale). Più sottile è invece l’uso che si è fatto di strumenti di analisi linguistica al fine di stabilire connessioni tra lingue e supportare teorie politiche quasi sempre razziste e nazionaliste. Se opporsi all’uso degli asterischi è un segnale abbastanza evidente perlomeno dell’esistenza di una posizione politica, la linguistica storica e i suoi strumenti di analisi possono invece essere usati in maniera molto più subdola e passare le proprie elucubrazioni come “fatti oggettivi”.

Nei secoli, tramite la linguistica, si è cercato di dare risposta a domande che non aveva neppure senso porsi. Domande in apparenza innocenti che sono alla base di idee (cripto)razziste, alcune in vigore ancora oggi: il tedesco è una lingua efficiente mentre le lingue romanze sono decadenti; il sami è derivato dal mongolo per cui i suoi parlanti non sono svedesi e possono essere discriminati; il russo è più scientifico delle lingue centro asiatiche e quindi possiamo anche lasciarle estinguere; ma non sarebbe meglio che tutti al mondo parlassero la stessa lingua?! (NO!).

Quando fatta (intenzionalmente) male, la linguistica storica ha fatto dei danni grossi, permettendo a fautori di politiche nazionaliste e colonialiste di trovare supporto alle proprie idee e di spacciare questo supporto come “oggettivo”. Oggi chi si occupa di linguistica in maniera seria non utilizza più il termine “oggettivo” con tanta prodigalità, e la disciplina è attenta a non lasciare che i dati scientifici vengano usati per scopi non etici. Siamo diventate più brave a capire le motivazioni politiche dietro ricerche apparentemente innocue (e siamo diventate più furbe nel modo in cui ignoriamo le contraddizioni).

Nel mio mondo ideale, chiunque studi qualsiasi tipo di materia dovrebbe essere consapevole del fatto che niente è oggettivo e ogni scoperta scientifica è politica, ma questa è un’altra storia.

 


Perché l’etimologia?

L’etimologia è quel campo della linguistica che studia l’origine di una parola e la sua evoluzione nella forma e nel significato. Il termine deriva dal greco etymos “intimo significato della parola” e logos “studio” (questo l’ho scritto solo per poter dire che ho fatto una meta-etimologia). L’etimologia è una scienza complessa, che richiede la conoscenza di svariati altri campi della linguistica e della storia, insieme alla capacità di fare ricerca storica su materiali d’archivio. Quando è fatta bene, l’etimologia è molto utile per svariate ragioni, non ultima la possibilità di rompere il ghiaccio alle feste snocciolando trivia o allontanare scocciatori annoiandoli a morte.

Spesso e volentieri, però, l’etimologia non è fatta bene, e in questi casi ci regala sudori freddi o grasse risate (a seconda che stiate leggendo giustificazioni del nazismo o del terrapiattismo). Dato che le teorie linguistiche tirate in ballo per giustificare le peggio stronzate sono la mia personale tana del Bianconiglio, ho deciso che voglio condividere con voi quattro lettori (questo l’ho scritto solo per poter dire che ho letto Manzoni) le scoperte che faccio quando cerco di non lavorare.

Oh, sia ben chiaro che io qui non sto parlando di etimologia popolare, che è quel processo per cui i parlanti di una lingua cercano di trovare la motivazione dietro ad un termine altrimenti oscuro appoggiandosi alla sua somiglianza con altre parole (es. da Maleventum “luogo ricco di mele” si passa a Benevento una volta reinerpretato male- come termine indicante qualcosa di negativo). Io sto parlando di casi in cui l’etimologia è fatta male e da individui che la usano per supportare teorie stupide e/o discriminatorie. Casi che faranno risvegliare il grammatico prescrittivista che è in voi.

 

Dedico questa intera rubrica a B. e L., gli unici due che potrebbero apprezzarla


 

Ode alla terra piatta

Delle 200 ragioni tirate in ballo per spiegare per quale motivo la Terra è piatta, la più meravigliosa è la numero 120. In un volo così ardito che neppure Pindaro si sarebbe mai immaginato di farlo, il nostro eroico Eric Dubay (yogi, guru, fisico in erba, scrittore, e investigatore dedicato a svelare la cospirazione della terra tonda) ci dice che una fondamentale prova in favore della terra piatta risiederebbe nella lingua.

Ricostruendo una complicata catena di prestiti linguistici e adattamenti fonetici si arriva finalmente a svelare l’arcano. I passaggi da fare sono più o meno i seguenti: l’inglese planet (“pianeta”) deriva dall’antico inglese (V-XII sec.) planete, che a sua volta è stato derivato dall’antico francese planete. La forma francese antica è entrata nella lingua dal latino planeta, dove è derivata dal greco planetes, creata per sineddoche dalla locuzione asteres planetai (“stelle vagabonde”). Il greco è derivato da planashtai di origine incerta, forse proto-indoeuropeo *pele (“piatto, spalmare”).

Ing. planet “pianeta” > Ing. ant. planete > Fr. ant. planete > Lat. planeta >

Gr. planetes > Gr. asteres planetai > ? planashtai > PIE *pele “piatto”

Non solo: il nome inglese plane (“superficie piatta”), deriva dal latino planum, e ci hanno solo aggiunto una -t per cambiargli significato (sveglia!!!!).

Due considerazioni sono a questo punto ovvie e necessarie:

  1. il fatto che due termini siano simili (cf. piano e pianeta) NON significa che siano derivati necessariamente dalla stessa radice e che il loro significato sia collegato.
  2. il significato dei termini cambia nel tempo, non necessariamente aggiungendo un significato sopra l’altro come una specie di torre che ne conservi ogni singolo passaggio nel tempo

Un preoccupante numero di persone crede che ci sia un qualche tipo di significato profondo ed esoterico nascosto nella lingua, che questo significato possa essere svelato tramite l’etimologia e che possa confermare l’esistenza di profonde competenze che gli antichi avevano e noi non abbiamo più. Non siate quelle persone. Non fate rivoltare Eratostene nella tomba.


Qui il testo originale:

120) “The etymology of the word “planet” actually comes from late Old English planete, from Old French planete (Modern French planète), from Latin planeta, from Greek planetes, from (asteres) planetai “wandering (stars),” from planasthai “to wander,” of unknown origin, possibly from PIE *pele “flat, to spread” or notion of “spread out.” And Plane (n) “flat surface,” c. 1600, from Latin planum “flat surface, plane, level, plain,” planus “flat, level, even, plain, clear.” They just added a “t” to our Earth plane and everyone bought it.

Qui quello che i linguisti hanno da dire in merito su Reddit.

Riconciliare #MeToo e la lotta al carcere

Luglio 18th, 2019 by Strelka

Foxfire – Cattive ragazze

Riprendendo il filo del discorso sul genere, un interessante contributo statunitense al tema dell’antisessismo anticarcerario.Non vi sto a rispiegare che la linguistica è inerentemente politica che già mi sembra di averci speso su parecchie righe.

L’articolo originale è stato pubblicato su Filtermag il 25/09/2018 e può essere reperito qui. Per ogni possibile errore di traduzione faccio mea culpa.

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Nel 2001 INCITE! Women of Colour Against Violence1 e Critical Resistance, organizzazione per l’abolizione del carcere, scrivevano queste parole: “Chiediamo ai movimenti di giustizia sociale di sviluppare strategie e analisi che affrontino sia la violenza statale che quella interpersonale, in particolare quella contro le donne. Attualmente, gli attivisti e i movimenti che affrontano il problema della violenza di stato (come gruppi anti-carcere e anti-polizia) spesso non entrano in comunicazione coi movimenti che si occupano di violenza domestica e sessuale”.

Gli ultimi 17 anni hanno visto un aumento di gruppi per l’abolizione del carcere. In netto contrasto con i sostenitori della riforma carceraria, che spingono per un miglioramento delle condizioni carcerarie, ma ritengono che le carceri siano in definitiva necessarie per garantire la sicurezza sociale, gli abolizionisti accusano le prigioni di essere luoghi di violenza che non potranno mai essere adeguatamente riformati. Le carceri devono essere eliminate; così come le condizioni che mandano le persone in prigione, inclusi razzismo, povertà e tutte le condizioni che possono portare alla violenza.

Grande assente in molte delle conversazioni sull’abolizione del carcere rimane, tuttavia, il discorso su come affrontare la violenza di genere senza fare affidamento su carcere e polizia. Al contrario, molte delle più importanti organizzazioni che combattono la violenza sessuale e domestica continuano a fare affidamento sul sistema carcerario. All’indomani della condanna a sei mesi inflitta a Brock Turner, studente bianco di Stanford che ha violentato una donna priva di conoscenza, svariati gruppi femministi si sono detti indignati per la brevità della sentenza e hanno chiesto la rimozione del giudice in carica al processo.

Allo stesso modo, man mano che crescevano le accuse contro Harvey Weinstein e Bill Cosby, le richieste di giustizia avevano sempre come obiettivo finale l’arresto e il carcere. Non si è riusciti a riconoscere che pene detentive più lunghe e severe sono sempre state comminate ai membri delle comunità di colore, senza che ciò prevenisse in alcun modo la violenza di genere.

Questo affidamento alle politiche di criminalizzazione rafforza la violenza di stato, che non solo è perpetrata in maniera schiacciante su uomini neri, latini e poveri, ma soprattutto rinforza un sistema che punisce le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali, anche quando queste sono vittime di violenza. Un esempio è il caso di Marissa Alexander, una madre della Florida inizialmente condannata a 20 anni di carcere per aver sparato un colpo di avvertimento al marito violento che la stava per aggredire. Un altro è il caso di Ky Peterson, transessuale nera che sta scontando una pena di 20 anni per aver ucciso l’uomo che la aveva violentata.

Come siamo arrivati alla separazione di questi due movimenti?

Nel 1994, il Congresso approva il Violence Against Women Act (VAWA), che obbliga la polizia a rispondere alle denunce di violenza sessuale, domestica, e altre violenze di genere. Questo è stato il risultato di anni di cause legali e attivismo di molte organizzazioni femministe che volevano costringere le forze dell’ordine a dare una risposta alla violenza di genere, piuttosto che ignorarla in quanto questione interpersonale. In molte giurisdizioni, il VAWA è stato implementato tramite leggi sull’arresto obbligatorio e pene detentive più lunghe. Ha inoltre portato alla politica del “doppio arresto”, per la quale la polizia può arrestare entrambe le persone coinvolte in un episodio di violenza di genere. Alcune giurisdizioni possono trattenere le vittime in quanto testimoni e minacciare multe e arresti se queste non cooperano con la procura. (La città di Columbus, in Georgia, ha cambiato questa sua politica dopo una causa intentata da Cleopatra Harrison, vittima di abusi, e dal Southern Centre for Human Rights).

“Femminismo carcerario” è il termine spesso usato per descrivere questo affidamento all’idea che un rafforzamento della polizia, l’inasprimento delle pene e la reclusione siano la soluzione primaria alla violenza di genere. In linea di massima, il femminismo carcerario considera le soluzioni alla violenza di genere attraverso il punto di vista della borghesia bianca e non considera come fattori quali razza, classe, genere e status di cittadinanza si possano intersecare, lasciando alcune donne più vulnerabili alla violenza, inclusa quella dello stato.

Parallelamente, il numero delle donne incarcerate è aumentato vertiginosamente. Nel 1980, le prigioni statunitensi detenevano 25.450 donne; 10 anni dopo, quel numero è quasi triplicato salendo a 77.762. Nel 2000, la cifra raddoppia di nuovo giungendo a 156.044 e oggi continua a crescere. A partire dal 2017, le detenute sono circa 209.000. (Questi numeri non includono le donne detenute nei centri di detenzione per migranti e nei penitenziari giovanili, né le transessuali detenute in penitenziari maschili). Almeno la metà delle detenute ha denunciato di aver subito violenze ancora prima dell’arresto.

È anche vero che quasi il 90% delle persone incarcerate sono uomini (o classificati come tali). Ma non tutte le attiviste femministe e anti-violenza hanno adottato la soluzione carceraria. Per anni, attiviste come Beth Richie e collettivi come INCITE!, hanno sottolineato come l’aumento della criminalizzazione sostituisca la violenza di forze dell’ordine, tribunali e prigioni a quella individuale, mentre non fa nulla per affrontare alla radice le cause della violenza di genere. Lo abbiamo visto nei casi di Marisa Alexander, Ky Peterson e innumerevoli altre donne e transessuali.

Nessuno sa quante migliaia di vittime di violenza sono dietro le sbarre perché le forze dell’ordine non sono riuscite a garantire la loro sicurezza. Questo perché nessuna agenzia tiene traccia di questi dati. Le statistiche più recenti hanno quasi 20 anni e provengono da un rapporto del Dipartimento di Giustizia del 1999 che affermava che quasi la metà delle donne detenute nelle prigioni statali e federali erano state vittime di abusi prima del loro arresto. Ma, poiché le donne costituiscono solo il 10% della popolazione carceraria della nazione, molte delle conversazioni sull’incarcerazione di massa e sull’abolizione del carcere continuano a riguardare solo gli uomini. Questa interpretazione dei fatti porta a un falso binarismo in cui gli uomini sono sono sempre incarcerati e le donne sempre vittime. Questa suddivisione emargina le persone (di qualsiasi genere) vittime di violenza relazionale e di stato e non riesce a rispondere ai loro bisogni.

Ho intervistato numerose vittime di violenza domestica che sono state incarcerate per essersi difese. Tutte riferiscono che si sono rivolte alla polizia e al sistema legale, e che entrambi non sono riusciti a proteggerle. A volte la polizia ha allontanato il loro aggressore per alcuni giorni, ma ciò non ha fermato la violenza. A volte i tribunali hanno emesso un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore ha palesemente ignorato. A volte la polizia non ha fatto nulla. A volte l’aggressore era parte della polizia stessa. Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggerle come vittime, le ha poi punite per essere sopravvissute alle aggressioni. In carcere, molte di queste vittime sono oggetto di violenza, sia per mano di altri detenuti, che da parte dei membri dello staff o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane.

Al tempo stesso, le organizzazioni anti-carcere continuano a riflettere l’incapacità della società in generale di prendere in considerazione i cambiamenti sociali e culturali necessari a porre fine alla violenza di genere, o di sviluppare modi concreti per prevenire e affrontare il problema della violenza sessuale e domestica nella vita quotidiana.

Secondo Hyejin Shim “i due movimenti non hanno mai realmente comunicato”. Shim lavora con comunità che si collocano all’intersezione tra violenza di genere e violenza di stato, in quanto membro dello staff dell’Asian Women’s Shelter e militante di Survived and Punished, gruppo auto-organizzato che si occupa di dare sostegno alle detenute incarcerate in conseguenza di episodi di violenza di genere. Sebbene gli sforzi per porre fine alla violenza di genere e l’abolizione del carcere siano spesso considerati incompatibili, Shim osserva che “entrambi si concentrano sul porre fine alla violenza”, che questa provenga dallo stato, da un indivudo, o da entrambi.

Giustizia trasformativa

Un modo alternativo per affrontare la violenza interpersonale senza fare affidamento sulla violenza di stato è attraverso la giustizia trasformativa. Il termine si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della vittima, ma anche le condizioni che hanno permesso la violenza. In altre parole, invece di astrarre gli atti di violenza dal contesto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare per far sì che ciò non accada mai più? Che cosa serve alla vittima per guarire?”. Non c’è una serie di passi giusti o sbagliati nella giustizia trasformativa: ogni processo dipende dalle persone e dalle circostanze.

Shim ci tiene a sottolineare che le persone spesso già si impegnano in processi di giustizia trasformativa, anche se non usano necessariamente questo termine. Ci si unisce per sostenere le vittime all’interno dei nostri spazi, aiutandole a identificare ciò di cui hanno bisogno e come accedervi. Shim sottolinea tuttavia che questo tipo di capacità è spesso sottovalutata all’interno dei gruppi e osserva come “all’interno dei nostri spazi sappiamo come organizzare un’azione diretta, ma spesso non siamo in grado di mediare un conflitto tra i membri o di dare supporto a una vittima di violenza”. In un momento in cui grazie a #MeToo sempre più persone stanno denunciando le proprie esperienze come vittime di violenza sessuale o domestica, “noi non siamo stati in grado di creare una rete di supporto adeguata”.

I movimenti anti-violenza hanno sviluppato alcune risorse per colmare queste lacune. Creative Interventions, un’organizzazione dedicata a fornire a “persone comuni le risorse per porre fine alla violenza”, ha pubblicato online una guida di 608 pagine sulle strategie per fermare la violenza di genere. Gli attivisti (e vittime di abusi) Ching-In Chen, Jai Dulani e Leah Lakshmi Piepnza-Samarasinha hanno compilato una zine (ora un libro) di 111 pagine intitolata The Revolution Starts at Home (“La rivoluzione comincia da casa”), che raccoglie una serie di casi in cui alcuni gruppi hanno obbligato i colpevoli di violenza ad assumersi la responsabilità di ciò che avevano fatto.

Un esempio è quello di un centro comunitario coreano di Oakland, in California, che ha gestito un episodio di violenza sessuale reso ancora più complicato da fattori culturali.

Nell’estate del 2006, il centro di Oakland aveva invitato dalla Corea del Sud un insegnante di percussioni perché tenesse un laboratorio di batteria di una settimana. Una notte, l’insegnante ha aggredito sessualmente una studentessa. Il centro ha deciso di gestire il processo iniziando con una telefonata immediata al centro di percussioni in Corea. E anche se “è stato culturalmente difficile per il gruppo coreano americano avanzare richieste agli anziani in Corea, tutti hanno deciso che era quello che andava fatto”.

Dopo che l’istituzione coreana si è assunta la responsabilità e si è scusata, il centro di Oakland ha inviato una lista di richieste, tra le quali figuravano l’obbligo per i membri del gruppo in Corea di partecipare a dei laboratori sulla violenza di genere, l’impegno a inviare almeno un’insegnante donna nei successivi scambi culturali con il gruppo negli Stati Uniti, e la richiesta che l’aggressore sospendesse la propria partecipazione al gruppo per almeno sei mesi e seguisse delle sessioni di terapia con un gruppo femminista di modo da riflettere sull’aggressione.

Il centro di Oakland da parte sua ha intrapreso un percorso offrendo laboratori sulla violenza di genere ai propri membri e ai membri di altri gruppi locali di percussioni, e dedicando il loro festival al tema della guarigione dalla violenza sessuale. Con il consenso della vittima, i fatti relativi all’incidente sono stati stampati nel programma “come sfida alla comunità ad assumersi la responsabilità collettiva di porre fine alle condizioni che perpetuano la violenza di genere, omertà inclusa”.

La storia non ha un finale felice: la vittima non è mai più tornata al centro; il lungo processo di riflessione sull’accaduto “ha indebolito le energie del gruppo e le amicizie che lo tenevano insieme”; l’insegnante di percussioni è tornato a partecipare ai festival in Corea del Sud, ma viene visto con risentimento e sospetto dai visitatori coreani americani. Ma quando Liz, presidente del centro, ha in seguito riflettuto sugli eventi, ha detto: “Alcune persone ci hanno chiesto perché non avessimo chiamato la polizia. Nessuno ci aveva mai neppure pensato”.

Un altro capitolo di The Revolution Starts at Home intitolato “Assumersi i rischi: strategie di assunzione della responsabilità collettiva nei gruppi auto-gestiti” fornisce un altro esempio. Le autrici, il collettivo di donne di colore Communities Against Rape and Abuse (CARA) – Alisa Bierria, Onion Carrillo, Eboni Colbert, Xandra Ibarra, Theryn Kigvamasud’Vashti e Shale Maulanaauthor – descrivono una serie di azioni intraprese da membri di una comunità punk per affrontare le aggressioni perpetrate da Lou, proprietario di un club.

Le autrici riferiscono che Lou “incoraggiava […] le donne a ubriacarsi e poi le costringeva a fare sesso contro la loro volontà”. Nelle discussioni su cosa fare, i membri della comunità “non solo hanno riflettuto sulle esperienze delle vittime, ma anche su come la cultura alternativa locale avesse sostenuto questo tipo di atteggiamento”. Ad esempio, un settimanale popolare negli ambienti underground aveva spesso parlato in modo positivo della massiccia quantità di alcolici presenti alle feste organizzate dal locale di Lou. Con il consenso delle vittime, il gruppo ha prima stampato dei volantini che identificavano l’uomo e denunciavano i suoi atteggiamenti, poi ha chiesto che la scena underground si assumesse collettivamente la responsabilità dell’accaduto, ha criticato il giornale e ha suggerito di boicottare il club.

In risposta, il giornale ha pubblicato un articolo che difendeva l’uomo, lasciando intendere che, dal momento che le vittime non avevano sporto denuncia, le loro accuse non erano credibili. Lou ha minacciato di denunciarle per diffamazione. Ma la comunità punk ha continuato a lavorare con le vittime alla creazione di un documento che non solo denunciasse le loro esperienze, ma articolasse un’analisi critica della violenza sessuale e della cultura dello stupro all’interno della comunità ed esplicitasse cosa intendevano come “assunzione collettiva di responsabilità”. Hanno rilasciato la dichiarazione completa alla stampa e l’hanno pubblicata sul proprio sito web, scatenando nella comunità musicale allargata discussioni sui temi della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità. Lou non è più stato invitato a feste ed eventi, i membri della scena locale hanno iniziato a boicottare il locale e le band di fuori città evitavano di suonare lì, spingendo Lou ad accettare di impegnarsi con la comunità punk e a negoziare un incontro faccia a faccia. Alla fine, comunque, non ha mai accettato di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Il gruppo ha inoltre avviato un processo di formazione sul tema della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità, imparando a gestire in proprio dei seminari su queste tematiche e supportando il CARA e altre organizzazioni anti-violenza. Scrivono le attiviste di CARA che “il passaggio critico da compiere è la decisione di costruire l’ambiente che vogliamo ci sia all’interno del gruppo, invece che sprecare tutte le energie a combattere il problema che si vuole eliminare”.

Riflettendo oggi su questo episodio, Bierria, ora attivista di Survived and Punished, ha osservato che “si è messa in campo una risposta potente a un problema di cui spesso non si vuole parlare”.

Allo tempo stesso, ha sottolineato come “assumersi collettivamente la responsabilità dell’accaduto non solo serve a chiarire le responsabilità. Ma è un meccanismo che crea all’interno dei collettivi le condizioni tali per cui questi episodi non si verifichino di nuovo”. Tutto ciò, va riconosciuto, può essere frustrante. “Spesso vorremmo una soluzione più diretta, ma la violenza di genere è più complicata di così”. Negli ultimi due decenni, lei e altri hanno lavorato contro la violenza di genere, a favore dei processi di responsabilizzazione collettiva e dell’abolizione del carcere. Hanno documentato i loro processi, creando progetti e procedure cui lei e altri attivisti non avevano accesso 20 anni fa.

Questi esempi mostrano che i processi di assunzione collettiva della responsabilità da parte del gruppo sono disordinati e raramente seguono un percorso uniforme. Spesso, tuttavia, mescolano e prendono ispirazione da una serie distinta di strumenti alternativi che includono azioni a livello comunitario e individuale. Consulenza individuale per l’aggressore, rimozione dagli incarichi in vista, ammissione di colpa, scuse pubbliche e / o private, workshop e corsi di formazione volti a favorire specifici cambiamenti comportamentali sono solo alcune delle richieste che le comunità possono fare. Indipendentemente dalle forme che assumono, continuare a esplorare alternative alla violenza di stato in risposta alla violenza di genere è un compito essenziale per quei movimenti che vogliano porre fine a entrambe.

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Victoria Law è un giornalista freelance che si occupa di carcere, genere e resistenza. È l’autrice di Resistance Behind Bars: The Struggles of Incarcerated Women. Il suo prossimo libro in uscita, Your Home is Your Prison (in collaborazione con Maya Schenwar), analizza il modo in cui alcune comuni alternative al carcere servano in realtà a supportare il processo di criminalizzazione. I suoi scritti possono essere trovati su: https://victorialaw.net/.

1INCITE! da allora ha cambiato nome in INCITE! Women, Gender Non-conforming, and Trans people of Colour Against Violence.