Tesoro, mi si sono confusi i referenti!

Ottobre 25th, 2025 by Strelka

Una critica al linguaggio inclusivo all’apparenza sofisticata riguarda la supposta difficoltà di comprensione di un testo causata dalla rottura dell’accordo grammaticale nel testo. Questa argomentazione è composta di due parti:

  1. l’uso di forme inclusive rompe la relazione tra una parola e il suo referente (le persona cui si riferisce)
  2. la rottura di questa relazione rende impossibile la comprensione del testo

Perchè la critica abbia senso, entrambe le parti devono essere vere contemporaneamente. La ricerca linguistica ci suggerisce che nessuna di queste parti è inequivocabilmente vera. Per comodità di trattazione (e per la frequenza delle critiche) concentriamoci sul caso della schwa.

Quando comunichiamo, abbiamo bisogno di seguire nel tempo (tracciare) gli elementi coinvolti nella conversazione (referenti). Questo processo linguistico e cognitivo si chiama ‘tracciamento dei referenti’ ed avviene con entità di vario tipo, ma è più facile capirlo nel caso delle persone (che sono comunque il caso d’uso principale della schwa). Prendete questa frase:

(1)  Chiara ha visto Mario. 
Gli ha detto di non stare seduto in disparte.

Questa frase ha due referenti: Chiara e Mario. La desinenza grammaticale del verbo stare seduto suggerisce che il referente della forma è Mario (terza persona, singolare, maschile). Chi ascolta quindi capisce tre cose: Mario stava compiendo l’azione di ‘stare seduto’, Chiara è la produttrice di un messaggio, Mario è il destinatario del messaggio. Questo è quello che si intende quando diciamo che l’accordo grammaticale di genere permette di riconoscere i referenti in un testo.

Fino a qui, niente da obiettare. Il genere grammaticale emerge nelle lingue del mondo per vari motivi, UNO dei quali è il tracciamento dei referenti. Credere in questo fatto non significa però accettarne la conseguenza estrema, ovvero che “se si eliminano le desinenze scompaiono tutti i collegamenti morfologici, e il testo diventa un mucchietto di parole delle quali non si capisce più la relazione”. Non solo, ma se quest’ultima affermazione fosse vera dovrebbe applicarsi anche nei casi in cui parliamo di due referenti con lo stesso genere. In altre parole: questa affermazione è vera solo in una formulazione così astratta da identificare come problematiche anche le costruzioni in italiano standard che si vogliono andare a salvaguardare.

Problema 1: la funzione linguistica dipende dal contesto d’uso

Se scriveste un testo senza NESSUN collegamento morfologico, allora (forse) non si capirebbe niente. Ma: 1) la schwa non sostituisce TUTTI i collegamenti morfologici di un testo; 2) i collegamenti morfologici di un testo NON contribuiscono sempre nello stesso modo al tracciamento dei referenti. Prendete queste frasi:

(2)  a. Sono andatə al mare.
b. Sei sicurə di quello che dici?
c. Ludo ha sentito Max. È arrivatə ieri.
d. Max si sente sicurə di quello che dice.

Nei casi (a) e (b) non c’è ambiguità di referente. Le prime e seconde persone in conversazione sono presenti al momento dell’interazione e quindi si possono sempre ricavare dal contesto. In questi due esempi, il genere grammaticale non aiuta a tracciare il referente più di quanto lo faccia la persona del verbo (sono e sei). E infatti la frase (a) potrebbe essere detta con una forma che manca di genere grammaticale (andai al mare) e non risultare ambigua. Il caso (d) è solo una versione complicata dei casi (a) e (b): il tracciamento del referente è garantito dal riflessivo (si sente), il genere grammaticale è ridondante. L’unico caso in cui il genere grammaticale da solo supporta il tracciamento del referente è (c), dove il verbo nella seconda frase potrebbe riferisi a Max o a Ludo. Se assumiamo che Max sia un uomo e Ludo una donna, allora questo è l’unico caso in cui il genere grammaticale aiuta il tracciamento dei referenti.

Quando valutiamo una costruzione grammaticale, dobbiamo analizzarla nel suo contesto d’uso specifico. Questo significa che dobbiamo considerare per prima cosa la sua frequenza d’uso, poi mappare gli elementi che appaiono nel contesto, poi considerare le forme alternative a quella in analisi e la loro frequenza, e infine isolare i casi della funzione che ci interessa. Nelle frasi in (2), il genere grammaticale è necessario al tracciamento dei referenti solo nel caso (c), mentre nei casi (a-b-d) fornisce informazioni aggiuntive sul referente, ma non serve a identificarlo. Le due funzioni non sono equivalenti e non ha senso studiarle assieme. Se un testo contiene 50 usi della schwa, 45 nei casi (a-b-d) e 5 in (c), la potenziale ambiguità di referenza esiste solo in 5 casi, non in 50.

Quando leggete una schwa in un testo, lo fate conoscendo i contesti d’uso nell’esempio (2). Questi contesti non vengono azzerati solo perché vedete un segno inusuale. E infatti potrei mettere un segno qualsiasi al posto della desinenza grammaticale nei casi (2a-b-d) e capireste perfettamente il senso della frase. Se usassi una delle lettere che sulla tastiera è vicina a quelle usate per le desinenze grammaticali pensereste semplicemente che ho sbagliato a digitare (sono andats al mare), ma non avreste nessun problema a capire di chi sto parlando.

Per ricapitolare: la funzione di tracciamento dei referenti non è l’unica funzione della schwa. Per capire se la schwa rende difficile il tracciamento dei referenti in italiano bisogna prima chiarire la frequenza di questa costruzione e poi analizzare solo i casi che stanno nei parametri di interesse. Finora non ci sono studi basati su osservazione empirica che hanno prodotto questa analisi per l’italiano. Tutti i contributi sul tema sono basati sull’intuizione di chi scrive.

Problema 2: il tracciamento dei referenti non dipende solo dal genere grammaticale

Il ‘genere grammaticale’ è un sistema di classificazione dei nomi. I nomi possono essere classificati secondo caratteristiche diverse: la forma, la lunghezza, i suoni che lo compongono, la destinazione d’uso dell’oggetto descritto, etc.. Il termine ‘genere’ è un lascito storico della tradizione linguistica, ma non è davvero utile a rappresentare il tipo di informazioni che codifica in lingue diverse da quelle indo-europee. La maggior parte delle lingue del mondo non possiede il genere grammaticale. Alcune lingue hanno sviluppato sistemi con 5 o più livelli. L’esistenza di questa varietà linguistica ci suggerisce che il vantaggio del genere grammaticale non può trovarsi in un supposto collegamento tra grammatica e biologia. In questo caso, il criterio della divisione in gruppi è meno importante del fatto che i nomi di una lingua si possano dividere in gruppi. Se la vostra lingua ha 5 generi grammaticali, potete dividere i nomi in 5 gruppi. Nel tracciamento dei referenti questa distinzione in gruppi ha un vantaggio.

In conversazione, la comprensione linguistica non è perfettamente lineare: non aspettiamo che l’altra persona abbia finito di parlare per capire cosa sta dicendo. Chi ascolta prova a prevedere cosa arriva nella frase e aggiusta le previsioni sulla base di tantissimi fattori. Uno di questi fattori è il genere grammaticale. Il vantaggio del genere grammaticale è quello di restringere le probabilità che avete davanti. Immaginate di avere un bicchiere e una forchetta su un tavolo e che io vi dica le seguenti frasi:

(3)    a. Mi passi ...
b. Mi passi la ...

Nel caso (3a) è ugualmente probabile che io voglia il bicchiere o la forchetta. Nel caso (3b) potete restringere il campo delle possibilità e usare l’accordo grammaticale dell’articolo per prevedere che il termine successivo sia forchetta. In termini tecnici: l’accordo grammaticale dell’articolo in (3b) velocizza la disambiguazione del referente forchetta.

Anche ammettendo che il genere grammaticale renda più veloce il tracciamento di un referente, questo non vuol dire che sia l’UNICO elemento che lo rende possibile. Potrebbe anche essere vero che il tracciamento dei referenti è rallentato, ma che questo rallentamento sia talmente piccolo da non avere conseguenze o che altri meccanismi intervengano a sopperire a questo rallentamento. Senza un’analisi basata su dati empirici, non abbiamo modo di prevedere cosa succederà nella comunicazione quotidiana. Anzi la riprova che la copertura mediatica del linguaggio inclusivo non sia fatta in buona fede sta nel fatto che esistono dati empirici che contraddicono questa interpretazione e non ne viene mai chiesto conto a chi prende parola sul tema linguaggio inclusivo.

Se l’assenza di genere grammaticale rende il testo “un mucchietto di parole di cui non si capisce la relazione”, bisogna essere in grado di spiegare:

  1. come funzionano le lingue del mondo che non hanno il genere grammaticale?
  2. come funziona l’italiano nei casi in cui più referenti usano lo stesso genere grammaticale?

Una posizione “anti-schwa” in buona fede dovrebbe aver considerato questi due casi e prevedere almeno una risposta. Il primo in quanto suggerisce l’esistenza di meccanismi di tracciamento alternativi al genere grammaticale che siano almeno altrettanto forti. Il secondo perchè è un caso d’uso frequente in italiano che contraddice la teoria. E infatti, il secondo caso ci suggerisce che il genere grammaticale da solo non è necessario a garantire la corretta comprensione di una frase.

Quando sopra vi ho proposto l’esempio (1), vi sarà probabilmente venuto in mente che nella vita quotidiana spesso parliamo di persone che usano lo stesso genere grammaticale. Quindi incontrare una frase come questa è abbastanza frequente:

(4)  Luigi ha visto Mario. 
Gli ha detto di non stare seduto in disparte.

Se l’utilità del genere grammaticale sta nella possibilità di differenziare i nomi in classi e raggrupparli con gli elementi che li riferiscono, allora il caso in cui la differenza non viene sfruttata è equivalente al caso in cui la differenza non esiste. In altre parole: il caso in (4) è funzionalmente identico al caso della schwa. Eppure, se vi chiedessi di dirmi “chi non deve stare seduto in disparte?”, probabilmente rispondereste Mario. Questo succede perchè in una comunicazione la coesione è garantita da segnali ridondanti che vengono combinati esattamente al fine di diminuire i problemi di comprensione. In questo caso, avete applicato il principio di continuità del tema e correttamente assunto che il soggetto delle due frasi fosse lo stesso, il genere grammaticale non ha contribuito nulla nè impedito questa analisi.

Questo esempio è stato costruito apposta per confondervi e comunque non pone grossi problemi di comprensione. Ora immaginatevi che nella produzione linguistica di ogni giorno chi scrive vuole farsi capire e si impegna a ridurre l’ambiguità e chi legge ha accesso a una vasta quantità di contesto su cui basare la propria interpretazione. Quanti casi REALI esistono in cui la schwa è l’unica traccia di un referente e l’intero processo comunicativo si rompe? E in questi casi, perchè i meccanismi di riparazione degli errori (e.g. la ripetizione) che usiamo tutti i giorni non dovrebbero funzionare?

Per ricapitolare: una teoria linguistica in buona fede deve saper spiegare l’esistenza di casi che la contraddicono. Nel caso della schwa, bisogna spiegare perchè quando viene usata non dovrebbero più entrare in vigore i meccanismi di inferenza e riparazione degli errori che esistono in altri casi di ambiguità presenti in italiano.

Problema 3: il vantaggio di velocità del genere grammaticale non è stato dimostrato

Il fatto che molte lingue del mondo abbiano sviluppato il genere grammaticale ci suggerisce che sia utile, ma il fatto che un elemento sia utile non significa che sia importante e neanche che sia necessario. Nel caso del tracciamento dei referenti, i lavori di Jennifer Arnold suggeriscono che il vantaggio contribuito dal genere grammaticale alla velocità di disambiguazione del referente vada ridimensionato. Nello specifico, il livello di accessibilità di un referente (un indice che codifica la facilità con cui si può risalire a un’informazione nota) sembra essere utilizzato in combinazione con il genere grammaticale per tracciare i referenti.

Per esempio: il principio di continuità del tema menzionato in (4) può essere spiegato in termini di accessibilità. In assenza di altri fattori, i soggetti di frasi transitive tendono a essere più accessibili degli oggetti. Quindi al termine della prima frase, per chi ascolta, il soggetto (Luigi) è più accessibile dell’oggetto (Mario). Quando bisogna assegnare un soggetto alla seconda frase (Gli ha detto di non stare seduto in disparte), è più facile mantenere in quella posizione l’elemento già più accessibile, e quindi intepretare ancora una volta Luigi come il soggetto. Nel caso in cui l’interpretazione corretta sia un’altra, chi parla si impegnerà a rendere esplicita l’interpretazione corretta.

Il motivo per cui menziono la teoria dell’accessibilità è mostrarvi il livello di sofisticazione a cui si muove chi si occupa di studiare i meccanismi di referenza su dati empirici. Ogni giorno il vostro cervello si districa in situazioni di ambiguità comunicativa complesse e prende decisioni su come interpretare i messaggi che si trova davanti. Un caso come il (4) è la norma nel vostro uso quotidiano della lingua. Se pensate che basti mettervi davanti una schwa per farvi confondere, state sottovalutando di molto le capacità del cervello umano.

Problema 4: la schwa non riduce il sistema del genere grammaticale

L’elemento che dovrebbe farvi sospettare la natura ideologica di questa critica è il fatto che dalle stesse premesse potete arrivare alla conclusione opposta, ovvero al fatto che l’introduzione della schwa in italiano è un’innovazione utile. Se il genere grammaticale è l’unico elemento di coesione del testo, allora l’introduzione di una terza classe in cui raggruppare i nomi dovrebbe irrobustire il sistema, non indebolirlo. Facciamo il gioco di speculazione astratta sul futuro della lingua tanto amato dai giornali italiani.

Una veloce ricerca online rivela che la schwa si usa in tre casi: quando il genere di un referente non è noto (5a), quando il genere di un referente non è rilevante nella situazione (5b), quando vogliamo indicare che il referente è una persona non binaria (5c).

(5)a. Qualcunə ha avuto un malore in metro.
b. Invitiamo tuttə a prendere parte al cambiamento.
c. Roby ha messo una camicia che lə dona.

Nel caso (5a) non serve sapere il genere della persona che ha avuto un malore per capire che la metro è stata fermata. Nel caso (5b) non importa sapere la composizione del gruppo coinvolto. In questi casi, potremmo pensare che la schwa stia semplicemente codificando l’indeterminatezza di un referente. Non è inusuale per una lingua distinguere tra gradi di indeterminatezza di un referente. Il russo lo fa con due suffissi: -to (caso 5a) e -nibud’ (caso 5b); l’inglese con le forme someone (caso 5a) e anyone (caso 5b). Nel primo caso ci stiamo riferendo a una persona specifica che non possiamo o non vogliamo identificare, nel secondo a una persona che non è importante identificare (una persona qualunque che faccia parte della categoria che abbiamo menzionato). Nel caso (5c) la schwa codifica un’informazione aggiuntiva sul genere naturale del referente, ovvero indica che Roby è una persona non binaria.

L’introduzione della schwa potrebbe ristrutturare il sistema dell’italiano espandendone le possibilità di referenza in questo modo:

(6) a. Italiano
femminile = donne
maschile = uomini,
persone non binarie,
referenti indeterminati

b. Italiano inclusivo
femminile = donne
maschile = uomini
neutro = persone non binarie,
referenti indeterminati

Se il genere grammaticale è un’estensione di quello naturale, perché il sistema in (6b) non è migliore del precedente (6a), in quanto più accurato? Avere 3 generi grammaticali non renderebbe la coesione testuale più forte visto che ci sarebbero 3 classi in cui distribuire i referenti invece che 2? Ma soprattutto: perché la conseguenza dell’espansione del sistema di genere grammaticale dovrebbe essere la distruzione totale dei testi in italiano e non invece la riconfigurazione della mappatura tra genere grammaticale e naturale?

Posso dire con certezza che lo scenario in (6) succederà e sarà migliore di quello attuale? No. Ma la mia analisi ha le stesse basi empiriche di quelle contrarie che vi propinano i giornali (anzi, di più, visto che io do esempi concreti e cito della letteratura scientifica) ed è ugualmente valida come speculazione sul futuro dell’italiano.

Per chiudere…

Ci sono quattro problemi con la critica al linguaggio inclusivo basata sulla supposta difficoltà di tracciamento dei referenti:

  1. definizione impropria del fenomeno e della sua frequenza;
  2. mancata considerazione del contributo alla coesione dato da meccanismi alternativi al genere;
  3. sovrastima del ruolo del genere grammaticale nella disambiguazione dei referenti;
  4. definizione delle premesse teoriche così vaga che permette una conclusione opposta a quella proposta.

Nell’articolo che vi ho linkato all’inizio, l’intervistata (prof.ssa Cecilia Robustelli) sostiene di essere contraria alla schwa per motivi tecnici visto il “pericolo di sostituire con un simbolo il genere grammaticale”. Quale è il pericolo e quali sono i passaggi concreti con cui ci arriveremo? Una teoria scientifica sa rispondere a questa domanda, altrimenti siamo davanti a un esempio di panico morale.

Si può scrivere un testo comprensibile senza usare il genere grammaticale quando non è rilevante. Se ne volete una prova potete tornare all’inizio di questo post e ricominciare a leggerlo facendo caso alle forme che uso. Qualcunə pensi ai referenti!

Linguaggio inclusivo e panici morali

Ottobre 2nd, 2025 by Strelka

Aspettando sulla riva del fiume…

Tra il 2021 e il 2022 il giornalismo italiano, l’Accademia della Crusca, e numerose figure pubbliche legate alla produzione culturale del paese hanno fomentato un “dibattito” contro la “dittatura del politicamente corretto” e l’uso del linguaggio inclusivo sostenendo (anche contemporaneamente) due scenari contraddittori:

  1. il linguaggio inclusivo sarebbe divenuto così onnipresente da distruggere le strutture comunicative dell’italiano (chi lo sostiene non si rende conto della pericolosità della proposta);
  2. le forme inclusive sono inapplicabili al sistema morfosintattico della lingua italiana e non attecchiranno mai (chi le propone non capisce che i veri problemi sono altri).

A tre anni di distanza nessuna di queste previsioni si è rivelata corretta. La cultura italiana non è collassata, le nuove generazioni non hanno perso la capacità di articolare critiche politiche, chi non usa le forme inclusive sul posto di lavoro non ha subito conseguenze materiali. Soprattutto, il linguaggio inclusivo non è scomparso.

In un dibattito in buona fede, mi aspetterei a questo punto delle rettifiche. La ricerca scientifica d’altra parte richiede che le teorie si adeguino al dato, non viceversa. Il fiorire di pubblicazioni al vetriolo sull’argomento però chiaramente non serviva ad avanzare un dibattito, quanto a lanciare carriere da “intellettuale scomoda” e candidature politiche. E questo quindi diventa un buon momento per guardare indietro e capire le dinamiche che hanno portato una parte non indifferente del movimento italiano a lasciarsi imporre i termini del dibattito da figure che lo usano per impacchettare posizioni reazionarie.

I giornali italiani hanno proposto queste figure come portatrici di posizioni sofisticate e imparziali alle quali non era possibile opporre controargomentazioni scientifiche. Inoltre, il dibattito è sempre stato presentato come una questione “tecnica”, puramente legata alla lingua, un dibattito dove certo non si stanno criticando le rivendicazioni transfemministe (lo sentite qui il “ma” che arriva?). Invece non solo le controargomentazioni scientifiche esistono, ma la critica al linguaggio inclusivo nostrana ha seguito metodi e argomentazioni della peggiore destra reazionaria statunitense, spesso citandone gli autori di punta. Jordan Peterson, Greg Lukianoff, Jonathan Haidt, Steven Pinker, Yascha Mounk non sono partecipanti in buona fede a un dibattito contro il “wokismo”, sono figure che beneficiano economicamente dalla partecipazione a un sistema mediatico repubblicano che esiste unicamente per fabbricare controversie di stampo culturale.

Dalla riva del fiume dove ho diligentemente atteso per tre anni, ho messo assieme una serie di prove per dimostrare che la battaglia al linguaggio inclusivo altro non era che una forma di panico morale che è stato supportato da attori diversi per motivi diversi. Il governo come strumento di distrazione, la Crusca come maniera per garantirsi le simpatie del governo, i docenti di italianistica coinvolti per mantenersi rilevanti nel panorama accademico (nessuno degli autori di cui parlerò nei prossimi post si è occupato di linguistica di genere prima o dopo la pubblicazione del proprio libretto contro il linguaggio inclusivo), alcuni compagni perchè non hanno compreso l’importanza della questione e altri perchè non vedevano l’ora di poter finalmente dire ad alta voce qualcosa di misogino.

Fenomenologia di un panico morale

I panici morali presentano quattro caratteristiche sistematizzate in un modello dal giornalista statunitense Michael Hobbes. Le critiche al linguaggio inclusivo in Italia possiedono tre di questi elementi.

Elemento 1: Scollamento tra la gravità del fenomeno e le sue conseguenze osservabili.
Le conseguenze dell’uso del linguaggio inclusivo sono molte, sono varie, e sono sempre tutte gravissime. Questo articolo è un prototipo dei termini con cui i giornali italiani (legittimati dai membri della Crusca) discutevano la questione. Vista la gravità del fenomeno, ci aspetteremmo di poter osservare facilmente le terribili conseguenze paventate.

Per esempio, il linguaggio inclusivo dovrebbe causare la frattura del sistema di accordo basato sul genere grammaticale e portare all’eventuale impossibilità di comprendere l’italiano. Sono tre anni che si usano forme inclusive sui social media, dove sono le prove che chi legge un testo che le contiene non riesce a comprenderlo? Perchè gli autori dei vari libretti e articoli sul tema in tre anni non hanno dimostrato una cosa così ovvia in pubblicazioni peer reviewed? Nelle interviste sui media nazionali, perchè non vengono portati dati raccolti con osservazione empirica invece di scenari ipotetici inventati da gente che ha un incentivo economico nello stabilirsi come “esperto” della critica al linguaggio inclusivo?

Oppure, la “dittatura del politicamente corretto” doveva risolversi nell’instaurazione di un regno del terrore dove il rifiuto di usare forme inclusive sarebbe stato punito con conseguenze materiali. Andrea De Benedetti dedica un intero libro al “pericolo” del linguaggio inclusivo e riesce a citare un solo esempio del fenomeno, il caso di Jordan Peterson. Anche assumendo che Peterson sia un narratore attendibile della vicenda che lo ha portato a dimettersi dalla sua posizione (non lo è), un singolo caso di contestazione universitaria non dimostra un pattern di discriminazione sistematica. Dove sono i casi sistematici di persone che hanno subito peggioramenti di condizioni materiali per il solo motivo di non aver usato il linguaggio inclusivo? Ci sono decine di pubblicazioni contro il linguaggio inclusivo e testate giornalistiche pronte a coprire il tema con migliaia di parole, eppure gli aneddoti usati sono sempre gli stessi. Non è più semplice accettare che il fenomeno descritto non esiste?

Elemento 2: l’uso di esempi che non si riferiscono al fenomeno sotto analisi
Oltre a usare sempre gli stessi esempi, queste pubblicazioni non riportano mai esempi prototipici del fenomeno per cui larghe fasce della popolazione sono obbligate a usare il linguaggio inclusivo pena conseguenze terribili. Tutti i casi riportati sono notizie di istituzioni che diffondono linee guida promuovendo l’uso del linguaggio inclusivo.

Le linee guida di una commissione sono la forma più innocua di pianificazione linguistica. Le istituzioni le usano in continuazione per garantire coerenza stilistica nelle scelte comunicative. Che cosa dovrebbe dimostrarci il fatto che una commissione ha scelto di usare la schwa? Non esiste nessuna sanzione per obbligarne i membri a usare questa forma. Ogni università dove ho lavorato suggerisce un formato preciso per la firma da aggiungere alle e-mail inviate dall’account istituzionale. A volte i suggerimenti includevano espressioni che mettevano un lavoro di virtue signaling per università a carico della mia reputazione scientifica e non le ho adottate. Ci sono state zero conseguenze.

Il governo ha di recente proposto una legge impossibile da applicare che si proponeva di sanzionare l’uso dell’inglese da parte di cariche pubbliche. La legge aveva il chiaro obiettivo di restringere l’accesso alle istituzioni culturali del paese a persone non parlanti italiano e di silenziare il discorso pubblico attorno ad alcuni temi per cui la terminologia in italiano non è d’uso comune (e.g., il dibattito sulla gender affirming care). Se esiste in Italia una “dittatura linguistica”, questa legge è un esempio molto più appropriato del fenomeno di quanto lo siano le linee guida interne di un gruppo di lavoro.

Elemento 3: l’uso di analogie vuote e la fallacia del piano inclinato
In The coddling of the American mind Haidt e Lukianoff paragonano le proteste studentesche nei campus statunitensi al movimento delle Guardie Rosse di Mao sulla base del fatto che entrambi i movimenti coinvolgono persone giovani che hanno rivendicazioni politiche. L’utilità di un’analogia sta nella possibilità di generalizzare i passaggi che portano dal caso A al caso B, non nel presentare un’astrazione di così alto livello da essere sempre applicabile. In questo caso, chiaramente chi legge interpreta l’analogia come una critica alla violenza dei movimenti studenteschi statunitensi, ma quando ai due autori si fa notare che questa violenza è inesistente, loro possono dire che l’analogia era basata sull’età anagrafica dei membri dei due gruppi.

Nel contesto del linguaggio inclusivo, la retorica della brutta china più citata è quella della neolingua descritta da George Orwell in 1984. L’uso del linguaggio inclusivo aprirà la porta alla manipolazione del pensiero in chi la usa ed eliminerà la capacità di pensiero critico. Questa analogia per funzionare deve ignorare il dettaglio che la neolingua è imposta dall’alto da uno stato onnisciente e onnipotente e il linguaggio inclusivo è proposto dal basso da gruppi senza supporto istituzionale. Le due situazioni sono identiche solo se credete che la critica al potere di sorveglianza costante sulla popolazione non fosse un tema nel libro. Il punto di un’analogia è trovare la categoria per cui ha senso che due cose siano accomunate, se eliminiamo abbastanza dettagli, allora possiamo far derivare conseguenze arbitrarie da tutto quello che vogliamo.

Elemento 4: l’uso fuorviante di statistiche
L’unico motivo per cui il panico sul linguaggio inclusivo in Italia non presenta questa caratteristica è che il giornalismo italiano non richiede mai di fornire dettagli, dati, o dimensioni quantitative del fenomeno di cui si sta parlando. Dove si usa il linguaggio inclusivo? Chi lo usa? Quanto lo usa? Non si sa: è la più grande minaccia che l’italiano ha dovuto fronteggiare negli ultimi anni, ma non abbiamo informazioni specifiche sul fenomeno.

Che fare?

Se avete partecipato al panico morale contro il linguaggio inclusivo da posizioni anarchiche o comuniste, vi hanno truffato. L’idea che la pianificazione linguistica sia inutile o dannosa è inconciliabile con la tradizione anarchica (vedi l’esperanto fuori d’Italia) e con la letteratura marxista (vedi l’egemonia culturale di Gramsci). La conseguenza di aver lasciato che ci venissero dettati i termini del dibattito da attori in cattiva fede è stata la perdita di una parte della storia di movimento. La storia del linguaggio inclusivo in Italia non nasce nel 2020 su Instagram. Dal 2000 a oggi, con varie ondate, gruppi diversi (e non solo legati al transfemminismo) sperimentano soluzioni originali e convergono independentemente l’uno dall’altro su strategie che permettano una comunicazione inclusiva. Il fatto che la questione sia diventata di dominio comune non dovrebbe lasciare che anche la storia venga riappropriata.

In Italia l’idea che la linguistica sia una disciplina fortemente politica fatica a prendere piede, anche per la mancanza di figure che abbiano prodotto una critica sistematica del lascito ideologico del fascismo sull’italianistica (la prima cattedra di italianistica viene aperta nel 1937 a Firenze). In questo contesto, non sono state articolate posizioni scientifiche favorevoli al linguaggio inclusivo che si integrassero con il resto delle lotte. Questo significa che si sono prese per buone le posizioni di figure che rifiutano di accettare il ruolo politico della scienza. Peggio, nel fingere che si potessero accettare come “tecniche” delle critiche puramente misogine e transfobiche abbiamo lasciato passare posizioni classiste e antimeridionaliste.

Sono anni che modelli e teorie linguistiche sono tirati in ballo per dare rispettabilità scientifica a quella che è una semplice posizione ideologica. Non c’è bisogno che conosciate i meccanismi di funzionamento della lingua per supportare l’uso del linguaggio inclusivo e non c’è bisogno di perdere tempo con gente che fa il leone marino. Al tempo stesso, l’invito a “aprire Google e informarsi” non è davvero applicabile in assenza di materiali divulgativi che smontino queste critiche mantenendo una prospettiva politica. Quindi vorrei usare la mia formazione per creare un database di risposte alle critiche tecniche al linguaggio inclusivo. La speranza è che possiate usare queste pagine come scorciatoia e dirigere le vostre energie sulle altre lotte che seguite ogni giorno.

Raccontare una rivolta: lingua russa e alfabeto latino in Kazakistan

Gennaio 28th, 2022 by Strelka

Gli avvenimenti del gennaio 2022 sono stati per qualcuno la prima volta che si sentiva parlare del Kazakistan in termini diversi da Borat o dall’Unione Sovietica. Nel giro di un paio di settimane il mondo ha realizzato che l’Asia Centrale non è un’entità monolitica allineata agli interessi della Russia, ma che al contrario in ogni stato si muove un complesso panorama sociale. Questo complesso panorama sociale è il motivo per cui ancora oggi è complicato affermare con certezza quale fosse la composizione di piazza delle rivolte kazake.

Ho letto parecchie buone analisi politiche sul Kazakistan (qui una di Yurii Colombo e qui la registrazione di un dibattito sul futuro del paese con Maria Chiara Franceschelli e Paolo Sorbello), ma nessuna conteneva alcun accenno alla situazione linguistica del paese. Questo silenzio mi è sembrato abbastanza stupefacente per due motivi. Il primo è legato a una questione di origine e interpretazione delle fonti. Il secondo ha a che vedere con lo specifico ruolo che la lingua kazaka, e in particolare il suo alfabeto, gioca nello scacchiere politico dell’area.

A beneficio di chi non si occupa di linguistica centro asiatica a tempo pieno, facciamo un riassunto della composizione del paese. Secondo gli ultimi dati (censimento del 2021), in Kazakistan vivono circa 18 milioni di persone, di cui il 70% circa si considera di etnia kazaka, il 20% di etnia russa, e il rimanente 10% è composto in prevalenza da persone provenienti da altri stati dell’Asia Centrale e del Caucaso. Nel 1997 una legge ha identificato russo e kazako come lingue ufficiali del paese. Se non consideriamo la possibilità che chi risponde al censimento possa non parlare né russo né kazako, nel 2007 il 26% della popolazione parlava russo, il 16% kazako, e il 58% era bilingue. Prendete questi dati con le pinze: chi ha mai lavorato con dei censimenti sa che questi sono spesso inaffidabili. Nel caso specifico della lingua, spesso non è chiaro come venga interpretata la competenza da chi compila e da chi risponde. Pensateci in questi termini: se domani vi chiedessero di indicare su un questionario statale se parlate inglese, senza darvi ulteriori informazioni, come rispondereste? Magari avete una laurea in lingua straniere e vi è stato ripetuto per anni che se non avete un livello C2 in una certificazione ufficiale allora non parlate davvero una lingua. Magari avete genitore 1 che vi parla in inglese giamaicano e voi capite tutto ma non sapete rispondere. Tirare la linea tra cosa conti come competenza linguistica e cosa no è una questione spinosa che non può prescindere da preferenze e identità individuali. Ad aggiungere ulteriore confusione c’è il fatto che le sezioni linguistiche dei censimenti sovietici (e degli stati eredi) sono state completamente ristrutturate nel tempo, e quindi i dati storici non sono esattamente comprabili a quelli odierni.

Nel 2007 l’ex presidente Nazarbayev ha dato l’avvio a una politica di trilinguismo che punta a rendere ugualmente competente in kazako, russo e inglese ogni persona educata nel sistema scolastico del paese. A 15 anni di distanza è probabile che questa politica abbia contribuito a un cambiamento delle percentuali riportate sopra. Nel 2023 il paese smetterà di utilizzare l’alfabeto cirillico e adotterà l’alfabeto latino.

Il russo come unica fonte?

Riguardo al primo punto, voglio dare il seguente caveat: questo è un blog di linguistica e capita che io mi occupi di Asia Centrale e che parli kazako. Chi ha coperto gli sviluppi della questione in tempo reale e ci ha costruito delle analisi ha fatto un lavoro incredibile e non è assolutamente mia intenzione sminuire questo lavoro. Penso che questo sia l’unico contesto in cui affrontare il problema della lingua d’origine delle fonti abbia senso. Una volta tolto il cappello da linguista mi rimetto alle analisi geopolitiche di chi ne sa più di me. Se sembra che sto mettendo le mani avanti, beh sì.

Non era necessariamente ovvio a chiunque abbia seguito gli sviluppi e i commenti sulla questione che le notizie pervenute in occidente sono arrivate quasi unicamente tramite il russo. Anche nel caso di media o attivisti kazaki, abbiamo unicamente avuto accesso al materiale prodotto o tradotto in questa lingua. Questo approccio nasce da una rappresentazione abbastanza monolitica delle culture centro asiatiche, a mio avviso abbastanza diffusa nel giornalismo e nell’accademia, ovvero dall’idea che la competenza in russo sia sufficiente ad avere una piena esperienza delle società locali. Questo approccio è storicamente sensato: la quasi totalità della produzione politica e scientifica in Asia Centrale era ed è ancora oggi prodotta in russo.

Se vi interessa monitorare l’evoluzione delle comunicazioni presidenziali sulle manifestazioni, il russo è sufficiente. Ma chiunque lavori con la popolazione kazaka sa che, se è vero che si può tranquillamente vivere nel paese parlando solo russo, è altrettanto vero che il kazako è usato molto e che alcune fasce demografiche lo preferiscono. E a maggior ragione potrebbero preferirlo in un contesto politico di questo tipo (ma ne parleremo dopo). Usare solo notizie in russo, quindi, anche quando prodotte dalla popolazione kazaka, significa scegliere di focalizzare la propria attenzione su una certa fetta demografica a scapito di altre. Questa decisione non è necessariamente un problema, e produrre un’analisi significa innanzitutto prendere una posizione. Nel caso in questione però sembra che spesso questa posizione fosse obbligata dalla mancanza di competenza in kazako e neache oggetto di critica.

La forza di un alfabeto

La questione della lingua in cui escono le notizie dal paese è relativamente banale per chi sta in occidente. Si potrebbe dire che va bene non stiamo rappresentando propriamente tutte le sfaccettature della società locale, ma comunque meglio che niente. E poi queste restrizioni sono sempre vere per chi fa giornalismo anche in relazione a paesi dove si usano lingue più studiate del kazako. Vero, ma sulla lingua kazaka negli ultimi anni si sta giocando un’importante partita politica e gli avvenimenti di gennaio 2022 hanno rinforzato questa impressione.

L’esempio più lampante del discorso politico sulla lingua kazaka arriva da Margarita Simonyan, capo redattore di Russia Today, un canale televisivo russo in lingua inglese finanziato dal Cremlino. A seguito della richiesta da parte del governo kazako di inviare le truppe dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva nel paese, Simonyan sui social un post dove elenca una serie di richieste da fare al Kazakistan come condizione per l’appoggio militare russo.

Le condizioni indicate qui sono il riconoscimento della Crimea come legittimamente parte della Russia (1), il ritorno del cirillico (2), l’ufficializzazione del russo come lingua di stato del Kazakistan (3), e la preservazione di un particolare tipo di istituzione educativa di lingua e ordinamento russi (4). Seguono altri post e rivendicazioni che non ho riportato. Per chi non si occupa di Asia centrale, il punto 2 potrebbe sembrare irrilevante, soprattutto a fronte degli sviluppi nel paese. Tuttavia, la lingua ha storicamente avuto un ruolo fondamentale nella costruzione delle entità nazionali, e la scelta di un sistema di scrittura contribuisce alla demarcazione ideologica di chi sta dentro o fuori la nazione.

In modo simile a quello dei paesi vicini, il kazako è stato scritto in caratteri arabi fino al 1929, quando il governo sovietico ha deciso di sostituire all’alfabeto arabo un alfabeto su base latina. Sulla campagna di latinizzazione degli alfabeti tradizionali delle lingue dell’Unione Sovietica ci si dovrà occupare in un altro post, ma basti sapere che nel caso delle popolazioni islamiche dell’Asia Centrale l’obiettivo del governo è quello di rompere la relazione culturale che le lega al mondo arabo. Questo viene fatto per evitare che l’Islam venga opposto ideologicamente al comunismo, dato che un sincretismo ideologico formalizzato di queste due posizioni arriverà solo con Ali Shariati dopo il ’60. Nel 1940, per fermare le rivendicazioni panturche, i sovietici cambiano ancora una volta il sistema di scrittura dell’area passando definitivamente al cirillico. Cambiare alfabeto di fatto toglie una piattaforma comunicativa ai gruppi intellettuali del paese e li isola dal resto della popolazione.

Nel 2007 l’ex presidente Nazarbayev annuncia la decisione di cambiare nuovamente l’alfabeto per tornare al latino. Questa nuove versione dell’alfabeto non è la stessa che era in uso nel 1929. A fine 2021 è stata identificata la versione definitiva che entrerà in vigore dal 2023. Nel discorso alla nazione, Nazarbayev cita a sostegno della decisione la necessità di aprire il Kazakistan alla globalizzazione: l’utilizzo di una scrittura latina faciliterà il collegamento del Paese con l’estero e l’accesso a internet. Viene anche suggerito che utilizzare un alfabeto latino incoraggerebbe l’apprendimento del kazako come lingua seconda all’estero. Saranno inoltre facilitati gli investimenti nel paese. Tutti questi argomenti, ovviamente, sono veri solo nel caso delle lingue scritte su base latina, perchè se la vostra lingua madre fosse scritta in alfabeto cirillico non avreste problemi col kazako contemporaneo. Insomma è chiaro che quando Nazarbayev parla di estero ha in mente solo alcuni interlocutori internazionali, e la lingua diventa un riferimento a questi paesi e alla loro posizione sul palcoscenico internazionale.

Il post di Margarita Simonyan ci dimostra che in Russia una certa parte della scena politica è ben consapevole del significato di questa riforma ortografica: eliminare il cirillico significa dare un colpo alla potenza culturale russa nell’area. Attenzione però a non semplificare la questione sui binari delle politiche governative. Una parte della popolazione kazaka si identifica come culturalmente e linguisticamente russa o slava: per queste persone il passaggio al latino significa una diminuzione del loro ruolo nella costruzione culturale del proprio paese. La popolazione più anziana, che è stata educata nel sistema sovietico, teme di incontrare problemi nel processo di rialfabetizzazione. Una certa parte della popolazione kazaka, inoltre, non vede necessariamente come un vantaggio l’idea di essere in maggior contatto con l’occidente, dal momento che la Cina ha grossi legami commerciali col paese. Insomma, come spesso accade in questioni di lingue nazionali, la situazione è meno chiara di quello che la politica ci vuole far credere.