Linguaggio inclusivo e panici morali
Aspettando sulla riva del fiume…
Tra il 2021 e il 2022 il giornalismo italiano, l’Accademia della Crusca, e numerose figure pubbliche legate alla produzione culturale del paese hanno fomentato un “dibattito” contro la “dittatura del politicamente corretto” e l’uso linguaggio inclusivo sostenendo (anche contemporaneamente) due scenari contraddittori:
- il linguaggio inclusivo sarebbe divenuto così onnipresente da distruggere le strutture comunicative dell’italiano (chi lo sostiene non si rende conto della pericolosità della proposta);
- le forme inclusive sono inapplicabili al sistema morfosintattico della lingua italiana e non attecchiranno mai (chi le propone non capisce che i veri problemi sono altri).
A tre anni di distanza nessuna di queste previsioni si è rivelata corretta. La cultura italiana non è collassata, le nuove generazioni non hanno perso la capacità di articolare critiche politiche, chi non usa le forme inclusive sul posto di lavoro non ha subito conseguenze materiali. Soprattutto, il linguaggio inclusivo non è scomparso.
In un dibattito in buona fede, mi aspetterei a questo punto delle rettifiche. La ricerca scientifica d’altra parte richiede che le teorie si adeguino al dato, non viceversa. Il fiorire di pubblicazioni al vetriolo sull’argomento però chiaramente non serviva ad avanzare un dibattito, quanto a lanciare carriere da “intellettuale scomoda” e candidature politiche. E questo quindi diventa un buon momento per guardare indietro e capire le dinamiche che hanno portato una parte non indifferente del movimento italiano a lasciarsi imporre i termini del dibattito da figure che lo usano per impacchettare posizioni reazionarie.
I giornali italiani hanno proposto queste figure come portatrici di posizioni sofisticate e imparziali alle quali non era possibile opporre controargomentazioni scientifiche. Inoltre, il dibattito è sempre stato presentato come una questione “tecnica”, puramente legata alla lingua, un dibattito dove certo non si stanno criticando le rivendicazioni transfemministe (lo sentite qui il “ma” che arriva?). Invece non solo le controargomentazioni scientifiche esistono, ma la critica al linguaggio inclusivo nostrana ha seguito metodi e argomentazioni della peggiore destra reazionaria statunitense, spesso citandone gli autori di punta. Jordan Peterson, Greg Lukianoff, Jonathan Haidt, Steven Pinker, Yascha Mounk non sono partecipanti in buona fede a un dibattito contro il “wokismo”, sono figure che beneficiano economicamente dalla partecipazione a un sistema mediatico repubblicano che esiste unicamente per fabbricare controversie di stampo culturale.
Dalla riva del fiume dove ho diligentemente atteso per tre anni, ho messo assieme una serie di prove per dimostrare che la battaglia al linguaggio inclusivo altro non era che una forma di panico morale che è stato supportato da attori diversi per motivi diversi. Il governo come strumento di distrazione, la Crusca come maniera per garantirsi le simpatie del governo, i docenti di italianistica coinvolti per mantenersi rilevanti nel panorama accademico (nessuno degli autori di cui parlerò nei prossimi post si è occupato di linguistica di genere prima o dopo la pubblicazione del proprio libretto contro il linguaggio inclusivo), alcuni compagni perchè non hanno compreso l’importanza della questione e altri perchè non vedevano l’ora di poter finalmente dire ad alta voce qualcosa di misogino.
Fenomenologia di un panico morale
I panici morali presentano quattro caratteristiche sistematizzate in un modello dal giornalista statunitense Michael Hobbes. Le critiche al linguaggio inclusivo in Italia possiedono tre di questi elementi.
Elemento 1: Scollamento tra la gravità del fenomeno e le sue conseguenze osservabili.
Le conseguenze dell’uso del linguaggio inclusivo sono molte, sono varie, e sono sempre tutte gravissime. Questo articolo è un prototipo dei termini con cui i giornali italiani (legittimati dai membri della Crusca) discutevano la questione. Vista la gravità del fenomeno, ci aspetteremmo di poter osservare facilmente le terribili conseguenze paventate.
Per esempio, il linguaggio inclusivo dovrebbe causare la frattura del sistema di accordo basato sul genere grammaticale e portare all’eventuale impossibilità di comprendere l’italiano. Sono tre anni che si usano forme inclusive sui social media, dove sono le prove che chi legge un testo che le contiene non riesce a comprenderlo? Perchè gli autori dei vari libretti e articoli sul tema in tre anni non hanno dimostrato una cosa così ovvia in pubblicazioni peer reviewed? Nelle interviste sui media nazionali, perchè non vengono portati dati raccolti con osservazione empirica invece di scenari ipotetici inventati da gente che ha un incentivo economico dello stabilirsi come “esperto” della critica al linguaggio inclusivo?
Oppure, la “dittatura del politicamente corretto” doveva risolversi nell’instaurazione di un regno del terrore dove il rifiuto di usare forme inclusive sarebbe stato punito con conseguenze materiali. Andrea De Benedetti dedica un intero libro al “pericolo” del linguaggio inclusivo e riesce a citare un solo esempio del fenomeno, il caso di Jordan Peterson. Anche assumendo che Peterson sia un narratore attendibile della vicenda che lo ha portato a dimettersi dalla sua posizione (non lo è), un singolo caso di contestazione universitaria non dimostra un pattern di discriminazione sistematica. Dove sono i casi sistematici di persone che hanno subito peggioramenti di condizioni materiali per il solo motivo di non aver usato il linguaggio inclusivo? Ci sono decine di pubblicazioni contro il linguaggio inclusivo e testate giornalistiche pronte a coprire il tema con migliaia di parole, eppure gli aneddoti usati sono sempre gli stessi. Non è più semplice accettare che il fenomeno descritto non esiste?
Elemento 2: l’uso di esempi che non si riferiscono al fenomeno sotto analisi
Oltre a usare sempre gli stessi esempi, queste pubblicazioni non riportano mai esempi prototipici del fenomeno per cui larghe fasce della popolazione sono obbligate a usare il linguaggio inclusivo pena conseguenze terribili. Tutti i casi riportati sono notizie di istituzioni che diffondono linee guida promuovendo l’uso del linguaggio inclusivo.
Le linee guida di una commissione sono la forma più innocua di pianificazione linguistica. Le istituzioni le usano in continuazione per garantire coerenza stilistica nelle scelte comunicative. Che cosa dovrebbe dimostrarci il fatto che una commissione ha scelto di usare la schwa? Non esiste nessuna sanzione per obbligarne i membri a usare questa forma. Ogni università dove ho lavorato suggerisce un formato preciso per la firma da aggiungere alle e-mail inviate dall’account istituzionale. A volte i suggerimenti includevano espressioni che mettevano un lavoro di virtue signaling per università a carico della mia reputazione scientifica e non le ho adottate. Ci sono state zero conseguenze.
Il governo ha di recente proposto una legge impossibile da applicare che si proponeva di sanzionare l’uso dell’inglese da parte di cariche pubbliche. La legge aveva il chiaro obiettivo di restringere l’accesso alle istituzioni culturali del paese a persone non parlanti italiano e di silenziare il discorso pubblico attorno ad alcuni temi per cui la terminologia in italiano non è d’uso comune (e.g., il dibattito sulla gender affirming care). Se esiste in Italia una “dittatura linguistica”, questa legge è un esempio molto più appropriato del fenomeno di quanto lo siano le linee guida interne di un gruppo di lavoro.
Elemento 3: l’uso di analogie vuote e la fallacia del piano inclinato
In The coddling of the American mind Haidt e Lukianoff paragonano le proteste studentesche nei campus statunitensi al movimento delle Guardie Rosse di Mao sulla base del fatto che entrambi i movimenti coinvolgono persone giovani che hanno rivendicazioni politiche. L’utilità di un’analogia sta nella possibilità di generalizzare i passaggi che portano dal caso A al caso B, non nel presentare un’astrazione di così alto livello da essere non necessaria. In questo caso, chiaramente chi legge interpreta l’analogia come una critica alla violenza dei movimenti studenteschi statunitensi, ma quando ai due autori si fa notare che questa violenza è inesistente, loro possono dire che l’analogia era basata sull’età fisica dei gruppi.
Nel contesto del linguaggio inclusivo, la retorica della brutta china più citata è quella della neolingua descritta da George Orwell in 1984. L’uso del linguaggio inclusivo aprirà la porta alla manipolazione del pensiero in chi la usa ed eliminerà la capacità di pensiero critico. Questa analogia per funzionare deve ignorare il dettaglio che la neolingua è imposta dall’alto da uno stato onnisciente e onnipotente e il linguaggio inclusivo è proposto dal basso da gruppi senza supporto istituzionale. Le due situazioni sono identiche solo se credete che la critica al potere di sorveglianza costante sulla popolazione non fosse un tema nel libro. Il punto di un’analogia è trovare la categoria per cui ha senso che due cose siano accomunate, se eliminiamo abbastanza dettagli, allora possiamo far derivare conseguenze arbitrarie da tutto quello che vogliamo.
Elemento 4: l’uso fuorviante di statistiche
L’unico motivo per cui il panico sul linguaggio inclusivo in Italia non presenta questa caratteristica è che il giornalismo italiano non richiede mai di fornire dettagli, dati, o dimensioni quantitative del fenomeno di cui si sta parlando. Dove si usa il linguaggio inclusivo? Chi lo usa? Quanto lo usa? Non si sa: è la più grande minaccia che l’italiano ha dovuto fronteggiare negli ultimi anni, ma non abbiamo informazioni specifiche sul fenomeno.
Che fare?
Se avete partecipato al panico morale contro il linguaggio inclusivo da posizioni anarchiche o comuniste, vi hanno truffato. L’idea che la pianificazione linguistica sia inutile o dannosa è inconciliabile con la tradizione anarchica (vedi l’esperanto fuori d’Italia) e con la letteratura marxista (vedi l’egemonia culturale di Gramsci). La conseguenza di aver lasciato che ci venissero dettati i termini del dibattito da attori in cattiva fede è stata la perdita di una parte della storia di movimento. La storia del linguaggio inclusivo in Italia non nasce nel 2020 su Instagram. Dal 2000 a oggi, con varie ondate, gruppi diversi (e non solo legati al transfemminismo) sperimentano soluzioni originali e convergono independentemente l’uno dall’altro su strategie che permettano una comunicazione inclusiva. Il fatto che la questione sia diventata di dominio comune non dovrebbe lasciare che anche la storia venga riappropriata.
In Italia l’idea che la linguistica sia una disciplina fortemente politica fatica a prendere piede, anche per la mancanza di figure che abbiano prodotto una critica sistematica del lascito ideologico del fascismo sull’italianistica (la prima cattedra di italianistica viene aperta nel 1937 a Firenze). In questo contesto, non sono state articolate posizioni scientifiche favorevoli al linguaggio inclusivo che si integrassero con il resto delle lotte. Questo significa che si sono prese per buone le posizioni di figure che rifiutano di accettare il ruolo politico della scienza. Peggio, nel fingere che si potessero accettare come “tecniche” delle critiche puramente misogine e transfobiche abbiamo lasciato passare posizioni classiste e antimeridionaliste.
Sono anni che modelli e teorie linguistiche sono tirati in ballo per dare rispettabilità scientifica a quella che è una semplice posizione ideologica. Non c’è bisogno che conosciate i meccanismi di funzionamento della lingua per supportare l’uso del linguaggio inclusivo e non c’è bisogno di perdere tempo con gente che fa il leone marino. Al tempo stesso, l’invito a “aprire Google e informarsi” non è davvero applicabile in assenza di materiali divulgativi che smontino queste critiche mantenendo una prospettiva politica. Quindi vorrei usare la mia formazione per creare un database di risposte alle critiche tecniche al linguaggio inclusivo. La speranza è che possiate usare queste pagine come scorciatoia e dirigere le vostre energie sulle altre lotte che seguite ogni giorno.