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Costruisci anche tu il tuo panico morale

giovedì, Novembre 20th, 2025

Ho scritto in precedenza che il dibattito sul linguaggio inclusivo ha seguito le dinamiche di un panico morale. Il modello che utilizzo per definire i confini di un panico morale è stato teorizzato dal giornalista Michael Hobbes e prevede quattro elementi:

  1. lo scollamento tra la supposta gravità del fenomeno e le conseguenze effettivamente osservabili
  2. l’uso di esempi non pertinenti al fenomeno discusso
  3. l’uso di analogie vuote per supportare la retorica della brutta china
  4. l’utilizzo fuorviante di statistiche

Questo modello ha il vantaggio di essere basato su quattro parametri semplici da identificare. La copertura mediatica dei fenomeni legittimamente problematici non ha bisogno di utilizzare queste strategie e infatti una veloce ricerca dei termini “morti sul lavoro in Italia” vi conferma uno stile comunicativo molto diverso. Sulla questione del linguaggio inclusivo invece stiamo ancora aspettando di sapere: 1) quali rischi concreti introduce per la lingua italiana o per chi la parla; 2) quali prove abbiamo di questi rischi; 3) la dimensione quantitativa del fenomeno. Con una risposta a queste tre domande si può discutere dell’utilità di una data soluzione, senza questo contesto siamo di fronte a pura speculazione.

Step 1: i contenuti del panico morale

Nell’ottica di abituarvi a pensare a questo modello teorico quando incontrerete altre pubblicazioni sul tema del linguaggio inclusivo, vorrei dare un esempio pratico di come uso questo strumento. Come caso di studio prendiamo il pamphlet di Andrea De Benedetti Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo. L’ho scelto perchè nel campo delle pubblicazioni “anti-schwa” è generalmente considerato un saggio con argomentazioni solide (se volete farvi un’idea della competizione leggetevi le recensioni al lavoro di Massimo Arcangeli scritte da gente che ne condivide la posizione). Nel procedere al resto del post ricordatevi quindi che questa pubblicazione è considerata una delle più solide sul tema.

Quali sono le conseguenze del fenomeno discusso? Quanto gravi sono?

Il libro si apre con queste parole: “Il cammino verso il linguaggio inclusivo è lastricato di buone intenzioni. Ma non di rado conduce anch’esso all’inferno.” (pg.3). L’inferno consiste in questi UNICI casi:

  • Beatrice Venezi (2021) e Irene Pivetti (1994) sono state criticate per la propria scelta di utilizzare delle forme maschili parlando di sè (pg. 23). Nessuna delle due perde il lavoro per questa scelta. Pivetti al tempo era parlamentare e continuerà ad esserlo anche dopo le critiche.
  • La gente che usa la schwa considera male chi non la usa (pgg. 66-72). Tutti gli esempi forniti in queste pagine sono speculazioni di come l’autore si immagina possibili interazioni sociali tra chi usa la schwa e chi non la usa.

Al 2022, le conseguenze infernali del linguaggio inclusivo sono: 1) la posizione politica di alcune figure pubbliche viene criticata in pubblico, e 2) la gente usa le vostre scelte linguistiche per farsi un’idea di voi. Sono conseguenze che impattano l’uso della lingua italiana da parte della popolazione? No. Infatti sono conseguenze quasi inevitabili di vari fenomeni linguistici (vedi il rapporto tra Giorgia Meloni e l’accento romano).

Per contrasto, prendiamo dal 2021 (anno di scrittura del libro) un esempio di fenomeno che ha impattato i diritti linguistici di una parte di popolazione. Nel 2009 l’Italia ratifica la convenzione delle Nazioni Unite che garantisce il diritto delle persone sorde ad accedere ai servizi di interpretariato negli eventi pubblici. Per oltre dieci anni, la convenzione non viene implementata e solo nel 2021 viene garantito il diritto all’interpretariato in lingua Italiana dei segni (lis). Fino al 2021, i percorsi formativi per interpreti di lis non erano standardizzati e l’accesso all’interpretazione doveva di fatto essere richiesto per ogni singola occasione. Questo è un fenomeno linguistico che impatta materialmente la vita delle persone.

Quanti esempi non pertinenti al fenomeno appaiono nel libro?

Vari. Ma ce ne sono due in particolare che rendono legittimo dubitare della buona fede o della competenza in materia dell’autore.

Il primo caso dovrebbe essere un esempio del fatto che chi supporta il linguaggio inclusivo spesso non è fedele alle proprie convinzioni. Dimostrare che la gente non sa usare il linguaggio inclusivo non equivale a dimostrare che il linguaggio inclusivo sia inutile o dannoso. Ma anche accettando l’esempio come pertinente, il caso presentato non si svolge nei termini in cui viene ricostruito dall’autore e riguarda una situazione in cui la schwa non andava usata. In una sezione sull’uso della schwa come marca non binaria (pgg. 43-44), De Benedetti critica le scelte linguistiche di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri nel parlare delle sorelle Wachowski in una puntata di Morgana. Nel podcast, le Wachowski sono riferite al femminile, eccetto in porzioni di storia dove si fa riferimento al loro passato, per cui si usano i deadname e i pronomi maschili. Murgia e Tagliaferri vengono criticate per la scelta di aver usato il maschile nel parlare del passato delle registe. La scelta di usare i pronomi “assegnati alla nascita” per parlare del periodo precedente alla transizione pubblica di una persona è una pratica criticata dalle persone trans e ormai generalmente sconsigliata ai media.

De Benedetti interpreta la critica ricevuta da Murgia e Tagliaferri come una critica al mancato uso della schwa e le accusa di non aver seguito a fondo le proprie convinzioni nel “sottolineare l’identità fluida” delle sorelle Wachowski. La critica originale non propone l’uso della schwa. Infatti, quando Murgia risponde a mezzo Instagram che il testo della puntata era originariamento scritto con la schwa, che è poi stata eliminata per difficoltà di pronuncia, viene nuovamente criticata per non aver capito il punto della questione. Le sorelle Wachowski non sono persone non binarie, sono donne trans. Le forme di riferimento da utilizzare sono femminili. L’autore del libro sembra non aver capito quali sono i casi d’uso della schwa.

Il secondo caso invece potrebbe essere l’esempio più forte a sostegno dell’argomentazione del libro, se non fosse che invece è solo indicativo di come l’intero impianto di critica alle varie forme di politicamente corretto si regga sul nulla. In una sezione sul “dirigismo” di chi supporta la schwa (pgg. 65-66), l’autore cita in una nota il caso di Jordan Peterson. Dalla descrizione fornita, questo sembrerebbe essere l’UNICO caso dell’intero libro in cui una persona che non ha rispettato il linguaggio inclusivo ha subito conseguenze materiali. Peterson ci viene presentato come un professore contro cui è stata avviata un’azione disciplinare per aver dichiarato che non avrebbe usato pronomi neutri in classe. Perchè mettere l’esempio più forte a supporto dell’argomentazione del libro in una nota?

Beh perchè la vicenda originale non si è svolta così. Potrei fermarmi qui dicendo che la fonte citata era il Foglio. Nel 2016 Peterson diventa una figura di riferimento della destra nordamericana per le sue critiche alla legge Bill C-16, che espande la lista di aggravanti per i crimini d’odio a includere “identità ed espressione di genere”. Durante il 2017 Peterson viene contestato in università e ne nasce una controversia che finisce sui giornali nordamericani alimentata dalla destra reazionaria. L’Università di Toronto risponde in pubblico difendendo il diritto di Peterson a esprimersi come vuole. In privato gli chiede di riconsiderare le modalità di comunicazione pubblica perchè persone trans e non binarie in campus hanno iniziato a ricevere minacce di morte da gruppi che lo citano come ispirazione. Peterson rifiuta, gira la lettera ai giornali, e continua a insegnare fino al 2021, quando si dimette in polemica con le iniziative di diversity, equity, and inclusivity varate dall’università. Per quanto possa risultare fastidiosa, una comunicazione privata dove si chiede a un professore di considerare il proprio ruolo indiretto nell’escalation della violenza contro una parte del corpo studentesco non è un’azione disciplinare.

L’inclusione di questi esempi sembra suggerire che l’autore: 1) non abbia gli strumenti teorici per comprendere il discorso attorno alla forma linguistica che sta criticando; 2) non abbia reputato necessario verificare l’attendibilità delle informazioni che riporta. In ogni caso suggerisce anche che la casa editrice non sembra avere problemi con nessuna delle due pratiche al momento di approvare la pubblicazione del libro.

Quali analogie vengono usate per descrivere il fenomeno? Sono commisurate al fenomeno?

A venti pagine dalla fine (pgg.67-68), De Benedetti finalmente decide di dimostrare che il dibattito sul linguaggio inclusivo è effettivamente il fenomeno culturale più importante del paese. Le prove sono due: il libro che sta scrivendo (tautologico) e il fatto che all’Università di Torino nell’anno 2020-21 ci sono state 36 tesi dedicate a lingua e questioni di genere (il totale non è dato). L’autore evidentemente si accorge a questo punto che i dati non sono indicativi di un problema e chiude la sezione con la frase “L’Inquisizione, diciamo, era un’altra cosa” (pg. 67). Il che mi porta a porre la domanda che avrei voluto venisse fatta almeno una volta all’autore: perchè questo libro non è stato dedicato a un problema reale?

Le statistiche riportate sono corrette?

La maggior parte dei dati quantitativi presentati in questo libro non è neanche sbagliata. Ci credo che 36 tesi dell’Università di Torino nel 2020-21 siano state dedicate al linguaggio inclusivo (pg. 67). Non credo che questo dato fornito in termini assoluti voglia dire qualcosa, nè che le tesi (e i trend di ricerca in generale) siano un buon indice dell’importanza di un fenomeno nella società. Ci credo che in Italia il 52% delle persone con un dottorato siano donne (pg. 28). Non credo che questo fatto dimostri che la presenza del maschile non marcato nei bandi di concorso non abbia un effetto sulle dinamiche di assunzione delle ricercatrici. Non credo neanche che dimostri il contrario, ovvero che l’effetto esiste, nè che se esiste sia un effetto significativo. Il dato presentato così non dimostra niente.

Il libro fatica parecchio sulla contestualizzazione della ricerca linguistica. Per esempio, viene citato uno studio della ricercatrice Chiara Cettolin (penso ci si riferisca al grafico di pg. 56) dove l’autrice studia l’effetto del genere grammaticale sulla rappresentazione mentale di alcune categorie. L’esperimento chiede di elencare tre nomi di persone famose appartenenti a una categoria. A un gruppo si presentano le categorie con la forma maschile neutra (es. “presentatori TV”), a un altro con la forma doppia (es. “presentatori e presentatrici TV”). I risultati mostrerebbero che il numero di donne menzionate aumenta nel caso in cui si usi la doppia forma. Secondo De Benedetti, “com’è naturale, la percentuale di donne menzionata è risultata superiore” nel secondo caso (pg. 30). Questo risultato viene interpretato come un supporto alla posizione dell’autore, ma il risultato è naturale solo se crediamo che le forme grammaticali abbiano un effetto sulla maniera in cui viene categorizzato e percepito il mondo, ovvero se ha ragione chi supporta il linguaggio inclusivo. Se crediamo che non ci siano effetti del genere grammaticale sulla rappresentazione delle donne, ci aspetteremmo che non ci sia differenza nei risultati.

Dopo aver interpretato i risultati come “naturali”, De Benedetti aggiunge che comunque non spiegano come mai, anche nel caso della doppia forma, siano menzionati più uomini che donne (pg. 31). E qui è bene ricordare che non ci sono persone reali che credono che la discriminazione di genere si esprima unicamente nel linguaggio. Cettolin non sta cercando di dimostrare che il genere grammaticale è l’UNICO fattore di discriminazione, sta cercando di capire se si possa isolare un contributo specifico del genere grammaticale alla discriminazione di genere. Mettiamo due fattori A e B che in natura spiegano rispettivamente il 90% e il 10% di un fenomeno. Questa è ora la distribuzione normale contro cui valuto l’effetto che sto studiando. Se nella condizione sperimentale registro che adesso A spiega il 70% del fenomeno e B il 30%, probabilmente l’effetto già esiste. Non ho bisogno di arrivare a percentuali completamente invertite per iniziare a pensare che un effetto ci sia. La discriminazione di genere che agisce sul mondo è chiaramente la maggior responsabile dell’esistenza di “più uomini presentatori” e questo è il motivo per cui ANCHE quando c’è la doppia forma vengono nominati più uomini. Ma tra le due condizioni il numero di “donne presentatrici” che esistono nel mondo non cambia, quindi se per essere nominate le donne devono essere esplicitamente riferite con il femminile, significa che il motivo per cui non vengono menzionate non è SOLO la quantità ridotta.

Step 2: elementi di stile

In aggiunta ai contenuti, ci sono tre elementi attinenti alla retorica e al modo in cui le informazioni vengono presentate che aiutano a collocare l’opera come un esempio di panico morale.

Il primo elemento è la costruzione di argomenti fantoccio a sostegno della propria posizione. De Benedetti sostiene che “i significati sono più importanti dei significanti”, ovvero che la discriminazione è fatta di pratiche materiali che hanno conseguenze più tangibili di quelle create dalle forme linguistiche. Io non ho MAI sentito gente sostenere il contrario. Ho sentito gente dire che il linguaggio inclusivo è UNA delle proprie pratiche di lotta. D’altra parte verrebbe da chiedere all’autore chi pensa sia in piazza a combattere la “battaglia sui significati” se non la stessa gente che combatte quella sui significanti. Gli unici gruppi che supportano il linguaggio inclusivo a scapito del miglioramento di condizioni materiali sono istituzioni e aziende multinazionali. Al che riformulo la domanda di prima: se il vero problema sono le forme sistemiche di discriminazione, perchè questo libro non è dedicato al fatto che istituzioni e aziende usano la retorica attorno al linguaggio inclusivo come strumento per depotenziare le lotte anticapitaliste?

Il secondo elemento è il continuo scarto argomentativo che permette all’autore di non dover mai giustificare la propria posizione in maniera dettagliata. De Benedetti apre il libro dicendo che il linguaggio inclusivo è pericoloso e lo chiude dicendo che il fenomeno può essere ignorato tanto non attecchirà mai. Lo scarto di posizione inizia nel capitolo 3 e si conclude di fatto a pagina 67 con l’ammissione esplicita che l’autore sta partecipando alla costruzione di un panico morale. L’effetto che cerca è quello di sostenere che da accademico pensa che la schwa sia inutile, ma da autore deve scrivere il libro per via delle intense polemiche sulla questione. Ma le polemiche sono state interamente fabbricate da libri come questo. Prova ne è che la sua ricostruzione della storia della schwa (pg. 20) inizia nel 2019 con la pubblicazione di un lavoro della sociolinguista Vera Gheno. Le sperimentazioni sul tema erano iniziate nel 2000 e l’unico motivo per cui la polemica in 20 anni non era mai sorta è che oggi esiste un intero apparato di figure legate alla produzione culturale che guadagnano dalla creazione di panici morali contro il politicamente corretto.

L’ultimo elemento è la decontestualizzazione di concetti scientifici presi dalla teoria linguistica che sono presentati per legittimare l’autore come un’autorità in materia. Mi limito a un esempio. A pagina 45 si dice che la schwa non può attecchire in italiano perchè lede il principio di economia delle lingue, secondo cui le lingue tendono sempre verso la semplificazione delle forme. Magari dedicherò un post specifico a questo concetto, ma per ora mi basta notare che avere due forme grammaticali invece di tre non vuol dire avere un sistema più semplice. In parte perchè la definizione di complessità di una lingua cambia a seconda del livello del sistema che state osservando. Una semplificazione nella morfologia, potrebbe aumentare la complessità nella sintassi. Il “Problema 4” di questo post è un esempio di questa relatività. Avere due forme grammaticali (maschile e femminile) è “meno complesso” per la morfologia italiana, ma avere una terza forma neutra potrebbe rendere “meno complesso” il tracciamento dei referenti. Il punto è che chi legge il libro non sa che il principio di economia è solo UNO dei principi per cui si può spiegare il cambiamento linguistico. Esistono principi che vanno in direzione opposta e quindi dire che la schwa viola questo principio non equivale a dimostrare che la sua integrazione nel sistema sia impossibile, solo che esiste un fattore contro a questa possibilità. Senza il contesto teorico è difficile che chi legge sia in grado di valutare la solidità di questo argomento.

In conclusione

Questo post voleva essere un esempio di come leggere criticamente un testo per capire se è legittimo o solo materiale di supporto a un panico morale. I passaggi nello Step 1 sono alla portata di chiunque, alcune delle questioni che ho manzionato nello Step 2 invece richiedono che conosciate la materia e sono più difficili da scovare.

L’introduzione del libro contiene quella che essenzialmente è la descrizione di come funziona la fabbricazione di ammunizione culturale per i panici morali. Dalla prima idea alla pubblicazione del libro passa poco più di un anno. Non mi risulta che l’autore si fosse mai occupato di linguaggio e genere prima di mettersi a scrivere, il che significa che la fase di ricerca per il libro è durata pochi mesi. Per me queste sono altre red flag.

Vorrei che questo post avesse una funzione di creazione di record. L’ossessione sul linguaggio inclusivo del biennio 2021-22 non ha solamente colpito i gruppi transfemministi e alimentato la retorica di gerarchia delle lotte. Ha anche distolto energie dalla copertura di storie di accessibilità, inclusione, e linguaggio che hanno conseguenze pesanti sulla vita delle persone (come quella del linguaggio italiano dei segni menzionata in questo post). In quest’ottica, è importante ricordarsi di chi ha partecipato attivamente alla creazione di questo panico morale.

Tesoro, mi si sono confusi i referenti!

sabato, Ottobre 25th, 2025

Una critica al linguaggio inclusivo all’apparenza sofisticata riguarda la supposta difficoltà di comprensione di un testo causata dalla rottura dell’accordo grammaticale nel testo. Questa argomentazione è composta di due parti:

  1. l’uso di forme inclusive rompe la relazione tra una parola e il suo referente (le persona cui si riferisce)
  2. la rottura di questa relazione rende impossibile la comprensione del testo

Perchè la critica abbia senso, entrambe le parti devono essere vere contemporaneamente. La ricerca linguistica ci suggerisce che nessuna di queste parti è inequivocabilmente vera. Per comodità di trattazione (e per la frequenza delle critiche) concentriamoci sul caso della schwa.

Quando comunichiamo, abbiamo bisogno di seguire nel tempo (tracciare) gli elementi coinvolti nella conversazione (referenti). Questo processo linguistico e cognitivo si chiama ‘tracciamento dei referenti’ ed avviene con entità di vario tipo, ma è più facile capirlo nel caso delle persone (che sono comunque il caso d’uso principale della schwa). Prendete questa frase:

(1)  Chiara ha visto Mario. 
Gli ha detto di non stare seduto in disparte.

Questa frase ha due referenti: Chiara e Mario. La desinenza grammaticale del verbo stare seduto suggerisce che il referente della forma è Mario (terza persona, singolare, maschile). Chi ascolta quindi capisce tre cose: Mario stava compiendo l’azione di ‘stare seduto’, Chiara è la produttrice di un messaggio, Mario è il destinatario del messaggio. Questo è quello che si intende quando diciamo che l’accordo grammaticale di genere permette di riconoscere i referenti in un testo.

Fino a qui, niente da obiettare. Il genere grammaticale emerge nelle lingue del mondo per vari motivi, UNO dei quali è il tracciamento dei referenti. Credere in questo fatto non significa però accettarne la conseguenza estrema, ovvero che “se si eliminano le desinenze scompaiono tutti i collegamenti morfologici, e il testo diventa un mucchietto di parole delle quali non si capisce più la relazione”. Non solo, ma se quest’ultima affermazione fosse vera dovrebbe applicarsi anche nei casi in cui parliamo di due referenti con lo stesso genere. In altre parole: questa affermazione è vera solo in una formulazione così astratta da identificare come problematiche anche le costruzioni in italiano standard che si vogliono andare a salvaguardare.

Problema 1: la funzione linguistica dipende dal contesto d’uso

Se scriveste un testo senza NESSUN collegamento morfologico, allora (forse) non si capirebbe niente. Ma: 1) la schwa non sostituisce TUTTI i collegamenti morfologici di un testo; 2) i collegamenti morfologici di un testo NON contribuiscono sempre nello stesso modo al tracciamento dei referenti. Prendete queste frasi:

(2)  a. Sono andatə al mare.
b. Sei sicurə di quello che dici?
c. Ludo ha sentito Max. È arrivatə ieri.
d. Max si sente sicurə di quello che dice.

Nei casi (a) e (b) non c’è ambiguità di referente. Le prime e seconde persone in conversazione sono presenti al momento dell’interazione e quindi si possono sempre ricavare dal contesto. In questi due esempi, il genere grammaticale non aiuta a tracciare il referente più di quanto lo faccia la persona del verbo (sono e sei). E infatti la frase (a) potrebbe essere detta con una forma che manca di genere grammaticale (andai al mare) e non risultare ambigua. Il caso (d) è solo una versione complicata dei casi (a) e (b): il tracciamento del referente è garantito dal riflessivo (si sente), il genere grammaticale è ridondante. L’unico caso in cui il genere grammaticale da solo supporta il tracciamento del referente è (c), dove il verbo nella seconda frase potrebbe riferisi a Max o a Ludo. Se assumiamo che Max sia un uomo e Ludo una donna, allora questo è l’unico caso in cui il genere grammaticale aiuta il tracciamento dei referenti.

Quando valutiamo una costruzione grammaticale, dobbiamo analizzarla nel suo contesto d’uso specifico. Questo significa che dobbiamo considerare per prima cosa la sua frequenza d’uso, poi mappare gli elementi che appaiono nel contesto, poi considerare le forme alternative a quella in analisi e la loro frequenza, e infine isolare i casi della funzione che ci interessa. Nelle frasi in (2), il genere grammaticale è necessario al tracciamento dei referenti solo nel caso (c), mentre nei casi (a-b-d) fornisce informazioni aggiuntive sul referente, ma non serve a identificarlo. Le due funzioni non sono equivalenti e non ha senso studiarle assieme. Se un testo contiene 50 usi della schwa, 45 nei casi (a-b-d) e 5 in (c), la potenziale ambiguità di referenza esiste solo in 5 casi, non in 50.

Quando leggete una schwa in un testo, lo fate conoscendo i contesti d’uso nell’esempio (2). Questi contesti non vengono azzerati solo perché vedete un segno inusuale. E infatti potrei mettere un segno qualsiasi al posto della desinenza grammaticale nei casi (2a-b-d) e capireste perfettamente il senso della frase. Se usassi una delle lettere che sulla tastiera è vicina a quelle usate per le desinenze grammaticali pensereste semplicemente che ho sbagliato a digitare (sono andats al mare), ma non avreste nessun problema a capire di chi sto parlando.

Per ricapitolare: la funzione di tracciamento dei referenti non è l’unica funzione della schwa. Per capire se la schwa rende difficile il tracciamento dei referenti in italiano bisogna prima chiarire la frequenza di questa costruzione e poi analizzare solo i casi che stanno nei parametri di interesse. Finora non ci sono studi basati su osservazione empirica che hanno prodotto questa analisi per l’italiano. Tutti i contributi sul tema sono basati sull’intuizione di chi scrive.

Problema 2: il tracciamento dei referenti non dipende solo dal genere grammaticale

Il ‘genere grammaticale’ è un sistema di classificazione dei nomi. I nomi possono essere classificati secondo caratteristiche diverse: la forma, la lunghezza, i suoni che lo compongono, la destinazione d’uso dell’oggetto descritto, etc.. Il termine ‘genere’ è un lascito storico della tradizione linguistica, ma non è davvero utile a rappresentare il tipo di informazioni che codifica in lingue diverse da quelle indo-europee. La maggior parte delle lingue del mondo non possiede il genere grammaticale. Alcune lingue hanno sviluppato sistemi con 5 o più livelli. L’esistenza di questa varietà linguistica ci suggerisce che il vantaggio del genere grammaticale non può trovarsi in un supposto collegamento tra grammatica e biologia. In questo caso, il criterio della divisione in gruppi è meno importante del fatto che i nomi di una lingua si possano dividere in gruppi. Se la vostra lingua ha 5 generi grammaticali, potete dividere i nomi in 5 gruppi. Nel tracciamento dei referenti questa distinzione in gruppi ha un vantaggio.

In conversazione, la comprensione linguistica non è perfettamente lineare: non aspettiamo che l’altra persona abbia finito di parlare per capire cosa sta dicendo. Chi ascolta prova a prevedere cosa arriva nella frase e aggiusta le previsioni sulla base di tantissimi fattori. Uno di questi fattori è il genere grammaticale. Il vantaggio del genere grammaticale è quello di restringere le probabilità che avete davanti. Immaginate di avere un bicchiere e una forchetta su un tavolo e che io vi dica le seguenti frasi:

(3)    a. Mi passi ...
b. Mi passi la ...

Nel caso (3a) è ugualmente probabile che io voglia il bicchiere o la forchetta. Nel caso (3b) potete restringere il campo delle possibilità e usare l’accordo grammaticale dell’articolo per prevedere che il termine successivo sia forchetta. In termini tecnici: l’accordo grammaticale dell’articolo in (3b) velocizza la disambiguazione del referente forchetta.

Anche ammettendo che il genere grammaticale renda più veloce il tracciamento di un referente, questo non vuol dire che sia l’UNICO elemento che lo rende possibile. Potrebbe anche essere vero che il tracciamento dei referenti è rallentato, ma che questo rallentamento sia talmente piccolo da non avere conseguenze o che altri meccanismi intervengano a sopperire a questo rallentamento. Senza un’analisi basata su dati empirici, non abbiamo modo di prevedere cosa succederà nella comunicazione quotidiana. Anzi la riprova che la copertura mediatica del linguaggio inclusivo non sia fatta in buona fede sta nel fatto che esistono dati empirici che contraddicono questa interpretazione e non ne viene mai chiesto conto a chi prende parola sul tema linguaggio inclusivo.

Se l’assenza di genere grammaticale rende il testo “un mucchietto di parole di cui non si capisce la relazione”, bisogna essere in grado di spiegare:

  1. come funzionano le lingue del mondo che non hanno il genere grammaticale?
  2. come funziona l’italiano nei casi in cui più referenti usano lo stesso genere grammaticale?

Una posizione “anti-schwa” in buona fede dovrebbe aver considerato questi due casi e prevedere almeno una risposta. Il primo in quanto suggerisce l’esistenza di meccanismi di tracciamento alternativi al genere grammaticale che siano almeno altrettanto forti. Il secondo perchè è un caso d’uso frequente in italiano che contraddice la teoria. E infatti, il secondo caso ci suggerisce che il genere grammaticale da solo non è necessario a garantire la corretta comprensione di una frase.

Quando sopra vi ho proposto l’esempio (1), vi sarà probabilmente venuto in mente che nella vita quotidiana spesso parliamo di persone che usano lo stesso genere grammaticale. Quindi incontrare una frase come questa è abbastanza frequente:

(4)  Luigi ha visto Mario. 
Gli ha detto di non stare seduto in disparte.

Se l’utilità del genere grammaticale sta nella possibilità di differenziare i nomi in classi e raggrupparli con gli elementi che li riferiscono, allora il caso in cui la differenza non viene sfruttata è equivalente al caso in cui la differenza non esiste. In altre parole: il caso in (4) è funzionalmente identico al caso della schwa. Eppure, se vi chiedessi di dirmi “chi non deve stare seduto in disparte?”, probabilmente rispondereste Mario. Questo succede perchè in una comunicazione la coesione è garantita da segnali ridondanti che vengono combinati esattamente al fine di diminuire i problemi di comprensione. In questo caso, avete applicato il principio di continuità del tema e correttamente assunto che il soggetto delle due frasi fosse lo stesso, il genere grammaticale non ha contribuito nulla nè impedito questa analisi.

Questo esempio è stato costruito apposta per confondervi e comunque non pone grossi problemi di comprensione. Ora immaginatevi che nella produzione linguistica di ogni giorno chi scrive vuole farsi capire e si impegna a ridurre l’ambiguità e chi legge ha accesso a una vasta quantità di contesto su cui basare la propria interpretazione. Quanti casi REALI esistono in cui la schwa è l’unica traccia di un referente e l’intero processo comunicativo si rompe? E in questi casi, perchè i meccanismi di riparazione degli errori (e.g. la ripetizione) che usiamo tutti i giorni non dovrebbero funzionare?

Per ricapitolare: una teoria linguistica in buona fede deve saper spiegare l’esistenza di casi che la contraddicono. Nel caso della schwa, bisogna spiegare perchè quando viene usata non dovrebbero più entrare in vigore i meccanismi di inferenza e riparazione degli errori che esistono in altri casi di ambiguità presenti in italiano.

Problema 3: il vantaggio di velocità del genere grammaticale non è stato dimostrato

Il fatto che molte lingue del mondo abbiano sviluppato il genere grammaticale ci suggerisce che sia utile, ma il fatto che un elemento sia utile non significa che sia importante e neanche che sia necessario. Nel caso del tracciamento dei referenti, i lavori di Jennifer Arnold suggeriscono che il vantaggio contribuito dal genere grammaticale alla velocità di disambiguazione del referente vada ridimensionato. Nello specifico, il livello di accessibilità di un referente (un indice che codifica la facilità con cui si può risalire a un’informazione nota) sembra essere utilizzato in combinazione con il genere grammaticale per tracciare i referenti.

Per esempio: il principio di continuità del tema menzionato in (4) può essere spiegato in termini di accessibilità. In assenza di altri fattori, i soggetti di frasi transitive tendono a essere più accessibili degli oggetti. Quindi al termine della prima frase, per chi ascolta, il soggetto (Luigi) è più accessibile dell’oggetto (Mario). Quando bisogna assegnare un soggetto alla seconda frase (Gli ha detto di non stare seduto in disparte), è più facile mantenere in quella posizione l’elemento già più accessibile, e quindi intepretare ancora una volta Luigi come il soggetto. Nel caso in cui l’interpretazione corretta sia un’altra, chi parla si impegnerà a rendere esplicita l’interpretazione corretta.

Il motivo per cui menziono la teoria dell’accessibilità è mostrarvi il livello di sofisticazione a cui si muove chi si occupa di studiare i meccanismi di referenza su dati empirici. Ogni giorno il vostro cervello si districa in situazioni di ambiguità comunicativa complesse e prende decisioni su come interpretare i messaggi che si trova davanti. Un caso come il (4) è la norma nel vostro uso quotidiano della lingua. Se pensate che basti mettervi davanti una schwa per farvi confondere, state sottovalutando di molto le capacità del cervello umano.

Problema 4: la schwa non riduce il sistema del genere grammaticale

L’elemento che dovrebbe farvi sospettare la natura ideologica di questa critica è il fatto che dalle stesse premesse potete arrivare alla conclusione opposta, ovvero al fatto che l’introduzione della schwa in italiano è un’innovazione utile. Se il genere grammaticale è l’unico elemento di coesione del testo, allora l’introduzione di una terza classe in cui raggruppare i nomi dovrebbe irrobustire il sistema, non indebolirlo. Facciamo il gioco di speculazione astratta sul futuro della lingua tanto amato dai giornali italiani.

Una veloce ricerca online rivela che la schwa si usa in tre casi: quando il genere di un referente non è noto (5a), quando il genere di un referente non è rilevante nella situazione (5b), quando vogliamo indicare che il referente è una persona non binaria (5c).

(5)a. Qualcunə ha avuto un malore in metro.
b. Invitiamo tuttə a prendere parte al cambiamento.
c. Roby ha messo una camicia che lə dona.

Nel caso (5a) non serve sapere il genere della persona che ha avuto un malore per capire che la metro è stata fermata. Nel caso (5b) non importa sapere la composizione del gruppo coinvolto. In questi casi, potremmo pensare che la schwa stia semplicemente codificando l’indeterminatezza di un referente. Non è inusuale per una lingua distinguere tra gradi di indeterminatezza di un referente. Il russo lo fa con due suffissi: -to (caso 5a) e -nibud’ (caso 5b); l’inglese con le forme someone (caso 5a) e anyone (caso 5b). Nel primo caso ci stiamo riferendo a una persona specifica che non possiamo o non vogliamo identificare, nel secondo a una persona che non è importante identificare (una persona qualunque che faccia parte della categoria che abbiamo menzionato). Nel caso (5c) la schwa codifica un’informazione aggiuntiva sul genere naturale del referente, ovvero indica che Roby è una persona non binaria.

L’introduzione della schwa potrebbe ristrutturare il sistema dell’italiano espandendone le possibilità di referenza in questo modo:

(6) a. Italiano
femminile = donne
maschile = uomini,
persone non binarie,
referenti indeterminati

b. Italiano inclusivo
femminile = donne
maschile = uomini
neutro = persone non binarie,
referenti indeterminati

Se il genere grammaticale è un’estensione di quello naturale, perché il sistema in (6b) non è migliore del precedente (6a), in quanto più accurato? Avere 3 generi grammaticali non renderebbe la coesione testuale più forte visto che ci sarebbero 3 classi in cui distribuire i referenti invece che 2? Ma soprattutto: perché la conseguenza dell’espansione del sistema di genere grammaticale dovrebbe essere la distruzione totale dei testi in italiano e non invece la riconfigurazione della mappatura tra genere grammaticale e naturale?

Posso dire con certezza che lo scenario in (6) succederà e sarà migliore di quello attuale? No. Ma la mia analisi ha le stesse basi empiriche di quelle contrarie che vi propinano i giornali (anzi, di più, visto che io do esempi concreti e cito della letteratura scientifica) ed è ugualmente valida come speculazione sul futuro dell’italiano.

Per chiudere…

Ci sono quattro problemi con la critica al linguaggio inclusivo basata sulla supposta difficoltà di tracciamento dei referenti:

  1. definizione impropria del fenomeno e della sua frequenza;
  2. mancata considerazione del contributo alla coesione dato da meccanismi alternativi al genere;
  3. sovrastima del ruolo del genere grammaticale nella disambiguazione dei referenti;
  4. definizione delle premesse teoriche così vaga che permette una conclusione opposta a quella proposta.

Nell’articolo che vi ho linkato all’inizio, l’intervistata (prof.ssa Cecilia Robustelli) sostiene di essere contraria alla schwa per motivi tecnici visto il “pericolo di sostituire con un simbolo il genere grammaticale”. Quale è il pericolo e quali sono i passaggi concreti con cui ci arriveremo? Una teoria scientifica sa rispondere a questa domanda, altrimenti siamo davanti a un esempio di panico morale.

Si può scrivere un testo comprensibile senza usare il genere grammaticale quando non è rilevante. Se ne volete una prova potete tornare all’inizio di questo post e ricominciare a leggerlo facendo caso alle forme che uso. Qualcunə pensi ai referenti!

Linguaggio inclusivo e panici morali

giovedì, Ottobre 2nd, 2025

Aspettando sulla riva del fiume…

Tra il 2021 e il 2022 il giornalismo italiano, l’Accademia della Crusca, e numerose figure pubbliche legate alla produzione culturale del paese hanno fomentato un “dibattito” contro la “dittatura del politicamente corretto” e l’uso del linguaggio inclusivo sostenendo (anche contemporaneamente) due scenari contraddittori:

  1. il linguaggio inclusivo sarebbe divenuto così onnipresente da distruggere le strutture comunicative dell’italiano (chi lo sostiene non si rende conto della pericolosità della proposta);
  2. le forme inclusive sono inapplicabili al sistema morfosintattico della lingua italiana e non attecchiranno mai (chi le propone non capisce che i veri problemi sono altri).

A tre anni di distanza nessuna di queste previsioni si è rivelata corretta. La cultura italiana non è collassata, le nuove generazioni non hanno perso la capacità di articolare critiche politiche, chi non usa le forme inclusive sul posto di lavoro non ha subito conseguenze materiali. Soprattutto, il linguaggio inclusivo non è scomparso.

In un dibattito in buona fede, mi aspetterei a questo punto delle rettifiche. La ricerca scientifica d’altra parte richiede che le teorie si adeguino al dato, non viceversa. Il fiorire di pubblicazioni al vetriolo sull’argomento però chiaramente non serviva ad avanzare un dibattito, quanto a lanciare carriere da “intellettuale scomoda” e candidature politiche. E questo quindi diventa un buon momento per guardare indietro e capire le dinamiche che hanno portato una parte non indifferente del movimento italiano a lasciarsi imporre i termini del dibattito da figure che lo usano per impacchettare posizioni reazionarie.

I giornali italiani hanno proposto queste figure come portatrici di posizioni sofisticate e imparziali alle quali non era possibile opporre controargomentazioni scientifiche. Inoltre, il dibattito è sempre stato presentato come una questione “tecnica”, puramente legata alla lingua, un dibattito dove certo non si stanno criticando le rivendicazioni transfemministe (lo sentite qui il “ma” che arriva?). Invece non solo le controargomentazioni scientifiche esistono, ma la critica al linguaggio inclusivo nostrana ha seguito metodi e argomentazioni della peggiore destra reazionaria statunitense, spesso citandone gli autori di punta. Jordan Peterson, Greg Lukianoff, Jonathan Haidt, Steven Pinker, Yascha Mounk non sono partecipanti in buona fede a un dibattito contro il “wokismo”, sono figure che beneficiano economicamente dalla partecipazione a un sistema mediatico repubblicano che esiste unicamente per fabbricare controversie di stampo culturale.

Dalla riva del fiume dove ho diligentemente atteso per tre anni, ho messo assieme una serie di prove per dimostrare che la battaglia al linguaggio inclusivo altro non era che una forma di panico morale che è stato supportato da attori diversi per motivi diversi. Il governo come strumento di distrazione, la Crusca come maniera per garantirsi le simpatie del governo, i docenti di italianistica coinvolti per mantenersi rilevanti nel panorama accademico (nessuno degli autori di cui parlerò nei prossimi post si è occupato di linguistica di genere prima o dopo la pubblicazione del proprio libretto contro il linguaggio inclusivo), alcuni compagni perchè non hanno compreso l’importanza della questione e altri perchè non vedevano l’ora di poter finalmente dire ad alta voce qualcosa di misogino.

Fenomenologia di un panico morale

I panici morali presentano quattro caratteristiche sistematizzate in un modello dal giornalista statunitense Michael Hobbes. Le critiche al linguaggio inclusivo in Italia possiedono tre di questi elementi.

Elemento 1: Scollamento tra la gravità del fenomeno e le sue conseguenze osservabili.
Le conseguenze dell’uso del linguaggio inclusivo sono molte, sono varie, e sono sempre tutte gravissime. Questo articolo è un prototipo dei termini con cui i giornali italiani (legittimati dai membri della Crusca) discutevano la questione. Vista la gravità del fenomeno, ci aspetteremmo di poter osservare facilmente le terribili conseguenze paventate.

Per esempio, il linguaggio inclusivo dovrebbe causare la frattura del sistema di accordo basato sul genere grammaticale e portare all’eventuale impossibilità di comprendere l’italiano. Sono tre anni che si usano forme inclusive sui social media, dove sono le prove che chi legge un testo che le contiene non riesce a comprenderlo? Perchè gli autori dei vari libretti e articoli sul tema in tre anni non hanno dimostrato una cosa così ovvia in pubblicazioni peer reviewed? Nelle interviste sui media nazionali, perchè non vengono portati dati raccolti con osservazione empirica invece di scenari ipotetici inventati da gente che ha un incentivo economico nello stabilirsi come “esperto” della critica al linguaggio inclusivo?

Oppure, la “dittatura del politicamente corretto” doveva risolversi nell’instaurazione di un regno del terrore dove il rifiuto di usare forme inclusive sarebbe stato punito con conseguenze materiali. Andrea De Benedetti dedica un intero libro al “pericolo” del linguaggio inclusivo e riesce a citare un solo esempio del fenomeno, il caso di Jordan Peterson. Anche assumendo che Peterson sia un narratore attendibile della vicenda che lo ha portato a dimettersi dalla sua posizione (non lo è), un singolo caso di contestazione universitaria non dimostra un pattern di discriminazione sistematica. Dove sono i casi sistematici di persone che hanno subito peggioramenti di condizioni materiali per il solo motivo di non aver usato il linguaggio inclusivo? Ci sono decine di pubblicazioni contro il linguaggio inclusivo e testate giornalistiche pronte a coprire il tema con migliaia di parole, eppure gli aneddoti usati sono sempre gli stessi. Non è più semplice accettare che il fenomeno descritto non esiste?

Elemento 2: l’uso di esempi che non si riferiscono al fenomeno sotto analisi
Oltre a usare sempre gli stessi esempi, queste pubblicazioni non riportano mai esempi prototipici del fenomeno per cui larghe fasce della popolazione sono obbligate a usare il linguaggio inclusivo pena conseguenze terribili. Tutti i casi riportati sono notizie di istituzioni che diffondono linee guida promuovendo l’uso del linguaggio inclusivo.

Le linee guida di una commissione sono la forma più innocua di pianificazione linguistica. Le istituzioni le usano in continuazione per garantire coerenza stilistica nelle scelte comunicative. Che cosa dovrebbe dimostrarci il fatto che una commissione ha scelto di usare la schwa? Non esiste nessuna sanzione per obbligarne i membri a usare questa forma. Ogni università dove ho lavorato suggerisce un formato preciso per la firma da aggiungere alle e-mail inviate dall’account istituzionale. A volte i suggerimenti includevano espressioni che mettevano un lavoro di virtue signaling per università a carico della mia reputazione scientifica e non le ho adottate. Ci sono state zero conseguenze.

Il governo ha di recente proposto una legge impossibile da applicare che si proponeva di sanzionare l’uso dell’inglese da parte di cariche pubbliche. La legge aveva il chiaro obiettivo di restringere l’accesso alle istituzioni culturali del paese a persone non parlanti italiano e di silenziare il discorso pubblico attorno ad alcuni temi per cui la terminologia in italiano non è d’uso comune (e.g., il dibattito sulla gender affirming care). Se esiste in Italia una “dittatura linguistica”, questa legge è un esempio molto più appropriato del fenomeno di quanto lo siano le linee guida interne di un gruppo di lavoro.

Elemento 3: l’uso di analogie vuote e la fallacia del piano inclinato
In The coddling of the American mind Haidt e Lukianoff paragonano le proteste studentesche nei campus statunitensi al movimento delle Guardie Rosse di Mao sulla base del fatto che entrambi i movimenti coinvolgono persone giovani che hanno rivendicazioni politiche. L’utilità di un’analogia sta nella possibilità di generalizzare i passaggi che portano dal caso A al caso B, non nel presentare un’astrazione di così alto livello da essere sempre applicabile. In questo caso, chiaramente chi legge interpreta l’analogia come una critica alla violenza dei movimenti studenteschi statunitensi, ma quando ai due autori si fa notare che questa violenza è inesistente, loro possono dire che l’analogia era basata sull’età anagrafica dei membri dei due gruppi.

Nel contesto del linguaggio inclusivo, la retorica della brutta china più citata è quella della neolingua descritta da George Orwell in 1984. L’uso del linguaggio inclusivo aprirà la porta alla manipolazione del pensiero in chi la usa ed eliminerà la capacità di pensiero critico. Questa analogia per funzionare deve ignorare il dettaglio che la neolingua è imposta dall’alto da uno stato onnisciente e onnipotente e il linguaggio inclusivo è proposto dal basso da gruppi senza supporto istituzionale. Le due situazioni sono identiche solo se credete che la critica al potere di sorveglianza costante sulla popolazione non fosse un tema nel libro. Il punto di un’analogia è trovare la categoria per cui ha senso che due cose siano accomunate, se eliminiamo abbastanza dettagli, allora possiamo far derivare conseguenze arbitrarie da tutto quello che vogliamo.

Elemento 4: l’uso fuorviante di statistiche
L’unico motivo per cui il panico sul linguaggio inclusivo in Italia non presenta questa caratteristica è che il giornalismo italiano non richiede mai di fornire dettagli, dati, o dimensioni quantitative del fenomeno di cui si sta parlando. Dove si usa il linguaggio inclusivo? Chi lo usa? Quanto lo usa? Non si sa: è la più grande minaccia che l’italiano ha dovuto fronteggiare negli ultimi anni, ma non abbiamo informazioni specifiche sul fenomeno.

Che fare?

Se avete partecipato al panico morale contro il linguaggio inclusivo da posizioni anarchiche o comuniste, vi hanno truffato. L’idea che la pianificazione linguistica sia inutile o dannosa è inconciliabile con la tradizione anarchica (vedi l’esperanto fuori d’Italia) e con la letteratura marxista (vedi l’egemonia culturale di Gramsci). La conseguenza di aver lasciato che ci venissero dettati i termini del dibattito da attori in cattiva fede è stata la perdita di una parte della storia di movimento. La storia del linguaggio inclusivo in Italia non nasce nel 2020 su Instagram. Dal 2000 a oggi, con varie ondate, gruppi diversi (e non solo legati al transfemminismo) sperimentano soluzioni originali e convergono independentemente l’uno dall’altro su strategie che permettano una comunicazione inclusiva. Il fatto che la questione sia diventata di dominio comune non dovrebbe lasciare che anche la storia venga riappropriata.

In Italia l’idea che la linguistica sia una disciplina fortemente politica fatica a prendere piede, anche per la mancanza di figure che abbiano prodotto una critica sistematica del lascito ideologico del fascismo sull’italianistica (la prima cattedra di italianistica viene aperta nel 1937 a Firenze). In questo contesto, non sono state articolate posizioni scientifiche favorevoli al linguaggio inclusivo che si integrassero con il resto delle lotte. Questo significa che si sono prese per buone le posizioni di figure che rifiutano di accettare il ruolo politico della scienza. Peggio, nel fingere che si potessero accettare come “tecniche” delle critiche puramente misogine e transfobiche abbiamo lasciato passare posizioni classiste e antimeridionaliste.

Sono anni che modelli e teorie linguistiche sono tirati in ballo per dare rispettabilità scientifica a quella che è una semplice posizione ideologica. Non c’è bisogno che conosciate i meccanismi di funzionamento della lingua per supportare l’uso del linguaggio inclusivo e non c’è bisogno di perdere tempo con gente che fa il leone marino. Al tempo stesso, l’invito a “aprire Google e informarsi” non è davvero applicabile in assenza di materiali divulgativi che smontino queste critiche mantenendo una prospettiva politica. Quindi vorrei usare la mia formazione per creare un database di risposte alle critiche tecniche al linguaggio inclusivo. La speranza è che possiate usare queste pagine come scorciatoia e dirigere le vostre energie sulle altre lotte che seguite ogni giorno.