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Linguaggio inclusivo e panici morali

giovedì, Ottobre 2nd, 2025

Aspettando sulla riva del fiume…

Tra il 2021 e il 2022 il giornalismo italiano, l’Accademia della Crusca, e numerose figure pubbliche legate alla produzione culturale del paese hanno fomentato un “dibattito” contro la “dittatura del politicamente corretto” e l’uso del linguaggio inclusivo sostenendo (anche contemporaneamente) due scenari contraddittori:

  1. il linguaggio inclusivo sarebbe divenuto così onnipresente da distruggere le strutture comunicative dell’italiano (chi lo sostiene non si rende conto della pericolosità della proposta);
  2. le forme inclusive sono inapplicabili al sistema morfosintattico della lingua italiana e non attecchiranno mai (chi le propone non capisce che i veri problemi sono altri).

A tre anni di distanza nessuna di queste previsioni si è rivelata corretta. La cultura italiana non è collassata, le nuove generazioni non hanno perso la capacità di articolare critiche politiche, chi non usa le forme inclusive sul posto di lavoro non ha subito conseguenze materiali. Soprattutto, il linguaggio inclusivo non è scomparso.

In un dibattito in buona fede, mi aspetterei a questo punto delle rettifiche. La ricerca scientifica d’altra parte richiede che le teorie si adeguino al dato, non viceversa. Il fiorire di pubblicazioni al vetriolo sull’argomento però chiaramente non serviva ad avanzare un dibattito, quanto a lanciare carriere da “intellettuale scomoda” e candidature politiche. E questo quindi diventa un buon momento per guardare indietro e capire le dinamiche che hanno portato una parte non indifferente del movimento italiano a lasciarsi imporre i termini del dibattito da figure che lo usano per impacchettare posizioni reazionarie.

I giornali italiani hanno proposto queste figure come portatrici di posizioni sofisticate e imparziali alle quali non era possibile opporre controargomentazioni scientifiche. Inoltre, il dibattito è sempre stato presentato come una questione “tecnica”, puramente legata alla lingua, un dibattito dove certo non si stanno criticando le rivendicazioni transfemministe (lo sentite qui il “ma” che arriva?). Invece non solo le controargomentazioni scientifiche esistono, ma la critica al linguaggio inclusivo nostrana ha seguito metodi e argomentazioni della peggiore destra reazionaria statunitense, spesso citandone gli autori di punta. Jordan Peterson, Greg Lukianoff, Jonathan Haidt, Steven Pinker, Yascha Mounk non sono partecipanti in buona fede a un dibattito contro il “wokismo”, sono figure che beneficiano economicamente dalla partecipazione a un sistema mediatico repubblicano che esiste unicamente per fabbricare controversie di stampo culturale.

Dalla riva del fiume dove ho diligentemente atteso per tre anni, ho messo assieme una serie di prove per dimostrare che la battaglia al linguaggio inclusivo altro non era che una forma di panico morale che è stato supportato da attori diversi per motivi diversi. Il governo come strumento di distrazione, la Crusca come maniera per garantirsi le simpatie del governo, i docenti di italianistica coinvolti per mantenersi rilevanti nel panorama accademico (nessuno degli autori di cui parlerò nei prossimi post si è occupato di linguistica di genere prima o dopo la pubblicazione del proprio libretto contro il linguaggio inclusivo), alcuni compagni perchè non hanno compreso l’importanza della questione e altri perchè non vedevano l’ora di poter finalmente dire ad alta voce qualcosa di misogino.

Fenomenologia di un panico morale

I panici morali presentano quattro caratteristiche sistematizzate in un modello dal giornalista statunitense Michael Hobbes. Le critiche al linguaggio inclusivo in Italia possiedono tre di questi elementi.

Elemento 1: Scollamento tra la gravità del fenomeno e le sue conseguenze osservabili.
Le conseguenze dell’uso del linguaggio inclusivo sono molte, sono varie, e sono sempre tutte gravissime. Questo articolo è un prototipo dei termini con cui i giornali italiani (legittimati dai membri della Crusca) discutevano la questione. Vista la gravità del fenomeno, ci aspetteremmo di poter osservare facilmente le terribili conseguenze paventate.

Per esempio, il linguaggio inclusivo dovrebbe causare la frattura del sistema di accordo basato sul genere grammaticale e portare all’eventuale impossibilità di comprendere l’italiano. Sono tre anni che si usano forme inclusive sui social media, dove sono le prove che chi legge un testo che le contiene non riesce a comprenderlo? Perchè gli autori dei vari libretti e articoli sul tema in tre anni non hanno dimostrato una cosa così ovvia in pubblicazioni peer reviewed? Nelle interviste sui media nazionali, perchè non vengono portati dati raccolti con osservazione empirica invece di scenari ipotetici inventati da gente che ha un incentivo economico nello stabilirsi come “esperto” della critica al linguaggio inclusivo?

Oppure, la “dittatura del politicamente corretto” doveva risolversi nell’instaurazione di un regno del terrore dove il rifiuto di usare forme inclusive sarebbe stato punito con conseguenze materiali. Andrea De Benedetti dedica un intero libro al “pericolo” del linguaggio inclusivo e riesce a citare un solo esempio del fenomeno, il caso di Jordan Peterson. Anche assumendo che Peterson sia un narratore attendibile della vicenda che lo ha portato a dimettersi dalla sua posizione (non lo è), un singolo caso di contestazione universitaria non dimostra un pattern di discriminazione sistematica. Dove sono i casi sistematici di persone che hanno subito peggioramenti di condizioni materiali per il solo motivo di non aver usato il linguaggio inclusivo? Ci sono decine di pubblicazioni contro il linguaggio inclusivo e testate giornalistiche pronte a coprire il tema con migliaia di parole, eppure gli aneddoti usati sono sempre gli stessi. Non è più semplice accettare che il fenomeno descritto non esiste?

Elemento 2: l’uso di esempi che non si riferiscono al fenomeno sotto analisi
Oltre a usare sempre gli stessi esempi, queste pubblicazioni non riportano mai esempi prototipici del fenomeno per cui larghe fasce della popolazione sono obbligate a usare il linguaggio inclusivo pena conseguenze terribili. Tutti i casi riportati sono notizie di istituzioni che diffondono linee guida promuovendo l’uso del linguaggio inclusivo.

Le linee guida di una commissione sono la forma più innocua di pianificazione linguistica. Le istituzioni le usano in continuazione per garantire coerenza stilistica nelle scelte comunicative. Che cosa dovrebbe dimostrarci il fatto che una commissione ha scelto di usare la schwa? Non esiste nessuna sanzione per obbligarne i membri a usare questa forma. Ogni università dove ho lavorato suggerisce un formato preciso per la firma da aggiungere alle e-mail inviate dall’account istituzionale. A volte i suggerimenti includevano espressioni che mettevano un lavoro di virtue signaling per università a carico della mia reputazione scientifica e non le ho adottate. Ci sono state zero conseguenze.

Il governo ha di recente proposto una legge impossibile da applicare che si proponeva di sanzionare l’uso dell’inglese da parte di cariche pubbliche. La legge aveva il chiaro obiettivo di restringere l’accesso alle istituzioni culturali del paese a persone non parlanti italiano e di silenziare il discorso pubblico attorno ad alcuni temi per cui la terminologia in italiano non è d’uso comune (e.g., il dibattito sulla gender affirming care). Se esiste in Italia una “dittatura linguistica”, questa legge è un esempio molto più appropriato del fenomeno di quanto lo siano le linee guida interne di un gruppo di lavoro.

Elemento 3: l’uso di analogie vuote e la fallacia del piano inclinato
In The coddling of the American mind Haidt e Lukianoff paragonano le proteste studentesche nei campus statunitensi al movimento delle Guardie Rosse di Mao sulla base del fatto che entrambi i movimenti coinvolgono persone giovani che hanno rivendicazioni politiche. L’utilità di un’analogia sta nella possibilità di generalizzare i passaggi che portano dal caso A al caso B, non nel presentare un’astrazione di così alto livello da essere sempre applicabile. In questo caso, chiaramente chi legge interpreta l’analogia come una critica alla violenza dei movimenti studenteschi statunitensi, ma quando ai due autori si fa notare che questa violenza è inesistente, loro possono dire che l’analogia era basata sull’età anagrafica dei membri dei due gruppi.

Nel contesto del linguaggio inclusivo, la retorica della brutta china più citata è quella della neolingua descritta da George Orwell in 1984. L’uso del linguaggio inclusivo aprirà la porta alla manipolazione del pensiero in chi la usa ed eliminerà la capacità di pensiero critico. Questa analogia per funzionare deve ignorare il dettaglio che la neolingua è imposta dall’alto da uno stato onnisciente e onnipotente e il linguaggio inclusivo è proposto dal basso da gruppi senza supporto istituzionale. Le due situazioni sono identiche solo se credete che la critica al potere di sorveglianza costante sulla popolazione non fosse un tema nel libro. Il punto di un’analogia è trovare la categoria per cui ha senso che due cose siano accomunate, se eliminiamo abbastanza dettagli, allora possiamo far derivare conseguenze arbitrarie da tutto quello che vogliamo.

Elemento 4: l’uso fuorviante di statistiche
L’unico motivo per cui il panico sul linguaggio inclusivo in Italia non presenta questa caratteristica è che il giornalismo italiano non richiede mai di fornire dettagli, dati, o dimensioni quantitative del fenomeno di cui si sta parlando. Dove si usa il linguaggio inclusivo? Chi lo usa? Quanto lo usa? Non si sa: è la più grande minaccia che l’italiano ha dovuto fronteggiare negli ultimi anni, ma non abbiamo informazioni specifiche sul fenomeno.

Che fare?

Se avete partecipato al panico morale contro il linguaggio inclusivo da posizioni anarchiche o comuniste, vi hanno truffato. L’idea che la pianificazione linguistica sia inutile o dannosa è inconciliabile con la tradizione anarchica (vedi l’esperanto fuori d’Italia) e con la letteratura marxista (vedi l’egemonia culturale di Gramsci). La conseguenza di aver lasciato che ci venissero dettati i termini del dibattito da attori in cattiva fede è stata la perdita di una parte della storia di movimento. La storia del linguaggio inclusivo in Italia non nasce nel 2020 su Instagram. Dal 2000 a oggi, con varie ondate, gruppi diversi (e non solo legati al transfemminismo) sperimentano soluzioni originali e convergono independentemente l’uno dall’altro su strategie che permettano una comunicazione inclusiva. Il fatto che la questione sia diventata di dominio comune non dovrebbe lasciare che anche la storia venga riappropriata.

In Italia l’idea che la linguistica sia una disciplina fortemente politica fatica a prendere piede, anche per la mancanza di figure che abbiano prodotto una critica sistematica del lascito ideologico del fascismo sull’italianistica (la prima cattedra di italianistica viene aperta nel 1937 a Firenze). In questo contesto, non sono state articolate posizioni scientifiche favorevoli al linguaggio inclusivo che si integrassero con il resto delle lotte. Questo significa che si sono prese per buone le posizioni di figure che rifiutano di accettare il ruolo politico della scienza. Peggio, nel fingere che si potessero accettare come “tecniche” delle critiche puramente misogine e transfobiche abbiamo lasciato passare posizioni classiste e antimeridionaliste.

Sono anni che modelli e teorie linguistiche sono tirati in ballo per dare rispettabilità scientifica a quella che è una semplice posizione ideologica. Non c’è bisogno che conosciate i meccanismi di funzionamento della lingua per supportare l’uso del linguaggio inclusivo e non c’è bisogno di perdere tempo con gente che fa il leone marino. Al tempo stesso, l’invito a “aprire Google e informarsi” non è davvero applicabile in assenza di materiali divulgativi che smontino queste critiche mantenendo una prospettiva politica. Quindi vorrei usare la mia formazione per creare un database di risposte alle critiche tecniche al linguaggio inclusivo. La speranza è che possiate usare queste pagine come scorciatoia e dirigere le vostre energie sulle altre lotte che seguite ogni giorno.

Autarchia linguistica e guerra ai forestierismi

venerdì, Agosto 25th, 2017

 

“Oltre di questo io voglio che tu consideri, come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste coll’altre lingue; ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale converte i vocaboli ch’ella ha accattati da altri, nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano ma la disordina loro, perchè quello ch’ella reca da altri, lo tira a se in modo, che par suo”

Niccolò Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua

 

La teoria linguistica che prospera sotto il fascismo è il cosiddetto neopurismo. In controtendenza alle teorie precedenti, il neopurismo considera la lingua un fenomeno inscindibile dalla comunità che la utilizza e le riconosce un ruolo fondamentale nel normare la realtà. Allineandosi in pieno col carattere nazionalista del fascismo, questa nuova forma di purismo identifica nella lingua italiana la lingua della nazione e dichiara guerra a tutto ciò che potrebbe corromperla. Due sono i “fronti” che vengono identificati: quello interno, costituito dai dialetti e dalle lingue minoritarie parlati sul territorio, e quello esterno, ovvero i termini stranieri utilizzati nella lingua comune. Inizieremo ad analizzare questa seconda area d’azione in parte perché è il caso di studio più semplice tra i tre, in parte perché è sulla lotta ai forestierismi che si affinano le armi teoriche poi utilizzate per giustificare l’azione sulle varietà altre.

Allineandosi perfettamente all’atteggiamento protezionista in campo economico, la politica linguistica fascista prende di mira come primo obiettivo i forestierismi, ovvero i termini di origine straniera presenti nella lingua comune. All’epoca la maggior parte di tali termini era costituita da adattamenti dal francese, anche se l’inglese stava filtrando sempre più attraverso le lingue speciali (ad esempio la lingua del calcio).

A fornire una base teorica a questo processo interviene Bruno Migliorini che nel 1940 definirà il neopurismo come la “tendenza ad escludere dalla lingua quelle voci straniere e quei neologismi che siano in contrasto con la struttura della lingua, favorendo, invece, i neologismi necessari e ben foggiati”. Nell’idea di Migliorini una élite intellettuale depositaria di “buon gusto” linguistico dovrebbe assumersi l’incarico di agire sulla lingua determinando quali parole siano adatte all’italiano e quali no. Il metodo per portare a termine questo compito è un’altra invenzione di Migliorini: la glottotecnica, ovvero un procedimento che valuta le caratteristiche fonologiche e morfologiche di un termine straniero e stabilisce la sua utilità al lessico italiano. Laddove un termine si riferisca a un concetto non altrimenti espresso in italiano, si può procedere all’adattamento fonologico e morfologico e introdurlo nella lingua come neologismo. E se c’è chi, come Arrigo Castellani, difende questa metodologia esaltandone il carattere non discriminatorio in quanto basato su criteri interni alla lingua e non esterni (Castellani 1979), è pur sempre vero che gli strumenti privilegiati da Migliorini per rendere operative tali scelte rimarranno la censura linguistica e la coercizione applicate in ambito di insegnamento scolastico (Cardia 2008, pag. 50).

Il programma di bonifica linguistica dell’italiano prende avvio in sordina nel 1923 con il decreto n.352 che introduce una tassa sulle insegne straniere tra il plauso di alcuni linguisti e giornalisti, quali Tommaso Tittoni, che vedevano in questa decisione un modo per salvaguardare l’identità e il prestigio nazionale. Nel 1930 viene vietato il cinema straniero e diversi giornali cominciano una campagna in favore dell’eliminazione dei forestierismi: nel 1932 “La Tribuna” (Roma) bandisce un concorso a premi per le migliori sostituzioni di 50 parole straniere, mentre la “Gazzetta del Popolo” (Torino) nel 1933 affida a Paolo Monelli la rubrica Una parola al giorno in cui ogni giorno l’autore fornisce l’equivalenza italiana di un termine straniero di uso comune. Monelli, uno da cui perfino Migliorini prenderà le distanze definendo il suo lavoro di censura linguistica privo di obiettività (per dire), pubblicherà poi un libro dal titolo Barbaro dominio in cui raccoglie la lista di proscrizione dei termini da vietare. Il titolo è ripreso dal Principe di Machiavelli e fa riferimento in maniera polemica a un’altra opera del Machiavelli, il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in cui questi difendeva l’utilità dei forestierismi. Commentando soddisfatto il proprio lavoro, Monelli dichiarerà: “Tale campagna è stata lodata per la chiarezza fascista che l’ha animata: più bella lode non le si poteva fare” (Monelli, epigrafe a Barbaro dominio, 1933).

Nel 1934 si vieta l’uso di forestierismi nei giornali e dal 1936 in avanti, seguendo le vicende politiche italiane e complice una serrata propaganda xenofoba in seguito alla rottura delle relazioni internazionali, anche enti quali ad esempio il Touring Club Italiano vengono obbligati a sostituire il loro nome, divenuto ora Consociazione turistica italiana. Facendomi interprete del Monelli-pensiero suggerisco anche Alpinismo arlecchino incendiario e Radio temporanea mancanza di energia elettrica.

Nel 1938 il decreto n. 2172 vieta i nomi stranieri nelle insegne dei locali pubblici e l’anno dopo il decreto n. 1238 impedisce l’uso di nomi propri stranieri per i neonati di nazionalità italiana. Nel 1940 (decreto n. 2042) si proibisce l’esposizione di parole straniere in qualsiasi forma (insegne o pubblicità) e nel 1942 col decreto n. 720 l’Accademia d’Italia viene ufficialmente incaricata di stilare delle liste di sostituzioni ufficiali dei termini stranieri.

L’Accademia d’Italia (oggi Accademia dei Lincei) nomina dunque una Commissione per l’italianità della lingua, formata per metà da professori universitari e per metà di membri del direttivo del Partito Nazionale Fascista, avente il compito di valutare singoli termini e decidere se sia lecito o meno utilizzarli in italiano. Nel biennio 1941 – 1943 vengono proposte circa 1500 sostituzioni in parte pubblicate sul suo “Bollettino d’informazioni” (Klein 1986) e in parte in appendice all’ottava edizione del Dizionario moderno di Panzini (Panzini 1942). La discussione accademica su alcuni di questi termini è stata accesissima e ci ha regalato termini quali arlecchino per “cocktail”, quisibeve o taberna potoria o ber per “bar”, slancio per “swing” (il ballo) e (udite udite) ferribotto per “ferryboat”. Ma l’estro creativo non si ferma qui e va a colpire anche quei termini colpevoli di essere formati dalla giustapposizione di un sostantivo e di un aggettivo di nazionalità: è il caso per esempio dell'”insalata russa” che viene trasformata in una più patriottica insalata tricolore o della “chiave inglese” che diventa chiavemorsa (Cardia 2008, pagg. 43 – 45; Foresti 2003; Klein 1986).

Alcune importanti eccezioni sfuggono alla furia censoria fascista: secondo il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, camerata è infatti un adattamento linguistico dallo spagnolo camarada indicante una grande stanza dove soggiornavano i soldati e poi passato a indicare per metonimia il gruppo di soldati che vi alloggiavano. Non pensiate che la questione su questo termine sia banale: basta una semplice ricerca su un qualsiasi motore per entrare in un mondo inquietante, fatto di “fascisti del XXI secolo” che propongono di sostituire il termine con quirite (voi ridete ma qui si rischia di dover iniziare a usare antiquirite), e di gente che sulla traduzione del russo továrišč (товарищ “compagno”) tira in ballo delle teorie così fantasiose, che l’ipotesi che vuole il basco la lingua degli alieni al confronto è scienza.

Quasi nessuna di queste soluzioni verrà mantenuta dopo la caduta del fascismo, a parte termini quale regista e autista proposti da Migliorini, e anche la monumentale opera di un nuovo dizionario della lingua italiana a cura dell’Accademia d’Italia si interrompe alla lettera C. Ogni termine avrebbe dovuto contenere esempi d’uso tratti dalla letteratura italiana e almeno un esempio tratto da un discorso o uno scritto di Mussolini.

Secondo Nicola Cardia, la funzione della Commissione è quella di assicurasi il controllo burocratico della politica linguistica e, attraverso questa, imporsi come forza egemonizzatrice della vita culturale del paese. Il processo di normativizzazione della lingua è stato portato avanti in direzione univoca dalla classe al potere con la chiara intenzione di controllare l’accesso a questo strumento da parte delle classi socialmente più svantaggiate (Cardia 2008, pagg. 49 – 52).

A mio parere inoltre, sembra nel migliore dei casi ingenuo pensare che mostri sacri della linguistica quali Migliorini abbiano avvallato questo processo in maniera del tutto inconsapevole rispetto al contesto politico nel quale si sono trovati ad operare. Il sostegno che il fascismo ha dato a queste figure accademiche è innegabile e credo che da entrambi i lati ci fosse la consapevolezza delle ragioni per cui questa guerra agli esotismi è stata combattuta. Migliorini tornerà dalla Svizzera in Italia nel 1938, in seguito alla creazione presso l’Università di Firenze di una cattedra in Storia della lingua italiana (prima in Italia) che gli viene assegnata; e se è sicuramente innegabile che una simile disciplina ha un suo motivo di esistere separatamente dallo studio delle lingue neolatine, dovremmo essere davvero ciechi per non ammettere che l’amore spassionato per la ricerca non è il motivo per cui il  regime ha creato quella cattedra. L’opera di pianificazione fascista è stata attivamente sostenuta da grandi figure della linguistica italiana, le quali, per motivi diversi, erano genuinamente convinte della sua bontà. Non  si può studiare una politica linguistica scindendola dal contesto socio-politico in cui viene costruita e non si può di conseguenza pensare che chi ha contribuito allo sviluppo di questa pianificazione non sia conscio di tale contesto.

Per fascisti del terzo millennio e rigurgiti vari lo studio della guerra ai forestierismi e dello stile comunicativo di Mussolini riassumono più o meno l’intera politica linguistica fascista. E non per caso. Finché si tratta di fornire traduzione strampalate come ferribotto o di gonfiare il petto urlando verbi in forma infinita, non c’è molto di cui preoccuparsi. Ma il caso di studio degli esotismi è a mio parere fondamentale perché permette di spiegare in maniera efficace l’ideologia linguistica del regime. Citando Gabriella Klein: “il dibattito su questi problemi di politica linguistica ha come retroterra ideologico la vecchia questione della lingua con le sue convinzioni puristiche e nazionalistiche basate sull’equiparazione (storicamente non provata) fra lingua e nazione, fra lingua e popolo” (Klein 1986, pag. 22). L’equivalenza “una nazione = una lingua” determina conseguenze ben più gravi della lotta ai forestierismi e quando si tratterà di sradicare l’uso dei dialetti al sud Italia o di eliminare le minoranze linguistiche alpine e slave, il fascismo si muoverà in maniera molto meno goffa.

 


Riferimenti

Cardia, Nicola, “Il neopurismo e la politica linguistica del fascismo” in Ècho des ètudes romane, Vol. IX, num. I, 2008, pagg. 43 – 54.

Castellani, Arrigo, “Neopurismo e glottotecnica: l’intervento linguistico secondo Migliorini” in L’opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi, Firenze, Accademia della Crusca, 1979, pagg. 23 – 32.

Foresti, Fabio, Credere, obbedire, combattere: il regime linguistico nel Ventennio, Vol. 77, Edizioni Pendragon, 2003.

Klein, Gabriella, La politica linguistica del fascismo, Vol. 26, Bologna, Il Mulino, 1986.

Migliorini, Bruno, La lingua italiana nel Novecento. Con un saggio introduttivo di Ghino Ghinassi (a cura di Fanfani, Massimo Luca), Firenze, Casa editrice Le Lettere, 1990.

Monelli, Paolo, Barbaro dominio: processo a 500 parole esotiche, Milano, Hoepli, 1933.

Panzini, Alfredo, Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, ed. postuma a cura di A. Schiaffini & B. Migliorini con un’appendice di cinquemila voci e gli elenchi dei forestierismi banditi dall’Accademia d’Italia, Milano, Hoepli, 1942.

Raffaelli, Sergio, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945), Bologna, il Mulino, 1983.

La versione online dell’Enciclopedia dell’Italiano edita da Treccani (2011) contiene una voce dedicata al neopurismo compilata da Massimo Fanfani.