Riconciliare #MeToo e la lotta al carcere

Luglio 18th, 2019 by Strelka

Foxfire – Cattive ragazze

Riprendendo il filo del discorso sul genere, un interessante contributo statunitense al tema dell’antisessismo anticarcerario.Non vi sto a rispiegare che la linguistica è inerentemente politica che già mi sembra di averci speso su parecchie righe.

L’articolo originale è stato pubblicato su Filtermag il 25/09/2018 e può essere reperito qui. Per ogni possibile errore di traduzione faccio mea culpa.

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Nel 2001 INCITE! Women of Colour Against Violence1 e Critical Resistance, organizzazione per l’abolizione del carcere, scrivevano queste parole: “Chiediamo ai movimenti di giustizia sociale di sviluppare strategie e analisi che affrontino sia la violenza statale che quella interpersonale, in particolare quella contro le donne. Attualmente, gli attivisti e i movimenti che affrontano il problema della violenza di stato (come gruppi anti-carcere e anti-polizia) spesso non entrano in comunicazione coi movimenti che si occupano di violenza domestica e sessuale”.

Gli ultimi 17 anni hanno visto un aumento di gruppi per l’abolizione del carcere. In netto contrasto con i sostenitori della riforma carceraria, che spingono per un miglioramento delle condizioni carcerarie, ma ritengono che le carceri siano in definitiva necessarie per garantire la sicurezza sociale, gli abolizionisti accusano le prigioni di essere luoghi di violenza che non potranno mai essere adeguatamente riformati. Le carceri devono essere eliminate; così come le condizioni che mandano le persone in prigione, inclusi razzismo, povertà e tutte le condizioni che possono portare alla violenza.

Grande assente in molte delle conversazioni sull’abolizione del carcere rimane, tuttavia, il discorso su come affrontare la violenza di genere senza fare affidamento su carcere e polizia. Al contrario, molte delle più importanti organizzazioni che combattono la violenza sessuale e domestica continuano a fare affidamento sul sistema carcerario. All’indomani della condanna a sei mesi inflitta a Brock Turner, studente bianco di Stanford che ha violentato una donna priva di conoscenza, svariati gruppi femministi si sono detti indignati per la brevità della sentenza e hanno chiesto la rimozione del giudice in carica al processo.

Allo stesso modo, man mano che crescevano le accuse contro Harvey Weinstein e Bill Cosby, le richieste di giustizia avevano sempre come obiettivo finale l’arresto e il carcere. Non si è riusciti a riconoscere che pene detentive più lunghe e severe sono sempre state comminate ai membri delle comunità di colore, senza che ciò prevenisse in alcun modo la violenza di genere.

Questo affidamento alle politiche di criminalizzazione rafforza la violenza di stato, che non solo è perpetrata in maniera schiacciante su uomini neri, latini e poveri, ma soprattutto rinforza un sistema che punisce le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali, anche quando queste sono vittime di violenza. Un esempio è il caso di Marissa Alexander, una madre della Florida inizialmente condannata a 20 anni di carcere per aver sparato un colpo di avvertimento al marito violento che la stava per aggredire. Un altro è il caso di Ky Peterson, transessuale nera che sta scontando una pena di 20 anni per aver ucciso l’uomo che la aveva violentata.

Come siamo arrivati alla separazione di questi due movimenti?

Nel 1994, il Congresso approva il Violence Against Women Act (VAWA), che obbliga la polizia a rispondere alle denunce di violenza sessuale, domestica, e altre violenze di genere. Questo è stato il risultato di anni di cause legali e attivismo di molte organizzazioni femministe che volevano costringere le forze dell’ordine a dare una risposta alla violenza di genere, piuttosto che ignorarla in quanto questione interpersonale. In molte giurisdizioni, il VAWA è stato implementato tramite leggi sull’arresto obbligatorio e pene detentive più lunghe. Ha inoltre portato alla politica del “doppio arresto”, per la quale la polizia può arrestare entrambe le persone coinvolte in un episodio di violenza di genere. Alcune giurisdizioni possono trattenere le vittime in quanto testimoni e minacciare multe e arresti se queste non cooperano con la procura. (La città di Columbus, in Georgia, ha cambiato questa sua politica dopo una causa intentata da Cleopatra Harrison, vittima di abusi, e dal Southern Centre for Human Rights).

“Femminismo carcerario” è il termine spesso usato per descrivere questo affidamento all’idea che un rafforzamento della polizia, l’inasprimento delle pene e la reclusione siano la soluzione primaria alla violenza di genere. In linea di massima, il femminismo carcerario considera le soluzioni alla violenza di genere attraverso il punto di vista della borghesia bianca e non considera come fattori quali razza, classe, genere e status di cittadinanza si possano intersecare, lasciando alcune donne più vulnerabili alla violenza, inclusa quella dello stato.

Parallelamente, il numero delle donne incarcerate è aumentato vertiginosamente. Nel 1980, le prigioni statunitensi detenevano 25.450 donne; 10 anni dopo, quel numero è quasi triplicato salendo a 77.762. Nel 2000, la cifra raddoppia di nuovo giungendo a 156.044 e oggi continua a crescere. A partire dal 2017, le detenute sono circa 209.000. (Questi numeri non includono le donne detenute nei centri di detenzione per migranti e nei penitenziari giovanili, né le transessuali detenute in penitenziari maschili). Almeno la metà delle detenute ha denunciato di aver subito violenze ancora prima dell’arresto.

È anche vero che quasi il 90% delle persone incarcerate sono uomini (o classificati come tali). Ma non tutte le attiviste femministe e anti-violenza hanno adottato la soluzione carceraria. Per anni, attiviste come Beth Richie e collettivi come INCITE!, hanno sottolineato come l’aumento della criminalizzazione sostituisca la violenza di forze dell’ordine, tribunali e prigioni a quella individuale, mentre non fa nulla per affrontare alla radice le cause della violenza di genere. Lo abbiamo visto nei casi di Marisa Alexander, Ky Peterson e innumerevoli altre donne e transessuali.

Nessuno sa quante migliaia di vittime di violenza sono dietro le sbarre perché le forze dell’ordine non sono riuscite a garantire la loro sicurezza. Questo perché nessuna agenzia tiene traccia di questi dati. Le statistiche più recenti hanno quasi 20 anni e provengono da un rapporto del Dipartimento di Giustizia del 1999 che affermava che quasi la metà delle donne detenute nelle prigioni statali e federali erano state vittime di abusi prima del loro arresto. Ma, poiché le donne costituiscono solo il 10% della popolazione carceraria della nazione, molte delle conversazioni sull’incarcerazione di massa e sull’abolizione del carcere continuano a riguardare solo gli uomini. Questa interpretazione dei fatti porta a un falso binarismo in cui gli uomini sono sono sempre incarcerati e le donne sempre vittime. Questa suddivisione emargina le persone (di qualsiasi genere) vittime di violenza relazionale e di stato e non riesce a rispondere ai loro bisogni.

Ho intervistato numerose vittime di violenza domestica che sono state incarcerate per essersi difese. Tutte riferiscono che si sono rivolte alla polizia e al sistema legale, e che entrambi non sono riusciti a proteggerle. A volte la polizia ha allontanato il loro aggressore per alcuni giorni, ma ciò non ha fermato la violenza. A volte i tribunali hanno emesso un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore ha palesemente ignorato. A volte la polizia non ha fatto nulla. A volte l’aggressore era parte della polizia stessa. Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggerle come vittime, le ha poi punite per essere sopravvissute alle aggressioni. In carcere, molte di queste vittime sono oggetto di violenza, sia per mano di altri detenuti, che da parte dei membri dello staff o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane.

Al tempo stesso, le organizzazioni anti-carcere continuano a riflettere l’incapacità della società in generale di prendere in considerazione i cambiamenti sociali e culturali necessari a porre fine alla violenza di genere, o di sviluppare modi concreti per prevenire e affrontare il problema della violenza sessuale e domestica nella vita quotidiana.

Secondo Hyejin Shim “i due movimenti non hanno mai realmente comunicato”. Shim lavora con comunità che si collocano all’intersezione tra violenza di genere e violenza di stato, in quanto membro dello staff dell’Asian Women’s Shelter e militante di Survived and Punished, gruppo auto-organizzato che si occupa di dare sostegno alle detenute incarcerate in conseguenza di episodi di violenza di genere. Sebbene gli sforzi per porre fine alla violenza di genere e l’abolizione del carcere siano spesso considerati incompatibili, Shim osserva che “entrambi si concentrano sul porre fine alla violenza”, che questa provenga dallo stato, da un indivudo, o da entrambi.

Giustizia trasformativa

Un modo alternativo per affrontare la violenza interpersonale senza fare affidamento sulla violenza di stato è attraverso la giustizia trasformativa. Il termine si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della vittima, ma anche le condizioni che hanno permesso la violenza. In altre parole, invece di astrarre gli atti di violenza dal contesto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare per far sì che ciò non accada mai più? Che cosa serve alla vittima per guarire?”. Non c’è una serie di passi giusti o sbagliati nella giustizia trasformativa: ogni processo dipende dalle persone e dalle circostanze.

Shim ci tiene a sottolineare che le persone spesso già si impegnano in processi di giustizia trasformativa, anche se non usano necessariamente questo termine. Ci si unisce per sostenere le vittime all’interno dei nostri spazi, aiutandole a identificare ciò di cui hanno bisogno e come accedervi. Shim sottolinea tuttavia che questo tipo di capacità è spesso sottovalutata all’interno dei gruppi e osserva come “all’interno dei nostri spazi sappiamo come organizzare un’azione diretta, ma spesso non siamo in grado di mediare un conflitto tra i membri o di dare supporto a una vittima di violenza”. In un momento in cui grazie a #MeToo sempre più persone stanno denunciando le proprie esperienze come vittime di violenza sessuale o domestica, “noi non siamo stati in grado di creare una rete di supporto adeguata”.

I movimenti anti-violenza hanno sviluppato alcune risorse per colmare queste lacune. Creative Interventions, un’organizzazione dedicata a fornire a “persone comuni le risorse per porre fine alla violenza”, ha pubblicato online una guida di 608 pagine sulle strategie per fermare la violenza di genere. Gli attivisti (e vittime di abusi) Ching-In Chen, Jai Dulani e Leah Lakshmi Piepnza-Samarasinha hanno compilato una zine (ora un libro) di 111 pagine intitolata The Revolution Starts at Home (“La rivoluzione comincia da casa”), che raccoglie una serie di casi in cui alcuni gruppi hanno obbligato i colpevoli di violenza ad assumersi la responsabilità di ciò che avevano fatto.

Un esempio è quello di un centro comunitario coreano di Oakland, in California, che ha gestito un episodio di violenza sessuale reso ancora più complicato da fattori culturali.

Nell’estate del 2006, il centro di Oakland aveva invitato dalla Corea del Sud un insegnante di percussioni perché tenesse un laboratorio di batteria di una settimana. Una notte, l’insegnante ha aggredito sessualmente una studentessa. Il centro ha deciso di gestire il processo iniziando con una telefonata immediata al centro di percussioni in Corea. E anche se “è stato culturalmente difficile per il gruppo coreano americano avanzare richieste agli anziani in Corea, tutti hanno deciso che era quello che andava fatto”.

Dopo che l’istituzione coreana si è assunta la responsabilità e si è scusata, il centro di Oakland ha inviato una lista di richieste, tra le quali figuravano l’obbligo per i membri del gruppo in Corea di partecipare a dei laboratori sulla violenza di genere, l’impegno a inviare almeno un’insegnante donna nei successivi scambi culturali con il gruppo negli Stati Uniti, e la richiesta che l’aggressore sospendesse la propria partecipazione al gruppo per almeno sei mesi e seguisse delle sessioni di terapia con un gruppo femminista di modo da riflettere sull’aggressione.

Il centro di Oakland da parte sua ha intrapreso un percorso offrendo laboratori sulla violenza di genere ai propri membri e ai membri di altri gruppi locali di percussioni, e dedicando il loro festival al tema della guarigione dalla violenza sessuale. Con il consenso della vittima, i fatti relativi all’incidente sono stati stampati nel programma “come sfida alla comunità ad assumersi la responsabilità collettiva di porre fine alle condizioni che perpetuano la violenza di genere, omertà inclusa”.

La storia non ha un finale felice: la vittima non è mai più tornata al centro; il lungo processo di riflessione sull’accaduto “ha indebolito le energie del gruppo e le amicizie che lo tenevano insieme”; l’insegnante di percussioni è tornato a partecipare ai festival in Corea del Sud, ma viene visto con risentimento e sospetto dai visitatori coreani americani. Ma quando Liz, presidente del centro, ha in seguito riflettuto sugli eventi, ha detto: “Alcune persone ci hanno chiesto perché non avessimo chiamato la polizia. Nessuno ci aveva mai neppure pensato”.

Un altro capitolo di The Revolution Starts at Home intitolato “Assumersi i rischi: strategie di assunzione della responsabilità collettiva nei gruppi auto-gestiti” fornisce un altro esempio. Le autrici, il collettivo di donne di colore Communities Against Rape and Abuse (CARA) – Alisa Bierria, Onion Carrillo, Eboni Colbert, Xandra Ibarra, Theryn Kigvamasud’Vashti e Shale Maulanaauthor – descrivono una serie di azioni intraprese da membri di una comunità punk per affrontare le aggressioni perpetrate da Lou, proprietario di un club.

Le autrici riferiscono che Lou “incoraggiava […] le donne a ubriacarsi e poi le costringeva a fare sesso contro la loro volontà”. Nelle discussioni su cosa fare, i membri della comunità “non solo hanno riflettuto sulle esperienze delle vittime, ma anche su come la cultura alternativa locale avesse sostenuto questo tipo di atteggiamento”. Ad esempio, un settimanale popolare negli ambienti underground aveva spesso parlato in modo positivo della massiccia quantità di alcolici presenti alle feste organizzate dal locale di Lou. Con il consenso delle vittime, il gruppo ha prima stampato dei volantini che identificavano l’uomo e denunciavano i suoi atteggiamenti, poi ha chiesto che la scena underground si assumesse collettivamente la responsabilità dell’accaduto, ha criticato il giornale e ha suggerito di boicottare il club.

In risposta, il giornale ha pubblicato un articolo che difendeva l’uomo, lasciando intendere che, dal momento che le vittime non avevano sporto denuncia, le loro accuse non erano credibili. Lou ha minacciato di denunciarle per diffamazione. Ma la comunità punk ha continuato a lavorare con le vittime alla creazione di un documento che non solo denunciasse le loro esperienze, ma articolasse un’analisi critica della violenza sessuale e della cultura dello stupro all’interno della comunità ed esplicitasse cosa intendevano come “assunzione collettiva di responsabilità”. Hanno rilasciato la dichiarazione completa alla stampa e l’hanno pubblicata sul proprio sito web, scatenando nella comunità musicale allargata discussioni sui temi della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità. Lou non è più stato invitato a feste ed eventi, i membri della scena locale hanno iniziato a boicottare il locale e le band di fuori città evitavano di suonare lì, spingendo Lou ad accettare di impegnarsi con la comunità punk e a negoziare un incontro faccia a faccia. Alla fine, comunque, non ha mai accettato di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Il gruppo ha inoltre avviato un processo di formazione sul tema della violenza sessuale e dell’assunzione collettiva di responsabilità, imparando a gestire in proprio dei seminari su queste tematiche e supportando il CARA e altre organizzazioni anti-violenza. Scrivono le attiviste di CARA che “il passaggio critico da compiere è la decisione di costruire l’ambiente che vogliamo ci sia all’interno del gruppo, invece che sprecare tutte le energie a combattere il problema che si vuole eliminare”.

Riflettendo oggi su questo episodio, Bierria, ora attivista di Survived and Punished, ha osservato che “si è messa in campo una risposta potente a un problema di cui spesso non si vuole parlare”.

Allo tempo stesso, ha sottolineato come “assumersi collettivamente la responsabilità dell’accaduto non solo serve a chiarire le responsabilità. Ma è un meccanismo che crea all’interno dei collettivi le condizioni tali per cui questi episodi non si verifichino di nuovo”. Tutto ciò, va riconosciuto, può essere frustrante. “Spesso vorremmo una soluzione più diretta, ma la violenza di genere è più complicata di così”. Negli ultimi due decenni, lei e altri hanno lavorato contro la violenza di genere, a favore dei processi di responsabilizzazione collettiva e dell’abolizione del carcere. Hanno documentato i loro processi, creando progetti e procedure cui lei e altri attivisti non avevano accesso 20 anni fa.

Questi esempi mostrano che i processi di assunzione collettiva della responsabilità da parte del gruppo sono disordinati e raramente seguono un percorso uniforme. Spesso, tuttavia, mescolano e prendono ispirazione da una serie distinta di strumenti alternativi che includono azioni a livello comunitario e individuale. Consulenza individuale per l’aggressore, rimozione dagli incarichi in vista, ammissione di colpa, scuse pubbliche e / o private, workshop e corsi di formazione volti a favorire specifici cambiamenti comportamentali sono solo alcune delle richieste che le comunità possono fare. Indipendentemente dalle forme che assumono, continuare a esplorare alternative alla violenza di stato in risposta alla violenza di genere è un compito essenziale per quei movimenti che vogliano porre fine a entrambe.

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Victoria Law è un giornalista freelance che si occupa di carcere, genere e resistenza. È l’autrice di Resistance Behind Bars: The Struggles of Incarcerated Women. Il suo prossimo libro in uscita, Your Home is Your Prison (in collaborazione con Maya Schenwar), analizza il modo in cui alcune comuni alternative al carcere servano in realtà a supportare il processo di criminalizzazione. I suoi scritti possono essere trovati su: https://victorialaw.net/.

1INCITE! da allora ha cambiato nome in INCITE! Women, Gender Non-conforming, and Trans people of Colour Against Violence.

“Perché non hai detto no?” – pragmatica del rifiuto e violenza di genere

Marzo 8th, 2019 by Strelka

 

“Ma via, la tua spada riponi
ora nel fodero; e poi saliam sul mio letto: ché quivi
nei cuor d’entrambi induca fiducia l’amplesso d’amore”

Circe ad Ulisse
sugli indizi sottili con cui una donna
vi fa capire che vuole portarvi a letto

Odissea, Libro X, traduzione di Ettore Romagnoli (1926)

Disclaimer: nell’articolo si fa riferimento alla violenza di genere come ad un meccanismo perpetuato unicamente su donne da parte di uomini. Sono perfettamente consapevole che questo non cattura la complessità del fenomeno; gli studi linguistici sul rifiuto, tuttavia, si sono occupati solamente di questa dimensione. L’accademia statunitense sta via via allargando l’indagine anche a situazioni che non coinvolgono solo persone cis-gender ed eterosessuali. Restate connessi per ulteriori aggiornamenti.


Emile Levy – Circe

La nozione di linguaggio come elemento costitutivo del reale è vecchia quanto Bakthin (1981), Bourdieau (2003), Foucault (1969), Voloshinov (1976), e altri che non nomino per mancanza di tempo e spazio. La mia esperienza è che chi nega questo fatto solitamente o non è consapevole della (o non ha mai riflettuto sulla) questione, oppure utilizza la scusa del “non è attraverso il linguaggio che cambiamo la società” come dito dietro cui nascondere sessismo/razzismo/classismo/ableismo e qualsivoglia tipo di discriminazione. L’idea che il linguaggio non abbia ripercussioni sul nostro quotidiano e non abbia posto nelle lotte è datata, non supportata dalla ricerca (quasi tutta sviluppatasi in correnti teoretiche che non sono facilmente liquidabili come “borghesi” o “liberal”) e si basa sull’idea che esistano “le cause giuste” e il resto – ovvero tutto quello che può essere posposto alla rivoluzione.

Uno dei compiti della linguistica è spiegare COME il linguaggio ha un effetto sulla nostra vita quotidiana. E in onore della giornata di oggi e di tutte le compagne che stanno lottando, ci occuperemo di un caso esemplare di come la nostra percezione del parlato quotidiano abbia delle ripercussioni enormi sulle nostre vite e sulle nostre lotte. Attraverso l’analisi conversazionale e l’analisi critica del discorso smonteremo la retorica del rifiuto all’interno della dinamiche di genere.

La retorica del rifiuto

Al di là dei numerosi altri fattori da considerare nel rispondere alla domanda (meccanismi di socializzazione, sessismo istituzionalizzato, rapporti di potere e gerarchie di genere, etc.), il modo in cui concepiamo la violenza di genere ha a che fare con un meccanismo chiamato framing (Lakoff and Johnson 1980), ovvero il modo in cui ci viene presentato un concetto. Centrale nell’educazione (formale e non) di moltissime è stata l’idea che “a dire no” (l’atto linguistico del rifiuto) si possa imparare, e che dire di no ci metta al riparo da situazioni di violenza. Attraverso il ripetuto framing del concetto di consenso come l’atto di poter esercitare il proprio rifiuto, è filtrata nella società questa idea che “basta dire no” in maniera convinta per segnalare all’altro che non vogliamo avere un rapporto.

“Basta dire di no” è un messaggio pervasivo e tossico, che una parte del movimento femminista (non italiano) ha visto per un certo periodo come una strategia di empowerment femminile. Riappropriarsi del rifiuto come strumento per riprendere controllo dei propri desideri e del proprio corpo, e di far valere i propri bisogni. Questo tipo di approccio poggia sulla convinzione che la violenza di genere sia il risultato di un errore di comunicazione tra la vittima e l’autore della violenza, che non è in grado di cogliere gli indizi verbali e non verbali che gli vengono proposti (Tannen 1991). Il corollario a questa posizione è l’idea che esista una differenza sostanziale nel modo in cui uomini e donne recepiscono il rifiuto, e che uomini e donne abbiano diversi stili di interagire che fanno sì che nella comunicazione tra i due generi si creino degli spazi di incomprensione. Inutile dire che questa interpretazione è inaccettabile (per non dire questo).

Come diciamo di no

Rifiutare una richiesta più o meno esplicita non è facile. Opporre e accettare un rifiuto è una pratica sociale raffinata e complessa, che richiede una serie di capacità interazionali specifiche: non vogliamo offendere la nostra interlocutrice, vogliamo che mantenga un’idea positiva di noi, non vogliamo sembrare troppo dirette (Goffman 1971).

Lo studio di una serie di conversazioni quotidiane ci restituiscono l’idea che nella realtà di tutti i giorni noi non “diciamo di no”, ma utilizziamo diverse strategie per esprimere la stessa idea (Kitzinger & Frith 1999). Le più comuni includono:

  • pause o ritardi nella risposta, spesso accompagnate da segni di comunicazione non verbale quali sorrisi, spostamento dello sguardo, e movimenti delle mani volti a segnalare che siamo occupate con altro. Una lunga pausa dopo un’offerta è un segnale chiaro che la nostra interlocutrice non è interessata.
  • tentennamenti, espressioni come “mmm”, “ehm”, seguiti a volte da pause.
  • palliativi, ovvero frasi dette con l’intenzione di riparare all’eventuale torto fatto all’interlocutrice. Espressioni come “magari domani, oggi non posso”, o il grande classico milanese “ci becchiamo per un aperitivo uno di questi giorni”.
  • giustificazioni, dette con l’obiettivo di sembrare “impossibilitate” a fare qualcosa, e non “non desiderose” di farla.

La lista potrebbe essere più lunga, ma il punto della questione è che se qualcuno mi invita ad andare a bere una birra e io rispondo “ah cavolo domani sera? eh sì forse ho da fare, ti tengo aggiornato. dammi il tuo numero che ti scrivo io”, a voi non serve un “no” per capire dove sto andando a parare. Per avere un’idea delle dimensioni quantitative del fenomeno, in uno studio sulle strategie di rifiuto utilizzate dai parlanti italiani, su 395 occorrenze di atti che segnalano rifiuto da parte di un interlocutore, solo nell’1,8% dei casi notiamo un rifiuto netto (“No”, “No grazie”) (Frescura 1997).

Sebbene ci siano degli stili di interazione preferiti dalle donne (vengono usati più tentennamenti e meno formule di rifiuto netto), non c’è alcun dato che dimostri come gli uomini non siano in grado di comprendere un rifiuto, anche quando questo è formalmente espresso da un “sì”. Esempio: “andiamo al cinema?” “sì son già là”. Se non capite il significato di questa frase, o non siete dei parlanti madrelingua, oppure siete un software di traduzione automatico basato su regole (in tal caso, distopie tecnologiche permettendo, non avete bisogno di imparare cosa sia il consenso).

La ricerca suggerisce che le conversazioni siano complesse, “sì” può voler dire “no” e “no” non deve essere necessariamente un rifiuto. Che cosa implica tutto questo per la lotta alla violenza di genere? Implica il fatto che le donne tendono a non opporre un rifiuto netto alla richiesta di prestazioni sessuali in parte perché “dire semplicemente di no” non è normale in nessun contesto quotidiano. Il sesso viene rifiutato attraverso quelle stesse strategie che sono tranquillamente riconosciute dagli uomini eterosessuali nella vita di tutti giorni. Dire che la mancanza di un rifiuto netto rende impossibile ad un uomo di capire che una donna sta negando il proprio consenso equivale a dire che il suddetto uomo non è in grado di interpretare normali meccanismi di comunicazione che utilizza ogni giorno (Kitzinger & Frith 1999).

E se non capite il 98% delle vostre interazioni giornaliere, magari è tempo di prendere in considerazione l’ipotesi che siate un calcolatore elettronico degli anni ’70.

 


Riferimenti

Bakhtin, M. M. (1981). The dialogic imagination: Four essays (Vol. 1). University of texas Press.

Bourdieu, P. (2003). Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, tr. it. Cortina.

Foucault, M. (1969). L’archeologia del sapere, tr. it. Rizzoli, Milano.

Frescura, M. (1997). Strategie di rifiuto in italiano: uno studio etnografico. Italica, 74(4), 542-559.

Goffman, I. (1971). Relations in Public. New York: Harper and Row, 19

Kitzinger, C., & Frith, H. (1999). Just say no? The use of conversation analysis in developing a feminist perspective on sexual refusal. Discourse & Society, 10(3), 293-316.

Lakoff, G., & Johnson, M. (1980). Metaphors we live by. Chicago, IL: University of.

Tannen, D. (1991). You Just Don’t Understand: Women and Men in Conversation. London:Virago.

Volosinov, V. N. (1976). Marxismo e filosofia del linguaggio (Vol. 43), tr. it. EDIZIONI DEDALO.

Bibliografia per approfondire

Cameron, D., and Don Kulick. (2003). Language and Sexuality. Cambridge: Cambridge University Press. – per un’analisi della feticizzazione del “no” e di come il rifiuto netto da parte di una donna venga interpretato come un invito a farle cambiare idea

Ehrlich, S., Holmes, J., & Meyerhoff, M. (Eds.). (2017). The handbook of language, gender, and sexuality. John Wiley & Sons.

OmegaT: uno strumento open-source per la traduzione assistita

Luglio 12th, 2018 by Strelka
If you have a natural aversion to reading instructions, and your approach to new software is to click on every button you see until something resembling the desired effect occurs, then OmegaT is probably not suitable for you.

 

Anche per quest’anno si è concluso l’hackmeeting, l’incontro delle controculture digitali italiane, una tre giorni di condivisione critica di saperi, autogestione e riflessione collettiva sulle tecnologie che utilizziamo quotidianamente (qui una carrellata dei seminari presentati quest’anno). Tra i talk di quest’anno, anche il mio dedicato a uno strumento utile a chi si trova a tradurre documenti di testo medio-lunghi o documenti brevi ma simili tra loro (ad esempio volantini).

OmegaT è un software open-source per la traduzione assistita da computer (CAT). La traduzione assistita è un sistema nel quale un traduttore umano utilizza un programma per automatizzare il processo traduttivo. Non va confusa con la traduzione automatica (machine translation), che è invece il servizio che offrono Google Traduttore o Deep L.

Se imparare a usare un CAT può sembrare complesso o inutile, è importante invece considerare che questo tipo di strumenti hanno svariati vantaggi che rendono il loro uso ideale anche per chi non si occupa di traduzione a livello lavorativo. Un buon CAT infatti

  1. automatizza il processo di traduzione, lasciando la possibilità di concentrarsi sui compiti più difficili;
  2. mantiene in memoria le scelte traduttive, garantendo la coerenza tra testi diversi o all’interno dello stesso testo;
  3. permette di collaborare alla traduzione di un testo;
  4. restituisce il testo tradotto in un documento che mantiene la formattazione dell’originale.

 

OmegaT è uno strumento abbastanza intuitivo, ma richiede comunque un minimo di buona volontà nel leggersi le istruzioni: il tempo che impiegate ad imparare come usare questo software è tempo che recupererete al momento di tradurre. Se state valutando di usare uno di questi strumenti, ma OmegaT non vi convince, vorrete riconsiderare il vostro rapporto con i software proprietari. Ad ogni modo ricordatevi che un buon CAT dovrebbe avere almeno queste componenti:

  • una memoria di traduzione (TM) che possa essere esportata ed importata per nuovi progetti. La TM è un database che mantiene in memoria un segmento e la sua traduzione. Questi elementi vengono salvati in coppia e vengono riproposti dal programma ogni volta che il testo di partenza presenta una combinazione di parole identica o simile a quella tradotta precedentemente. Una memoria di traduzione ricca permette di ridurre notevolmente i tempi di traduzione perché permette di riutilizzare scelte effettuate in precedenza.
  • un glossario che possa essere modificato dall’utente e riciclato per altri progetti. Un glossario è una lista di termini con corrispondente traduzione che viene compilata dal traduttore o dall’autore del testo di partenza (o dal cliente se state effettuando una traduzione per lavoro). Una buona pratica per tradurre documenti politici è quella di salvarsi in un glossario le specifiche traduzioni di ogni concetto o gruppo politico e riciclare queste traduzioni in tutti i testi successivi per mantenere la coerenza nel corso del tempo.
  • diversi dizionari che vi vengano in soccorso quando non trovate le parole giuste per l’occasione.
  • la capacità di fare desktop publishing, ovvero mantenere la formattazione del documento di partenza in quello di arrivo, così da risparmiarvi l’onere di dover riformattare tutto una volta finita la traduzione.

 


Tradurre in 5 minuti

(Qui la presentazione utilizzata per il seminario con le schermate del programma. Qui un articolo che ho tradotto con OmegaT.)

Per prima cosa volete installare un dizionario e attivare la funzione di correzione ortografica (di default non attivi su OmegaT). Per fare questo seguite il percorso Opzioni > Preferenze > Correttore ortografico. Selezionando Installa nuovo dizionario il programma vi permetterà di scegliere tra i dizionari in dotazione per ogni lingua (dovete installare un dizionario per ogni lingua verso cui traducete). Cliccando su Controlla automaticamente l’ortografia il programma controllerà le vostre traduzioni man mano che lavorate.

 

Per avviare un nuovo progetto su OmegaT, basterà selezionare Progetto > Nuovo.

 

Una volta aperto un nuovo progetto, vi si presenterà una schermata che vi chiede di salvare il vostro progetto in una cartella. Questo passaggio è fondamentale, dal momento che in OmegaT ogni progetto è costituito da una serie di cartelle contenenti statistiche, glossari e TM, oltre al documento con la traduzione, a cui il programma avrà bisogno di accedere nel corso del lavoro. Prestate attenzione a dove salvate questa cartella, dal momento che se volete caricare nuovi glossari o TM avrete bisogno di accedervi.

 

A questo punto OmegaT vi chiederà di selezionare i parametri del vostro progetto. Qui vi viene chiesto di selezionare le due lingue con cui state lavorando: la lingua di partenza è la varietà in cui è scritto il testo su cui state lavorando, mentre la lingua di arrivo è la varietà in cui voi state traducendo il testo. Selezionando la casella Abilita la segmentazione a livello di frase permetterete al programma di dividere il testo in tanti segmenti di traduzione quanti sono i periodi del testo (o di spezzare i periodi se questi sono considerati troppo lunghi). Se deselezionate questa opzione, OmegaT tratterà il vostro testo come un unico segmento (o lo spezzerà in paragrafi): questa opzione vanifica l’utilità di avere una memoria di traduzione e dovrebbe essere evitata. L’opzione Propagazione automatica delle traduzioni dovrebbe essere automaticamente settata in un nuovo progetto: questa funzione permette ad OmegaT di tradurre in automatico un segmento se questo è identico al 100% ad un segmento da voi tradotto in precedenza.

 

Una volta selezionati i parametri del vostro progetto, si aprirà una finestra che vi chiederà di caricare i file contenenti il testo che volete tradurre (non tutti i formati sono supportati da OmegaT). Il programma vi permetterà di navigare fino al file desiderato e cliccando su Copia i file nella cartella di partenza, i file verranno inseriti nella corrispondente cartella \source\ del progetto e preparati per la traduzione.

 

A questo punto il vostro file è pronto per la traduzione e questa è la schermata che vi si presenterà. Il segmento in traduzione al momento sarà visualizzato in entrambe le lingue, mentre il testo già tradotto apparirà solo nella lingua di arrivo, e quello da tradurre solo nella lingua di partenza. Mano a mano che continuerete la traduzione, OmegaT vi avviserà di eventuali somiglianze con segmenti precedenti e vi ricorderà come avete tradotto quel segmento (Concordanze parziali – fuzzy). I tag che circondano alcuni dei segmenti sono indicazioni di formattazione e non vanno toccati se volete preservare il formato nel documento di arrivo.

 

Sull’angolo in basso a destra dell’interfaccia di OmegaT potete notare una serie di numeri. Questi sono indicatori sul progresso di traduzione. Il primo numero (7/26) si riferisce al numero di segmenti presenti nel testo: in questo caso sono stati tradotti 8 segmenti su un totale di 26. La seconda proporzione (2/18) si riferisce al numero di segmenti univoci presenti nel testo (segmenti che non si ripetono), mentre il terzo numero riporta nuovamente il numero totale di segmenti presenti nella traduzione (nel caso in cui il progetto sia composto da più di un file questo numero sarebbe costituito dalla somma dei segmenti presenti in ogni file). L’ultimo indicatore (54/29) si riferisce al numero dei caratteri presenti nel segmento nella lingua di partenza e in quella di arrivo: in questo caso il segmento nella prima è lungo 54 caratteri, mentre la traduzione è lunga 29 caratteri. Questa informazione può essere particolarmente utile se avete limiti di spazio da rispettare perché vi permette di regolarvi sulla lunghezza della vostra traduzione senza doverla vedere su carta o schermo.

 

Una volta che avete terminato di tradurre il testo, potete creare il documento di arrivo selezionando Progetto > Crea i documenti di arrivo. A questo punto potrete dedicarvi alla correzione del lavoro. Un buon consiglio è quello di stampare il testo di arrivo e leggere il vostro lavoro su carta (magari lasciando passare qualche ora dalla traduzione) per individuare meglio eventuali errori. Una volta corretto il testo, tuttavia, sarebbe una buona pratica quella di non correggere direttamente il testo nel file di arrivo, ma di tornare in OmegaT, recuperare i segmenti dove vanno implementate le correzioni e generare un nuovo testo di arrivo corretto. In questo modo verrà modificata anche la vostra memoria di traduzione e le modifiche verranno tenute in memoria per traduzioni future.

 


Impostare un progetto condiviso

La funzionalità che ho apprezzato maggiormente in questo programma è la possibilità di lavorare in collaborazione con altri utenti. OmegaT fornisce diverse possibilità per lavorare a un progetto condiviso, la soluzione che si è rivelata più comoda per me è stata quella di creare una repository git condivisa (nel mio caso su Lattuga, un server autogestito) e di darvi accesso alle compagne che stanno collaborando con me. Io ho provato ad avviare un progetto condiviso su Linux e su Windows, e nel primo caso il procedimento è molto più intuitivo e semplice. Se utilizzate Windows o Mac troverete i dettagli su come avviare un progetto condiviso nella documentazione di OmegaT. Se state valutando l’ipotesi di passare a un sistema non proprietario (es. Linux), ma temete che sia più complicato da usare, sappiate che in OmegaT i progetti condivisi creano molti meno problemi che in Windows (dove diverse versioni di OmegaT non sono sempre compatibili tra loro nei progetti condivisi).

Per avviare un progetto condiviso è necessario che una tra le utenti diventi amministratrice del progetto. Il primo passo è creare una nuova repository che ospiterà tutte le cartelle del vostro progetto.

 

A questo punto dovreste trovarvi davanti a questa schermata, che vi darà le indicazioni per inizializzare il vostro progetto e vi fornirà una URL che potrete condividere con tutte le vostre collaboratrici. Quello che avete davanti non è ancora un progetto. Non potete aprire una repository vuota, per cui non appena creata questa cartella condivisa, vi verrà chiesto di eseguire il primo commit. Se non siete pratiche di informatica, sappiate che Lattuga rende questo processo estremamente semplice, perché vi basterà copiare riga per riga il codice con le istruzioni per creare un commit e passarlo nel terminale (Ctrl+Alt+T per aprire il terminale). Potreste dover installare dei pacchetti aggiuntivi per far funzionare il programma, ma tutte le istruzioni vi verranno fornite nel terminale.

 

Al termine del processo, vi troverete davanti una nuova schermata. Questa è la vostra cartella condivisa. In un primo momento conterrà solamente questo file README.md che avete creato seguendo le istruzioni precedenti. Una buona idea è quella di scrivere una descrizione del vostro progetto in questo file, per permettere a chi accederà alla cartella in un secondo momento di orientarsi meglio.

 

Una volta creata, la vostra repository dovrà contenere una serie di file per funzionare correttamente per chiunque si aggiunga come collaboratrice al progetto. Senza questi file il programma non permetterà di scaricare i progetti in collaborazione. Credo ci siano modi più eleganti per questo passaggio, ma il metodo più sicuro per far funzionare il tutto per me è stato creare un progetto in OmegaT sul mio computer (e quindi seguire i passaggi indicati sopra), incollare le cartelle create dal programma nella repository su Lattuga, e cancellare il progetto non condiviso. Per far sì che il programma funzioni dovete includere nella repository condivisa i seguenti file:

  • il file di progetto omegat – omega.project
  • tutti i file contenuti nella cartella /source/ (ovvero i file contenenti i testi da tradurre)

 

A questo punto il vostro progetto condiviso è pronto. Se avete scelto di utilizzare Lattuga, le vostre collaboratrici dovranno creare un proprio account sul server ed essere da voi autorizzate ad avere accesso al progetto. A questo punto sia voi sia le vostre collaboratrici non dovrete fare altro che seguire il percorso Progetto > Scarica il progetto in collaborazione e inserire la URL della vostra repository. OmegaT riconoscerà che state caricando materiale da una cartella Git e vi chiederà nome utente e password per creare una copia locale della repository sul vostro computer.

 

Potete quindi iniziare a tradurre il documento dal vostro computer senza preoccuparvi di altro. OmegaT aggiornerà in automatico ogni 3 minuti circa il vostro progetto, distribuendo le modifiche ai glossari e alla memoria di traduzione a chiunque stia collaborando al progetto.

Se vi interessano altri tutorial, il sito di OmegaT fornisce un’ottima documentazione in diverse lingue, tra cui un tutorial con esercitazioni (in inglese), un breve tutorial con consigli di traduzione (in russo) e un video tutorial (in portoghese brasiliano). La documentazione inoltre vi spiegherà nel dettaglio svariate altre funzioni che non ho toccato in questa breve presentazione, ma che potranno rivelarsi utili (tra tutte la traduzione automatica).