Archive for the ‘Resistenze’ Category

Riconciliare #MeToo e la lotta al carcere

giovedì, Luglio 18th, 2019

Foxfire – Cattive ragazze

Riprendendo il filo del discorso sul genere, un interessante contributo statunitense al tema dell’antisessismo anticarcerario.Non vi sto a rispiegare che la linguistica è inerentemente politica che già mi sembra di averci speso su parecchie righe.

L’articolo originale è stato pubblicato su Filtermag il 25/09/2018 e può essere reperito qui. Per ogni possibile errore di traduzione faccio mea culpa.

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Nel 2001 INCITE! Women of Colour Against Violence1 e Critical Resistance, organizzazione per l’abolizione del carcere, scrivevano queste parole: “Chiediamo ai movimenti di giustizia sociale di sviluppare strategie e analisi che affrontino sia la violenza statale che quella interpersonale, in particolare quella contro le donne. Attualmente, gli attivisti e i movimenti che affrontano il problema della violenza di stato (come gruppi anti-carcere e anti-polizia) spesso non entrano in comunicazione coi movimenti che si occupano di violenza domestica e sessuale”.

Gli ultimi 17 anni hanno visto un aumento di gruppi per l’abolizione del carcere. In netto contrasto con i sostenitori della riforma carceraria, che spingono per un miglioramento delle condizioni carcerarie, ma ritengono che le carceri siano in definitiva necessarie per garantire la sicurezza sociale, gli abolizionisti accusano le prigioni di essere luoghi di violenza che non potranno mai essere adeguatamente riformati. Le carceri devono essere eliminate; così come le condizioni che mandano le persone in prigione, inclusi razzismo, povertà e tutte le condizioni che possono portare alla violenza.

Grande assente in molte delle conversazioni sull’abolizione del carcere rimane, tuttavia, il discorso su come affrontare la violenza di genere senza fare affidamento su carcere e polizia. Al contrario, molte delle più importanti organizzazioni che combattono la violenza sessuale e domestica continuano a fare affidamento sul sistema carcerario. All’indomani della condanna a sei mesi inflitta a Brock Turner, studente bianco di Stanford che ha violentato una donna priva di conoscenza, svariati gruppi femministi si sono detti indignati per la brevità della sentenza e hanno chiesto la rimozione del giudice in carica al processo.

Allo stesso modo, man mano che crescevano le accuse contro Harvey Weinstein e Bill Cosby, le richieste di giustizia avevano sempre come obiettivo finale l’arresto e il carcere. Non si è riusciti a riconoscere che pene detentive più lunghe e severe sono sempre state comminate ai membri delle comunità di colore, senza che ciò prevenisse in alcun modo la violenza di genere.

Questo affidamento alle politiche di criminalizzazione rafforza la violenza di stato, che non solo è perpetrata in maniera schiacciante su uomini neri, latini e poveri, ma soprattutto rinforza un sistema che punisce le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali, anche quando queste sono vittime di violenza. Un esempio è il caso di Marissa Alexander, una madre della Florida inizialmente condannata a 20 anni di carcere per aver sparato un colpo di avvertimento al marito violento che la stava per aggredire. Un altro è il caso di Ky Peterson, transessuale nera che sta scontando una pena di 20 anni per aver ucciso l’uomo che la aveva violentata.

Come siamo arrivati alla separazione di questi due movimenti?

Nel 1994, il Congresso approva il Violence Against Women Act (VAWA), che obbliga la polizia a rispondere alle denunce di violenza sessuale, domestica, e altre violenze di genere. Questo è stato il risultato di anni di cause legali e attivismo di molte organizzazioni femministe che volevano costringere le forze dell’ordine a dare una risposta alla violenza di genere, piuttosto che ignorarla in quanto questione interpersonale. In molte giurisdizioni, il VAWA è stato implementato tramite leggi sull’arresto obbligatorio e pene detentive più lunghe. Ha inoltre portato alla politica del “doppio arresto”, per la quale la polizia può arrestare entrambe le persone coinvolte in un episodio di violenza di genere. Alcune giurisdizioni possono trattenere le vittime in quanto testimoni e minacciare multe e arresti se queste non cooperano con la procura. (La città di Columbus, in Georgia, ha cambiato questa sua politica dopo una causa intentata da Cleopatra Harrison, vittima di abusi, e dal Southern Centre for Human Rights).

“Femminismo carcerario” è il termine spesso usato per descrivere questo affidamento all’idea che un rafforzamento della polizia, l’inasprimento delle pene e la reclusione siano la soluzione primaria alla violenza di genere. In linea di massima, il femminismo carcerario considera le soluzioni alla violenza di genere attraverso il punto di vista della borghesia bianca e non considera come fattori quali razza, classe, genere e status di cittadinanza si possano intersecare, lasciando alcune donne più vulnerabili alla violenza, inclusa quella dello stato.

Parallelamente, il numero delle donne incarcerate è aumentato vertiginosamente. Nel 1980, le prigioni statunitensi detenevano 25.450 donne; 10 anni dopo, quel numero è quasi triplicato salendo a 77.762. Nel 2000, la cifra raddoppia di nuovo giungendo a 156.044 e oggi continua a crescere. A partire dal 2017, le detenute sono circa 209.000. (Questi numeri non includono le donne detenute nei centri di detenzione per migranti e nei penitenziari giovanili, né le transessuali detenute in penitenziari maschili). Almeno la metà delle detenute ha denunciato di aver subito violenze ancora prima dell’arresto.

È anche vero che quasi il 90% delle persone incarcerate sono uomini (o classificati come tali). Ma non tutte le attiviste femministe e anti-violenza hanno adottato la soluzione carceraria. Per anni, attiviste come Beth Richie e collettivi come INCITE!, hanno sottolineato come l’aumento della criminalizzazione sostituisca la violenza di forze dell’ordine, tribunali e prigioni a quella individuale, mentre non fa nulla per affrontare alla radice le cause della violenza di genere. Lo abbiamo visto nei casi di Marisa Alexander, Ky Peterson e innumerevoli altre donne e transessuali.

Nessuno sa quante migliaia di vittime di violenza sono dietro le sbarre perché le forze dell’ordine non sono riuscite a garantire la loro sicurezza. Questo perché nessuna agenzia tiene traccia di questi dati. Le statistiche più recenti hanno quasi 20 anni e provengono da un rapporto del Dipartimento di Giustizia del 1999 che affermava che quasi la metà delle donne detenute nelle prigioni statali e federali erano state vittime di abusi prima del loro arresto. Ma, poiché le donne costituiscono solo il 10% della popolazione carceraria della nazione, molte delle conversazioni sull’incarcerazione di massa e sull’abolizione del carcere continuano a riguardare solo gli uomini. Questa interpretazione dei fatti porta a un falso binarismo in cui gli uomini sono sono sempre incarcerati e le donne sempre vittime. Questa suddivisione emargina le persone (di qualsiasi genere) vittime di violenza relazionale e di stato e non riesce a rispondere ai loro bisogni.

Ho intervistato numerose vittime di violenza domestica che sono state incarcerate per essersi difese. Tutte riferiscono che si sono rivolte alla polizia e al sistema legale, e che entrambi non sono riusciti a proteggerle. A volte la polizia ha allontanato il loro aggressore per alcuni giorni, ma ciò non ha fermato la violenza. A volte i tribunali hanno emesso un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore ha palesemente ignorato. A volte la polizia non ha fatto nulla. A volte l’aggressore era parte della polizia stessa. Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggerle come vittime, le ha poi punite per essere sopravvissute alle aggressioni. In carcere, molte di queste vittime sono oggetto di violenza, sia per mano di altri detenuti, che da parte dei membri dello staff o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane.

Al tempo stesso, le organizzazioni anti-carcere continuano a riflettere l’incapacità della società in generale di prendere in considerazione i cambiamenti sociali e culturali necessari a porre fine alla violenza di genere, o di sviluppare modi concreti per prevenire e affrontare il problema della violenza sessuale e domestica nella vita quotidiana.

Secondo Hyejin Shim “i due movimenti non hanno mai realmente comunicato”. Shim lavora con comunità che si collocano all’intersezione tra violenza di genere e violenza di stato, in quanto membro dello staff dell’Asian Women’s Shelter e militante di Survived and Punished, gruppo auto-organizzato che si occupa di dare sostegno alle detenute incarcerate in conseguenza di episodi di violenza di genere. Sebbene gli sforzi per porre fine alla violenza di genere e l’abolizione del carcere siano spesso considerati incompatibili, Shim osserva che “entrambi si concentrano sul porre fine alla violenza”, che questa provenga dallo stato, da un indivudo, o da entrambi.

Giustizia trasformativa

Un modo alternativo per affrontare la violenza interpersonale senza fare affidamento sulla violenza di stato è attraverso la giustizia trasformativa. Il termine si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della vittima, ma anche le condizioni che hanno permesso la violenza. In altre parole, invece di astrarre gli atti di violenza dal contesto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare per far sì che ciò non accada mai più? Che cosa serve alla vittima per guarire?”. Non c’è una serie di passi giusti o sbagliati nella giustizia trasformativa: ogni processo dipende dalle persone e dalle circostanze.

Shim ci tiene a sottolineare che le persone spesso già si impegnano in processi di giustizia trasformativa, anche se non usano necessariamente questo termine. Ci si unisce per sostenere le vittime all’interno dei nostri spazi, aiutandole a identificare ciò di cui hanno bisogno e come accedervi. Shim sottolinea tuttavia che questo tipo di capacità è spesso sottovalutata all’interno dei gruppi e osserva come “all’interno dei nostri spazi sappiamo come organizzare un’azione diretta, ma spesso non siamo in grado di mediare un conflitto tra i membri o di dare supporto a una vittima di violenza”. In un momento in cui grazie a #MeToo sempre più persone stanno denunciando le proprie esperienze come vittime di violenza sessuale o domestica, “noi non siamo stati in grado di creare una rete di supporto adeguata”.

I movimenti anti-violenza hanno sviluppato alcune risorse per colmare queste lacune. Creative Interventions, un’organizzazione dedicata a fornire a “persone comuni le risorse per porre fine alla violenza”, ha pubblicato online una guida di 608 pagine sulle strategie per fermare la violenza di genere. Gli attivisti (e vittime di abusi) Ching-In Chen, Jai Dulani e Leah Lakshmi Piepnza-Samarasinha hanno compilato una zine (ora un libro) di 111 pagine intitolata The Revolution Starts at Home (“La rivoluzione comincia da casa”), che raccoglie una serie di casi in cui alcuni gruppi hanno obbligato i colpevoli di violenza ad assumersi la responsabilità di ciò che avevano fatto.

Un esempio è quello di un centro comunitario coreano di Oakland, in California, che ha gestito un episodio di violenza sessuale reso ancora più complicato da fattori culturali.

Nell’estate del 2006, il centro di Oakland aveva invitato dalla Corea del Sud un insegnante di percussioni perché tenesse un laboratorio di batteria di una settimana. Una notte, l’insegnante ha aggredito sessualmente una studentessa. Il centro ha deciso di gestire il processo iniziando con una telefonata immediata al centro di percussioni in Corea. E anche se “è stato culturalmente difficile per il gruppo coreano americano avanzare richieste agli anziani in Corea, tutti hanno deciso che era quello che andava fatto”.

Dopo che l’istituzione coreana si è assunta la responsabilità e si è scusata, il centro di Oakland ha inviato una lista di richieste, tra le quali figuravano l’obbligo per i membri del gruppo in Corea di partecipare a dei laboratori sulla violenza di genere, l’impegno a inviare almeno un’insegnante donna nei successivi scambi culturali con il gruppo negli Stati Uniti, e la richiesta che l’aggressore sospendesse la propria partecipazione al gruppo per almeno sei mesi e seguisse delle sessioni di terapia con un gruppo femminista di modo da riflettere sull’aggressione.

Il centro di Oakland da parte sua ha intrapreso un percorso offrendo laboratori sulla violenza di genere ai propri membri e ai membri di altri gruppi locali di percussioni, e dedicando il loro festival al tema della guarigione dalla violenza sessuale. Con il consenso della vittima, i fatti relativi all’incidente sono stati stampati nel programma “come sfida alla comunità ad assumersi la responsabilità collettiva di porre fine alle condizioni che perpetuano la violenza di genere, omertà inclusa”.

La storia non ha un finale felice: la vittima non è mai più tornata al centro; il lungo processo di riflessione sull’accaduto “ha indebolito le energie del gruppo e le amicizie che lo tenevano insieme”; l’insegnante di percussioni è tornato a partecipare ai festival in Corea del Sud, ma viene visto con risentimento e sospetto dai visitatori coreani americani. Ma quando Liz, presidente del centro, ha in seguito riflettuto sugli eventi, ha detto: “Alcune persone ci hanno chiesto perché non avessimo chiamato la polizia. Nessuno ci aveva mai neppure pensato”.

Un altro capitolo di The Revolution Starts at Home intitolato “Assumersi i rischi: strategie di assunzione della responsabilità collettiva nei gruppi auto-gestiti” fornisce un altro esempio. Le autrici, il collettivo di donne di colore Communities Against Rape and Abuse (CARA) – Alisa Bierria, Onion Carrillo, Eboni Colbert, Xandra Ibarra, Theryn Kigvamasud’Vashti e Shale Maulanaauthor – descrivono una serie di azioni intraprese da membri di una comunità punk per affrontare le aggressioni perpetrate da Lou, proprietario di un club.

Le autrici riferiscono che Lou “incoraggiava […] le donne a ubriacarsi e poi le costringeva a fare sesso contro la loro volontà”. Nelle discussioni su cosa fare, i membri della comunità “non solo hanno riflettuto sulle esperienze delle vittime, ma anche su come la cultura alternativa locale avesse sostenuto questo tipo di atteggiamento”. Ad esempio, un settimanale popolare negli ambienti underground aveva spesso parlato in modo positivo della massiccia quantità di alcolici presenti alle feste organizzate dal locale di Lou. Con il consenso delle vittime, il gruppo ha prima stampato dei volantini che identificavano l’uomo e denunciavano i suoi atteggiamenti, poi ha chiesto che la scena underground si assumesse collettivamente la responsabilità dell’accaduto, ha criticato il giornale e ha suggerito di boicottare il club.

In risposta, il giornale ha pubblicato un articolo che difendeva l’uomo, lasciando intendere che, dal momento che le vittime non avevano sporto denuncia, le loro accuse non erano credibili. Lou ha minacciato di denunciarle per diffamazione. Ma la comunità punk ha continuato a lavorare con le vittime alla creazione di un documento che non solo denunciasse le loro esperienze, ma articolasse un’analisi critica della violenza sessuale e della cultura dello stupro all’interno della comunità ed esplicitasse cosa intendevano come “assunzione collettiva di responsabilità”. Hanno rilasciato la dichiarazione completa alla stampa e l’hanno pubblicata sul proprio sito web, scatenando nella comunità musicale allargata discussioni sui temi della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità. Lou non è più stato invitato a feste ed eventi, i membri della scena locale hanno iniziato a boicottare il locale e le band di fuori città evitavano di suonare lì, spingendo Lou ad accettare di impegnarsi con la comunità punk e a negoziare un incontro faccia a faccia. Alla fine, comunque, non ha mai accettato di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Il gruppo ha inoltre avviato un processo di formazione sul tema della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità, imparando a gestire in proprio dei seminari su queste tematiche e supportando il CARA e altre organizzazioni anti-violenza. Scrivono le attiviste di CARA che “il passaggio critico da compiere è la decisione di costruire l’ambiente che vogliamo ci sia all’interno del gruppo, invece che sprecare tutte le energie a combattere il problema che si vuole eliminare”.

Riflettendo oggi su questo episodio, Bierria, ora attivista di Survived and Punished, ha osservato che “si è messa in campo una risposta potente a un problema di cui spesso non si vuole parlare”.

Allo tempo stesso, ha sottolineato come “assumersi collettivamente la responsabilità dell’accaduto non solo serve a chiarire le responsabilità. Ma è un meccanismo che crea all’interno dei collettivi le condizioni tali per cui questi episodi non si verifichino di nuovo”. Tutto ciò, va riconosciuto, può essere frustrante. “Spesso vorremmo una soluzione più diretta, ma la violenza di genere è più complicata di così”. Negli ultimi due decenni, lei e altri hanno lavorato contro la violenza di genere, a favore dei processi di responsabilizzazione collettiva e dell’abolizione del carcere. Hanno documentato i loro processi, creando progetti e procedure cui lei e altri attivisti non avevano accesso 20 anni fa.

Questi esempi mostrano che i processi di assunzione collettiva della responsabilità da parte del gruppo sono disordinati e raramente seguono un percorso uniforme. Spesso, tuttavia, mescolano e prendono ispirazione da una serie distinta di strumenti alternativi che includono azioni a livello comunitario e individuale. Consulenza individuale per l’aggressore, rimozione dagli incarichi in vista, ammissione di colpa, scuse pubbliche e / o private, workshop e corsi di formazione volti a favorire specifici cambiamenti comportamentali sono solo alcune delle richieste che le comunità possono fare. Indipendentemente dalle forme che assumono, continuare a esplorare alternative alla violenza di stato in risposta alla violenza di genere è un compito essenziale per quei movimenti che vogliano porre fine a entrambe.

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Victoria Law è un giornalista freelance che si occupa di carcere, genere e resistenza. È l’autrice di Resistance Behind Bars: The Struggles of Incarcerated Women. Il suo prossimo libro in uscita, Your Home is Your Prison (in collaborazione con Maya Schenwar), analizza il modo in cui alcune comuni alternative al carcere servano in realtà a supportare il processo di criminalizzazione. I suoi scritti possono essere trovati su: https://victorialaw.net/.

1INCITE! da allora ha cambiato nome in INCITE! Women, Gender Non-conforming, and Trans people of Colour Against Violence.

“Perché non hai detto no?” – pragmatica del rifiuto e violenza di genere

venerdì, Marzo 8th, 2019

 

“Ma via, la tua spada riponi
ora nel fodero; e poi saliam sul mio letto: ché quivi
nei cuor d’entrambi induca fiducia l’amplesso d’amore”

Circe ad Ulisse
sugli indizi sottili con cui una donna
vi fa capire che vuole portarvi a letto

Odissea, Libro X, traduzione di Ettore Romagnoli (1926)

Disclaimer: nell’articolo si fa riferimento alla violenza di genere come ad un meccanismo perpetuato unicamente su donne da parte di uomini. Sono perfettamente consapevole che questo non cattura la complessità del fenomeno; gli studi linguistici sul rifiuto, tuttavia, si sono occupati solamente di questa dimensione. L’accademia statunitense sta via via allargando l’indagine anche a situazioni che non coinvolgono solo persone cis-gender ed eterosessuali. Restate connessi per ulteriori aggiornamenti.


Emile Levy – Circe

La nozione di linguaggio come elemento costitutivo del reale è vecchia quanto Bakthin (1981), Bourdieau (2003), Foucault (1969), Voloshinov (1976), e altri che non nomino per mancanza di tempo e spazio. La mia esperienza è che chi nega questo fatto solitamente o non è consapevole della (o non ha mai riflettuto sulla) questione, oppure utilizza la scusa del “non è attraverso il linguaggio che cambiamo la società” come dito dietro cui nascondere sessismo/razzismo/classismo/ableismo e qualsivoglia tipo di discriminazione. L’idea che il linguaggio non abbia ripercussioni sul nostro quotidiano e non abbia posto nelle lotte è datata, non supportata dalla ricerca (quasi tutta sviluppatasi in correnti teoretiche che non sono facilmente liquidabili come “borghesi” o “liberal”) e si basa sull’idea che esistano “le cause giuste” e il resto – ovvero tutto quello che può essere posposto alla rivoluzione.

Uno dei compiti della linguistica è spiegare COME il linguaggio ha un effetto sulla nostra vita quotidiana. E in onore della giornata di oggi e di tutte le compagne che stanno lottando, ci occuperemo di un caso esemplare di come la nostra percezione del parlato quotidiano abbia delle ripercussioni enormi sulle nostre vite e sulle nostre lotte. Attraverso l’analisi conversazionale e l’analisi critica del discorso smonteremo la retorica del rifiuto all’interno della dinamiche di genere.

La retorica del rifiuto

Al di là dei numerosi altri fattori da considerare nel rispondere alla domanda (meccanismi di socializzazione, sessismo istituzionalizzato, rapporti di potere e gerarchie di genere, etc.), il modo in cui concepiamo la violenza di genere ha a che fare con un meccanismo chiamato framing (Lakoff and Johnson 1980), ovvero il modo in cui ci viene presentato un concetto. Centrale nell’educazione (formale e non) di moltissime è stata l’idea che “a dire no” (l’atto linguistico del rifiuto) si possa imparare, e che dire di no ci metta al riparo da situazioni di violenza. Attraverso il ripetuto framing del concetto di consenso come l’atto di poter esercitare il proprio rifiuto, è filtrata nella società questa idea che “basta dire no” in maniera convinta per segnalare all’altro che non vogliamo avere un rapporto.

“Basta dire di no” è un messaggio pervasivo e tossico, che una parte del movimento femminista (non italiano) ha visto per un certo periodo come una strategia di empowerment femminile. Riappropriarsi del rifiuto come strumento per riprendere controllo dei propri desideri e del proprio corpo, e di far valere i propri bisogni. Questo tipo di approccio poggia sulla convinzione che la violenza di genere sia il risultato di un errore di comunicazione tra la vittima e l’autore della violenza, che non è in grado di cogliere gli indizi verbali e non verbali che gli vengono proposti (Tannen 1991). Il corollario a questa posizione è l’idea che esista una differenza sostanziale nel modo in cui uomini e donne recepiscono il rifiuto, e che uomini e donne abbiano diversi stili di interagire che fanno sì che nella comunicazione tra i due generi si creino degli spazi di incomprensione. Inutile dire che questa interpretazione è inaccettabile (per non dire questo).

Come diciamo di no

Rifiutare una richiesta più o meno esplicita non è facile. Opporre e accettare un rifiuto è una pratica sociale raffinata e complessa, che richiede una serie di capacità interazionali specifiche: non vogliamo offendere la nostra interlocutrice, vogliamo che mantenga un’idea positiva di noi, non vogliamo sembrare troppo dirette (Goffman 1971).

Lo studio di una serie di conversazioni quotidiane ci restituiscono l’idea che nella realtà di tutti i giorni noi non “diciamo di no”, ma utilizziamo diverse strategie per esprimere la stessa idea (Kitzinger & Frith 1999). Le più comuni includono:

  • pause o ritardi nella risposta, spesso accompagnate da segni di comunicazione non verbale quali sorrisi, spostamento dello sguardo, e movimenti delle mani volti a segnalare che siamo occupate con altro. Una lunga pausa dopo un’offerta è un segnale chiaro che la nostra interlocutrice non è interessata.
  • tentennamenti, espressioni come “mmm”, “ehm”, seguiti a volte da pause.
  • palliativi, ovvero frasi dette con l’intenzione di riparare all’eventuale torto fatto all’interlocutrice. Espressioni come “magari domani, oggi non posso”, o il grande classico milanese “ci becchiamo per un aperitivo uno di questi giorni”.
  • giustificazioni, dette con l’obiettivo di sembrare “impossibilitate” a fare qualcosa, e non “non desiderose” di farla.

La lista potrebbe essere più lunga, ma il punto della questione è che se qualcuno mi invita ad andare a bere una birra e io rispondo “ah cavolo domani sera? eh sì forse ho da fare, ti tengo aggiornato. dammi il tuo numero che ti scrivo io”, a voi non serve un “no” per capire dove sto andando a parare. Per avere un’idea delle dimensioni quantitative del fenomeno, in uno studio sulle strategie di rifiuto utilizzate dai parlanti italiani, su 395 occorrenze di atti che segnalano rifiuto da parte di un interlocutore, solo nell’1,8% dei casi notiamo un rifiuto netto (“No”, “No grazie”) (Frescura 1997).

Sebbene ci siano degli stili di interazione preferiti dalle donne (vengono usati più tentennamenti e meno formule di rifiuto netto), non c’è alcun dato che dimostri come gli uomini non siano in grado di comprendere un rifiuto, anche quando questo è formalmente espresso da un “sì”. Esempio: “andiamo al cinema?” “sì son già là”. Se non capite il significato di questa frase, o non siete dei parlanti madrelingua, oppure siete un software di traduzione automatico basato su regole (in tal caso, distopie tecnologiche permettendo, non avete bisogno di imparare cosa sia il consenso).

La ricerca suggerisce che le conversazioni siano complesse, “sì” può voler dire “no” e “no” non deve essere necessariamente un rifiuto. Che cosa implica tutto questo per la lotta alla violenza di genere? Implica il fatto che le donne tendono a non opporre un rifiuto netto alla richiesta di prestazioni sessuali in parte perché “dire semplicemente di no” non è normale in nessun contesto quotidiano. Il sesso viene rifiutato attraverso quelle stesse strategie che sono tranquillamente riconosciute dagli uomini eterosessuali nella vita di tutti giorni. Dire che la mancanza di un rifiuto netto rende impossibile ad un uomo di capire che una donna sta negando il proprio consenso equivale a dire che il suddetto uomo non è in grado di interpretare normali meccanismi di comunicazione che utilizza ogni giorno (Kitzinger & Frith 1999).

E se non capite il 98% delle vostre interazioni giornaliere, magari è tempo di prendere in considerazione l’ipotesi che siate un calcolatore elettronico degli anni ’70.

 


Riferimenti

Bakhtin, M. M. (1981). The dialogic imagination: Four essays (Vol. 1). University of texas Press.

Bourdieu, P. (2003). Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, tr. it. Cortina.

Foucault, M. (1969). L’archeologia del sapere, tr. it. Rizzoli, Milano.

Frescura, M. (1997). Strategie di rifiuto in italiano: uno studio etnografico. Italica, 74(4), 542-559.

Goffman, I. (1971). Relations in Public. New York: Harper and Row, 19

Kitzinger, C., & Frith, H. (1999). Just say no? The use of conversation analysis in developing a feminist perspective on sexual refusal. Discourse & Society, 10(3), 293-316.

Lakoff, G., & Johnson, M. (1980). Metaphors we live by. Chicago, IL: University of.

Tannen, D. (1991). You Just Don’t Understand: Women and Men in Conversation. London:Virago.

Volosinov, V. N. (1976). Marxismo e filosofia del linguaggio (Vol. 43), tr. it. EDIZIONI DEDALO.

Bibliografia per approfondire

Cameron, D., and Don Kulick. (2003). Language and Sexuality. Cambridge: Cambridge University Press. – per un’analisi della feticizzazione del “no” e di come il rifiuto netto da parte di una donna venga interpretato come un invito a farle cambiare idea

Ehrlich, S., Holmes, J., & Meyerhoff, M. (Eds.). (2017). The handbook of language, gender, and sexuality. John Wiley & Sons.

Storia della musica di protesta americana: da “Yankee Doodle” a Kendrick Lamar

venerdì, Settembre 1st, 2017

Come la musica di protesta è passata dagli stornelli della guerra civile ai video virali di Trump

Father John Misty, il sarcastico e cinico musicista dietro al successo del 2015 Bored in th USA, non è mai stato uno da astenersi dal fare critica sociale. Ma il suo terzo album, pubblicato il 7 aprile, si spinge ad un altro livello. Pure Comedy è infarcito di critiche sulla religione, il fanatismo religioso e la politica ed è accompagnato da video con montaggi di scene tratte dal giorno dell’inaugurazione di Trump e immagini di bambini che giocano con delle armi.

Anche se non è la prima volta che l’artista nel proprio lavoro si occupa di capitalismo e fragilità della società, questo disco ha un obiettivo più preciso: infatti è un vero e proprio album di protesta, sebbene composto con lo stile moralista e leggermente pretenzioso tipico di Misty. Con tracce dal titolo evocativo quali Things It Would Have Been Helpful to Know Before the Revolution e Two Wildly Different Perspectives e testi che danno delle stoccate agli “idioti eletti” e al surriscaldamento globale, vengono chiaramente presi di mira temi come la politica, il fanatismo religioso e l’ambiente.

Misty non è né il primo né l’unico artista ad aver composto musica di protesta. Al contrario. Questa è sempre stata una forma essenziale di espressione politica negli USA e in tempi di disordini politici e sociali, diventa un rifugio fondamentale sia per i musicisti, per i quali diviene una valvola di sfogo dove esprimere le proprie frustrazioni e convinzioni, sia per gli ascoltatori che hanno bisogno di un grido di battaglia.

A partire dai canti con struttura a “botta e risposta” fino ai video virali, la storia dell’evoluzione musicale di queste canzoni e del modo in cui si sono adattate alla tecnologia ci informa su quello che la musica di protesta è pronta a diventare oggi: una colonna sonora ad un’epoca di massiccia mobilitazione sociale che sia in grado di commuovere e dimostri grande qualità artistica.

 

Breve introduzione alla musica di protesta

La musica di protesta esiste da secoli: non appena se ne ha abbastanza dello status quo, si inizia a cantare il proprio dissenso. E poiché gli stili musicali, le emozioni umane e le questioni sociali sono così variegati, anche i canti di protesta lo sono.

Tali canzoni sono di solito scritte per essere parte di un movimento che lotta per cambiamenti culturali o politici e per galvanizzare quel movimento unendo le persone e ispirandole ad agire.

Le canzoni di protesta sono spesso di inclinazione liberale e di solito rientrano in due categorie principali: composizioni a tematica politica (che contestano il governo) oppure culturalmente orientate (che mirano a raccontare le ingiustizie affrontate dai gruppi emarginati).

Questa ampia categorizzazione lascia ampia libertà di sperimentazione ai cantautori e i brani possono essere di volta in volta tranquilli e tormentati, vivaci e spiccatamente critici, oppure semplici e accattivanti. E anche in momenti in cui non ci sono grandi mobilitazioni politiche o cambiamenti dei paradigmi culturali all’orizzonte, i musicisti possono continuare a contribuire al corpus con dei brani audaci riguardanti questioni più sottili.

 

Musica di protesta 1.0: guerra e schiavitù attraverso il canto

Le prime canzoni di protesta americane vengono create per uno scopo: aggregare le persone intorno ad una causa comune. Le melodie, semplici e ripetitive, sono spesso tratte da inni sacri o da canzoni che le persone già conoscevano, con testi composti in forma di “botta e risposta” di facile memorizzazione. Tali canzoni sono meno musicalmente raffinate, ma servono uno scopo.

La tradizione risale al periodo della fondazione del paese. Free America è una delle prime canzoni di protesta dei nascenti Stati Uniti: una chiamata alle armi composta dal rivoluzionario Joseph Warren. Yankee Doodle, oggi popolare canzone per bambini, viene invece scritta dai soldati inglesi per farsi beffe dei loro omologhi americani e successivamente ripresa e modificata dagli Americani per insultare i Britannici.

Le prime canzoni di lotta largamente conosciute negli Stati Uniti sono composte dagli schiavi, per lo più derivate da inni sacri aventi come temi la libertà o la fuga. Go Down, Moses, basata sull’episodio biblico di Mosè che libera gli Israeliti dalla schiavitù in Egitto, è stata addirittura utilizzata da Harriet Tubman come codice personale durante il suo servizio per la Underground Railroad. Gli spirituals hanno fornito l’opportunità di riunirsi, condividere sentimenti, lamentarsi o gioire.

Durante la guerra civile, gli Unionisti fanno propria John Brown’s Body. Cantata sulla melodia di The Battle Hymn of the Republic (celebre canto da accampamento con struttura a “botta e risposta”), John Brown’s Body prende il nome del noto antischiavista il cui assalto all’arsenale della città di Harpers Ferry (Virginia) ha esacerbato le tensioni che avrebbero portato allo scoppio della guerra civile.

Il testo ripete “John Brown giace nella tomba là nel pian / ma l’anima vive ancor”; mentre un verso successivo chiede di appendere Jefferson Davis, leader dei Confederati, ad un albero di mele. Questo testo è un tipico esempio dei canti di protesta del tempo: è semplice e ripetitivo e quindi facile da imparare e condividere con gli altri, caratteristiche che hanno contribuito a rendere la canzone una delle preferite dagli Unionisti.

 

La rinascita artistica: lotte razziali nel primo Novecento

Mentre l’America esce dalla guerra civile e le divisioni di classe e razza si accentuano, la musica di protesta cambia e si adatta al gusto musicale del primo Novecento.

La registrazione musicale elettronica comincia a diffondersi negli anni Trenta e radio e dispositivi di riproduzione audio facilitano la distribuzione su larga scala. L’avvento di questa nuova tecnologia rende possibile la proliferazione del canto in una dimensione esterna a quella della tradizione orale e guida la musica nella sua prima fase “pop”, grazie a generi come il jazz e il ragtime. La musica di protesta fa la stessa cosa, con melodie e testi tecnicamente più complessi rispetto alle semplici canzoni dell’era della guerra civile.

Il più fulgido esempio di questo periodo è Strange Fruit di Billie Holiday (1939). Come scrive Dorian Lynskey, giornalista musicale, nel suo libro 33 Revolutions Per Minute: A History of Protest Songs, From Billie Holiday to Green Day, il brano della Holiday è stato il primo nel suo genere, riuscendo a portare le canzoni di protesta nel regno della musica pop: “fino a questo momento, le canzoni di protesta avevano funzionato come mera propaganda, ma Strange Fruit ha dimostrato che potevano diventare arte”.

Strange Fruit attrae gli ascoltatori con la sua melodia vellutata e oscura e ne cattura l’attenzione con versi riguardanti i linciaggi che avvengono nel sud del paese. Il brano è una malinconica riflessione sui disordini civili del sud e utilizza la trasparente metafora dei frutti per evocare la vivida immagine dei corpi neri impiccati.

A differenza delle canzoni di protesta dell’epoca della guerra civile, Strange Fruit non è uno slogan o una chiamata alle armi, ma piuttosto uno straziante commento sullo stato del Paese, concepito perché la gente si interessasse al problema.

Strange Fruit ha ispirato un’approvazione entusiastica o una vera e propria repulsione fisica: in ogni caso, la risposta del pubblico è stata viscerale. Secondo Lynskey, la canzone era quasi totalmente vietata alla radio, il che significa che la maggior parte degli Americani se ne avevano sentito parlare, lo avevano fatto tramite il passaparola o la vivida descrizione delle performance della Holiday.

Dopo la morte della Holiday nel 1959, Strange Fruit è entrata nel corpus dei canti di protesta come un pezzo d’arte unico: una poesia che ha colpito un nervo scoperto. La canzone è qualcosa di più di uno slogan ripetitivo per le trincee; è un pezzo di cultura popolare, qualcosa che può sia essere apprezzato in un bar fumoso e sia suscitare in seguito discussioni, diffondendo insoddisfazione nei confronti dello status quo con una composizione bella e inquietante.

 

L’alba della musica folk

La musica di protesta si diffonde ulteriormente quando il folk inizia a essere passato in radio nel secondo dopoguerra e continua a dominare la scena musicale impegnata durante tutto il periodo che condurrà ai turbolenti anni ’70. Artisti folk come Pete Seeger e, un decennio dopo, Joan Baez e il trio Peter, Paul e Mary utilizzano una forma prevalentemente acustica per trasmettere la propria visione politica a una nazione in lotta per i diritti civili che sta per imbarcarsi in una guerra contro il Vietnam.

La musica, caratterizzata ora da composizioni di alta qualità artistica e testi contenenti sia pesanti metafore sia commenti politici diretti, unifica le diverse lotte. Poiché le canzoni vengono trasmesse in televisione ed eseguite in enormi concerti, i fan e i manifestanti possono interagire e fare proprie le canzoni in un modo completamente nuovo.

Woody Guthrie, cantautore dell’Oklahoma, è probabilmente il nome più conosciuto del genere e colui che ha dato inizio al movimento del folk di protesta. Guthrie era cresciuto tra la classe proletaria del Dust Bowl, ascoltando le canzoni di lotta del cantautore sindacalista Joe Hill e discutendo di socialismo seduto attorno ai falò.

Guthrie compone This Land is Your Land come risposta polemica alla grande hit God Bless America del popolarissimo compositore di Broadway Irving Berlin. Nella versione per la grande distribuzione vengono tagliati alcuni dei versi più critici, quali ad esempio: “There was a big high wall there that tried to stop me / The sign was painted, said ‘Private Property’”.

La canzone è diventata un inno per la classe operaia da cui egli proveniva e ciò è stato facilitato dalla sua reputazione come genuino sostenitore della causa. Le canzoni di Guthrie sono state viste come oneste e vissute, prive di lusinghe: tutte caratteristiche essenziali per una canzone di protesta di successo.

Bob Dylan, il cui nome è quasi sinonimo di musica impegnata degli anni ’60, cita Guthrie come una delle sue influenze principali. Ma nonostante la propria reputazione, Dylan nega di essere scrittore di canzoni di protesta. Insiste invece nel dire che i suoi brani, come Blowin’ in the Wind e Times They Are a Changin’, siano stati prima cooptati dai sostenitori dei diritti civili e dai manifestanti contro la guerra del Vietnam e poi impregnati di significato fino a renderli i brani identificativi di questi movimenti. E mentre i suoi pezzi venivano cantati a innumerevoli manifestazioni e presidi e ballati nei concerti, Dylan cercava di prendere le distanze dall’etichetta di leader di movimento.

Mentre Bob Dylan compie dei passi in avanti per la propria carriera, abbandonando la chitarra acustica in favore di quella elettrica in una mossa che sconvolge e indigna il pubblico del Newport Folk Festival del 1965, è ormai troppo tardi perché possa recuperare la proprietà sulla sua musica: secondo Lynskey, Dylan “perde la proprietà sulle proprie canzoni e sulle loro sfumature”. Le canzoni entrano nella storia come parte inscindibile del movimento per i diritti civili, sotto il controllo di chi le ha rese canti di protesta.

 

Protestare con il soul

Nello stesso momento del boom della musica folk, anche la popolarità del soul esplode. Negli anni Cinquanta, gli artisti neri iniziano a sviluppare un genere, il soul, che ha le proprie radici nel gospel, nel blues e nel jazz e che si contrappone in maniera decisa alle ingiustizie sociali dell’epoca.

Questi pezzi esplicitamente di protesta prendono il nome di “freedom songs”. L’etnomusicologa Tamara Roberts (Università della California Berkeley), ritiene che siano “particolarmente potenti perché sono nati in seno alla tradizione della chiesa afroamericana da un corpus condiviso di canzoni e sono quindi già in possesso di una storia”. Gli artisti che hanno composto queste canzoni contribuiscono a galvanizzare la comunità nera che partecipa al movimento per i diritti civili, dando agli attivisti un nuovo modo di esprimere sia le proprie speranze sia la frustrazione.

La prima canzone di protesta della cantautrice Nina Simone è esemplificativa dell’epoca. Scritta nel 1963 in seguito all’assassinio dell’attivista Medgar Evers in Mississippi e dopo che quattro giovani ragazze nere erano morte nell’attacco bomba alla Chiesa Battista della 16esima strada a Birmingham (Alabama), Mississippi Goddam diventa l’infuocato inno della protesta politica nera. Il testo esprime il rifiuto di conformarsi all’allora diffusa richiesta di “andarci piano” nel rivendicare la fine della segregazione razziale e cita le ingiustizie che la gente nera affronta quotidianamente.

Sam Cooke si pone su un piano diverso con A Change Is Gonna Come (1964), una traccia che esprime meno rabbia e più rassegnata speranza. What’s Going On di Marvin Gaye (primi anni ’70) potrebbe essere applicata a diverse rivendicazioni. “Fa allusione a tutti i cambiamenti sociali e a tutte le lotte in corso”, dice Roberts, “ma continua a tornare su questa dichiarazione, a volte una domanda, che può essere rivolta a molteplici persone e istituzioni”.

Poco dopo, nel 1971, il poeta e cantante Gil Scott-Heron lancia The Revolution Will Not Be Televised, un’ode parlata che fonde poesia e jazz al fine di creare una forma d’arte di protesta specificatamente afroamericana. Heron compone la canzone nel pesante clima politico che circonda la guerra del Vietnam e la sparatoria alla Kent State University (Ohio), che scatenano manifestazioni attraverso tutti gli Stati Uniti. The Revolution Will Not Be Televised dichiara che i movimenti politici appartengono a coloro che protestano: non ai media, non al governo, ma piuttosto agli attivisti e a coloro che vogliono promuovere il cambiamento.

 

Rap, rock e critica sociale negli anni ’80 e ’90

Con la fine della guerra del Vietnam, che aveva ispirato una moltitudine di canzoni di protesta, gli anni ’80 e ’90 portano un clima politico relativamente più calmo. E poiché i movimenti incentrati sui diritti civili perdono di centralità, la musica si concentra su tematiche di critica sociale a più ampio respiro.

Come era avvenuto con l’avvento della registrazione negli anni ’30, è lo strumento del video musicale a connotare queste decadi: MTV e VH1 incorporano alla musica le immagini, dando agli artisti un nuovo modo di esprimere sé stessi e le proprie opinioni.

Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 nascono il punk e il punk-rock, che danno vita a canzoni come Nazi Punks Fuck Off e Holiday in Cambodia, entrambe dei Dead Kennedys. Se il significato della prima è limpido, la seconda è un’acuta critica sociale che istituisce un paragone tra la vita agiata dei ventenni Americani benestanti e gli orrori della dittatura degli Khmer Rossi in Cambogia.

Sempre negli anni ’80, il rap diventa incredibilmente popolare con Fuck Tha Police degli N.W.A., una feroce critica alla brutalità della polizia. Fight The Power dei Public Enemy, con la sua chiamata alle armi “We’ve gotta fight the powers that be”, segue la stessa tendenza del rap di lotta. Un decennio più tardi, la band californiana, Rage Against the Machine, sfodera innumerevoli hit rap-rock come Sleep Now in the Fire, dedicata alla colonizzazione dell’America e alle bombe atomiche nella seconda guerra mondiale, e Testify, nel cui video vengono presi di mira Bush, Al Gore e la politica statunitense.

Quest’epoca vede anche la nascita del primo movimento rock specificatamente femminista: negli anni ’90 nasce infatti il cosiddetto riot grrrl, che è stato a lungo ricordato, nonostante la sua breve durata. Le riot grrrls si riuniscono con il conclamato obiettivo di lottare contro le restrizioni ai diritti riproduttivi promosse dal governo Bush, di protestare contro l’apartheid e in generale di lavorare per l’abbattimento del patriarcato.

La hit delle Bikini Kill Rebel Girl (1993) approccia il tema dell’amore tra lesbiche (ed è stata utilizzata in un video virale di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016), mentre A Real Man delle Sleater Kinney (1995) rivendica la scelta di rifiutare le avance di un uomo. Il movimento delle riot grrrls scompare a metà degli anni ’90, ma il suo atteggiamento grintoso è un chiaro esempio della frustrazione dell’epoca.

Gli anni ’80 e ’90 non producono una grande quantità di canzoni impegnate, ma hanno posto le basi per capire come sono le composizioni politicamente impegnate in un’epoca dove non esiste alcun grande movimento unitario. Nei pezzi, orientati soprattutto alla critica sociale, emergono alcuni temi comuni: femminismo, privilegi e brutalità della polizia; tutte tematiche che non sembrano ancora subire alcun miglioramento.

 

Bush e 11 settembre: la parziale rinascita della musica di protesta

La musica di protesta tende generalmente a fiorire in tempi di grande sconvolgimento politico. Dopo una relativa mancanza di turbolenze negli anni ’90, si poteva presumere che gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la conseguente invasione dell’Iraq ad opera di George W. Bush le avrebbero ridato nuova vita.

Ma mentre l’epoca successiva all’11 settembre favorisce l’insorgenza di profonde emozioni, frustrazioni e disordini che aiutano i cantanti a produrre alcuni capolavori, la mancanza di un movimento politico unitario impedisce la comparsa di una musica di protesta del nuovo millennio.

Questo non significa che non ci siano stati dei tentativi. Gruppi come i Green Day e i Bright Eyes criticano in chiave satirica la direzione che gli Stati Uniti hanno preso dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq. American Idiot dei Green Day, brano che dà il titolo al loro album del 2004, si concentra in particolare su quest’ultima e il cantante Billie Joe Armstrong fa specifico riferimento al modo in cui la copertura mediatica a ciclo continuo usando toni propagandistici abbia operato un lavaggio del cervello alla nazione forzandola a credere a ogni cosa passasse in televisione.

Il cantautore indie Conor Oberst (vero nome di Bright Eyes), nel 2005 lancia When the President Talks to God, aspra critica a Bush che esegue dal vivo in completa tenuta da cowboy al programma The Tonight Show with Jay Leno. Neil Young compone Let’s Impeach the President nel 2006; Natalie Maines, cantante delle Dixie Chicks, durante un concerto a Londra nel 2003, offende pubblicamente Bush, ponendo fine in questo modo alla stratosferica ascesa della band; mentre il rapper Sage Francis in Makeshift Patriot (ottobre 2001) critica la copertura mediatica data agli attacchi dell’11 settembre.

Questi artisti, e altri ancora, mantengono viva la tradizione di protesta musicale. E tuttavia, Bush viene rieletto, le truppe americane rimangono in Iraq e non rinasce alcun movimento politico coeso. A tal proposito, nel suo libro Dorian Lynskey cita Wayne Coyne dei Flaming Lips: “Non è come con il Vietnam. […] I giovani non stanno morendo allo stesso modo. Non c’è nessuna protesta seria. Non è che chi ascolta musica sia davvero impotente, è che semplicemente non gliene frega un cazzo.” La gente è scioccata dall’11 settembre e dalla guerra in Iraq; ma senza una lotta specifica e duratura, le canzoni di protesta non hanno nulla a cui fare da sottofondo.

I brani dell’era successiva all’11 settembre, pur essendo potenti se considerati singolarmente, sono indipendenti l’uno dall’altro: non sono inni di movimento, ma isolate esplosioni di rabbia e frustrazione.

 

Black Lives Matter, femminismo e identità queer nell’era di Obama

Questi pezzi vengono rapidamente relegati nel passato politico con l’elezione di Barack Obama nel 2008. Con un democratico alla Casa Bianca per la prima volta in otto anni e con il primo presidente nero in assoluto, ci si concentra su un diverso tipo di composizione: la canzone di empowerment.

I brani composti sotto Obama tendono più a celebrare l’identità delle minoranze o a supportarne i movimenti. In maniera simile a quanto accaduto negli anni ’80 e ’90 in un clima politico disteso, ma rinfrancata dall’elezione di un presidente nero, progressista e ampiamente celebrato, la musica inizia a concentrarsi su lotte di più lunga durata.

Lady Gaga canta in favore della definitiva accettazione delle persone queer nella sua hit del 2011 Born This Way; Alright di Kendrick Lamar diviene un inno non ufficiale del movimento Black Lives Matter e Beyoncé sdogana il femminismo nel brano Flawless e nell’album del 2014 che porta il suo nome.

Quando Obama viene eletto, Internet è già uno strumento indispensabile per la condivisione di musica. Ma è sotto la sua presidenza che i social network acquisiscono quella capacità di influenzare l’opinione pubblica che hanno oggi: Twitter, Facebook e YouTube nascono nel 2005, ma la loro popolarità cresce verso la fine del decennio. I social media promuovono un nuovo modo di condividere canzoni, dal momento che gli artisti possono raggiungere tutti i loro fan nel giro di pochi secondi. Analogamente nasce una nuova forma di protesta politica.

Prendiamo il caso di Formation di Beyoncè, che la cantante pubblica a sorpresa sul suo canale YouTube il giorno prima della sua esibizione al Super Bowl del 2016. Il video è composto da un montaggio di immagini che mostrano in sequenza il passaggio dell’uragano Katrina a New Orleans, poliziotti in assetto antisommossa e riferimenti al movimento Black Lives Matter e fornisce il contesto per capire la performance dell’artista al Super Bowl: uno spettacolo direttamente ispirato alle Pantere Nere. In poche ore, l’hashtag #Formation diventa un trend, fornendo alle persone uno spazio dove commentare il video, l’artista e le questioni proposte.

 

Una nuova epoca di viralità

Come Beyoncé ha reso chiaro, quando si tratta di aggregare e galvanizzare un pubblico, la musica di oggi ha un punto di forza rispetto a quella degli anni passati: la viralità. Le canzoni contemporanee si diffondono immediatamente online, soprattutto quando sono corredate da video significativi.

I Gorillaz, gruppo hip-hop e rap britannico, lanciano il loro primo singolo dal 2012, Hallelujah Money, il fine settimana precedente all’inaugurazione di Donald Trump. Il video del brano anti-Trump (che ha raggiunto più di 5,5 milioni di visualizzazioni) riproduce l’artista Benjamin Clementine mentre parla davanti a uno sfondo di immagini proiettate tra cui si vedono il Ku Klux Klan e degli arcobaleni.

A volte la viralità di una canzone è così forte da sconfinare dal mondo di internet a quello reale. Prima della marcia delle donne a Washington, il musicista di Los Angeles MILCK organizza online un gruppo di cantanti provenienti da tutto il paese e insegna loro una canzone sul femminismo intitolata Quiet. Il giorno della manifestazione, il gruppo (parte del movimento pussyhat) si incontra ed esegue la canzone, in stile flash mob, per le strade di Washington. Come nei canti “a botta e risposta” del passato, il coro è abbastanza semplice da far sì che un gruppo di persone possa facilmente impararlo online.

Interagire con tali canzoni e video è essa stessa una forma di protesta: anche se le persone non si riuniscono in massa spontaneamente per cantare, guardare un video o ascoltare un brano e poi postarlo sui social media, segnala il proprio interesse e il proprio impegno nei confronti della causa che tale canzone esprime. Quanti più “mi piace” e condivisioni un video riceve, tanto più forte è il sostegno delle persone a questa causa, anche se solo online.

D’altra parte, Roberts ritiene che alcune canzoni di protesta potrebbero funzionare meglio fuori della sfera online: “Penso che ora abbiamo bisogno di canzoni che possano essere condivise da chiunque e imparate velocemente, che possano essere parte di una protesta duratura e che riescano a convincere la gente a partecipare alla protesta più a lungo”.

 

La replica della musica a Trump

Nel corso della campagna presidenziale di Donald Trump, la musica forma un sottofondo di dissenso: artisti come Adele, Neil Young e i Queen diffidano Trump dall’utilizzare le loro canzoni durante i suoi convegni. Decine di cantanti prendono parola contro di lui nei loro concerti e sui social media. Nonostante ciò, Trump vince.

Con centinaia di migliaia di manifestanti scesi in piazza da quando è entrato in carica (marcia delle donne, marcia per la scienza e proteste negli aeroporti contro il “muslim ban”), l’aria è matura perché i musicisti si diano alla contestazione politica. Ma c’è un ulteriore elemento che avvantaggia i musicisti contemporanei rispetto ai brani impegnati delle epoche precedenti: lo stesso Trump.

Con i suoi atteggiamenti, discorsi e azioni, Trump manifesta il suo essere distante dalle norme e dai valori socialmente condivisi. A partire dal nastro di Access Hollywood, dove ha ammesso di aver molestato sessualmente delle donne, fino alla sua derisione di un giornalista disabile e al celebre “muslim ban” (ormai bloccato), il presidente stesso fornisce abbastanza carburante per alimentare la composizione di innumerevoli canzoni di protesta.

I pezzi Tiny Hands di Fiona Apple (“We don’t want your tiny hands anywhere near our underpants”) e Locker Room Talk dei Cold War Kids (“Dirt in your mouth / mic on the sleeve / we all heard how it sounded”) riflettono questo approccio ad hominem di protesta contro la presidenza Trump. In queste tracce, la Apple e i Cold War Kids riprendono lo stile ricco di rapidi scoppi d’ira che ha caratterizzato il periodo dopo l’11 settembre, con testi che sfruttano argomenti ben noti (le dimensioni delle mani di Trump, il nastro di Access Hollywood) e danno agli ascoltatori qualcosa di concreto a cui aggrapparsi, più che una vera e propria causa cui dedicarsi.

Anche i A Tribe Called Quest incanalano questa rabbia verso il nuovo presidente durante la loro performance ai Grammys del 2017, dove Busta Rhymes ringhia: “I just want to thank President Agent Orange for perpetuating all of the evil that you’ve been perpetuating throughout the United States / I want to thank President Agent Orange for the unsuccessful attempt at a Muslim Ban”, prima che il gruppo lanci We the People … , la loro nuova canzone politicamente connotata, in cui fanno aperto riferimento alle deportazioni e alla brutalità della polizia.

L’album in cui la canzone appare, tuttavia, era stato pubblicato prima dell’elezione di Trump. We got It from Here … Thank You 4 Your service, il primo album dei Tribe dopo 18 anni, è quello che Kwame Opam a The Verge ha definito “la quintessenza della musica di protesta” e contiene brani su immigrazione, sessismo e violenza della polizia. Si tratta di problemi sistemici, ma che possono essere facilmente incanalati in una rabbia personale verso Trump, come si vede nella loro performance ai Grammys.

Le politiche di Trump forniscono un ampio bacino di argomenti da cui attingere. Ciò dà origine a canzoni che riguardano i temi tipico del rapporto con le autorità e dei diritti umani e incoraggia i cantanti a scrivere brani i cui proventi vengono destinati a organizzazioni che potrebbero essere danneggiate da Trump. Il progetto 100 Days, 100 Songs è una continuazione dell’iniziativa nata nel periodo precedente alle elezioni 30 Days, 30 Songs: una serie di artisti, soprattutto indie, rilascia una canzone al giorno, i cui proventi vanno a sostenere organizzazioni che potrebbero essere influenzate negativamente dalle politiche del presidente, come Planned Parenthood e la American Civil Liberties Union (che hanno già visto un’impennata nelle donazioni dopo l’elezione di Trump). Analogamente, gli Arcade Fire e Mavis Staples pubblicano, alla vigilia dell’inaugurazione di Trump, I Give You Power, una traccia palpitante che parla della presa e della cessione del potere, i cui proventi sono stati interamente donati alla ACLU.

Ma la protesta musicale non deve essere accompagnata da donazioni o fare aperto riferimento a Trump e alle sue politiche per essere efficace, in particolare se si basa sulla tradizione nazionale della musica di protesta.

Mentre Lady Gaga, nota oppositrice di Trump (che ha definito “uno dei più famigerati bulli che abbiamo mai visto” in un tweet di novembre) si prepara per esibirsi nello spettacolo dell’intervallo del Super Bowl del 2017, dichiara in conferenza stampa: “le dichiarazioni che farò durante lo spettacolo sono le stesse che ho costantemente svolto in tutta la mia carriera”. Data la sua storia, è ragionevole aspettarsi che un messaggio anti-Trump, sottile o meno, farà capolino dalla sua performance.

Ma poi Gaga da avvio alla sua esibizione con una riproduzione in sequenza di God Bless America di Irving Berlin e di This Land is Your Land di Woody Guthrie, la famosa contestazione a Berlin che si erge a difesa delle minoranze sotto-rappresentate e inascoltate. Il centro della sua performance è l’inno queer Born This Way, che riesce nel tendere una mano in solidarietà di un enorme gruppo di persone emarginate durante l’evento sportivo più seguito dell’anno, senza che Trump o le sue politiche vengano mai menzionate per nome.

L’esibizione di Gaga funziona come protesta non attraverso l’estetica che i A Tribe Called Quest hanno usato ai Grammys, ma piuttosto attraverso i riferimenti alla tradizione americana della canzone di protesta e l’utilizzo di uno dei più grandi inni di empowerment dell’ultimo decennio.

 

I prossimi quattro anni

Unire una canzone di protesta tradizionale ad un inno di empowerment del nuovo millennio come ha fatto Lady Gaga potrebbe essere la chiave per creare la prossima generazione di una musica protesta che sia inclusiva e guardi al futuro. E anche se può essere difficile azzeccare la giusta canzone per chiamare all’azione, secondo Roberts (UC Berkeley) la musica di protesta può avere successo se scava nel passato.

“Le tradizioni ritornano, a volte perché il loro immaginario è particolarmente toccante, e talvolta perché l’esecuzione stessa è speciale”. Per esempio gli spirituals del XIX secolo sono stati ripresi negli anni Sessanta e hanno avuto un sacco di successo durante l’era del movimento per i diritti civili. Forse è per questo che A Change Is Gonna Come è ancora oggi considerato un inno.

Roberts è sicura che la musica pop tornerà a occuparsi di politica e questo potrà contribuire a creare un dialogo produttivo. “Ma voglio vedere più brani che dipingano la nostra visione del futuro e non siano una mera reazione agli eventi. Voglio che cominciamo a capire la storia degli altri”. Ciò significa meno canzoni ultraspecifiche sul solco di Tiny Hands di Fiona Apple e simili ad Alright di Kendrick Lamar. Canzoni che creino un dialogo sul futuro desiderato, invece di ruminare sulle ingiustizie e le frustrazioni del presente.

La cultura che creiamo in tempi come questi è essenziale, dice Roberts. “Questa è parte di ciò che ci ha sostenuto in passato e parte di ciò che ci sostiene adesso e che ci permette di connetterci tra di noi come esseri umani”. Ma come ci ricorda Dorian Lynskey al termine del suo libro: che la musica abbia o meno un seguito nella realtà “dipende da tutti noi”.

 


Questa è una traduzione della prima versione di questo articolo datata 22/05/2017.