Costruisci anche tu il tuo panico morale

Ho scritto in precedenza che il dibattito sul linguaggio inclusivo ha seguito le dinamiche di un panico morale. Il modello che utilizzo per definire i confini di un panico morale è stato teorizzato dal giornalista Michael Hobbes e prevede quattro elementi:

  1. lo scollamento tra la supposta gravità del fenomeno e le conseguenze effettivamente osservabili
  2. l’uso di esempi non pertinenti al fenomeno discusso
  3. l’uso di analogie vuote per supportare la retorica della brutta china
  4. l’utilizzo fuorviante di statistiche

Questo modello ha il vantaggio di essere basato su quattro parametri semplici da identificare. La copertura mediatica dei fenomeni legittimamente problematici non ha bisogno di utilizzare queste strategie e infatti una veloce ricerca dei termini “morti sul lavoro in Italia” vi conferma uno stile comunicativo molto diverso. Sulla questione del linguaggio inclusivo invece stiamo ancora aspettando di sapere: 1) quali rischi concreti introduce per la lingua italiana o per chi la parla; 2) quali prove abbiamo di questi rischi; 3) la dimensione quantitativa del fenomeno. Con una risposta a queste tre domande si può discutere dell’utilità di una data soluzione, senza questo contesto siamo di fronte a pura speculazione.

Step 1: i contenuti del panico morale

Nell’ottica di abituarvi a pensare a questo modello teorico quando incontrerete altre pubblicazioni sul tema del linguaggio inclusivo, vorrei dare un esempio pratico di come uso questo strumento. Come caso di studio prendiamo il pamphlet di Andrea De Benedetti Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo. L’ho scelto perchè nel campo delle pubblicazioni “anti-schwa” è generalmente considerato un saggio con argomentazioni solide (se volete farvi un’idea della competizione leggetevi le recensioni al lavoro di Massimo Arcangeli scritte da gente che ne condivide la posizione). Nel procedere al resto del post ricordatevi quindi che questa pubblicazione è considerata una delle più solide sul tema.

Quali sono le conseguenze del fenomeno discusso? Quanto gravi sono?

Il libro si apre con queste parole: “Il cammino verso il linguaggio inclusivo è lastricato di buone intenzioni. Ma non di rado conduce anch’esso all’inferno.” (pg.3). L’inferno consiste in questi UNICI casi:

  • Beatrice Venezi (2021) e Irene Pivetti (1994) sono state criticate per la propria scelta di utilizzare delle forme maschili parlando di sè (pg. 23). Nessuna delle due perde il lavoro per questa scelta. Pivetti al tempo era parlamentare e continuerà ad esserlo anche dopo le critiche.
  • La gente che usa la schwa considera male chi non la usa (pgg. 66-72). Tutti gli esempi forniti in queste pagine sono speculazioni di come l’autore si immagina possibili interazioni sociali tra chi usa la schwa e chi non la usa.

Al 2022, le conseguenze infernali del linguaggio inclusivo sono: 1) la posizione politica di alcune figure pubbliche viene criticata in pubblico, e 2) la gente usa le vostre scelte linguistiche per farsi un’idea di voi. Sono conseguenze che impattano l’uso della lingua italiana da parte della popolazione? No. Infatti sono conseguenze quasi inevitabili di vari fenomeni linguistici (vedi il rapporto tra Giorgia Meloni e l’accento romano).

Per contrasto, prendiamo dal 2021 (anno di scrittura del libro) un esempio di fenomeno che ha impattato i diritti linguistici di una parte di popolazione. Nel 2009 l’Italia ratifica la convenzione delle Nazioni Unite che garantisce il diritto delle persone sorde ad accedere ai servizi di interpretariato negli eventi pubblici. Per oltre dieci anni, la convenzione non viene implementata e solo nel 2021 viene garantito il diritto all’interpretariato in lingua Italiana dei segni (lis). Fino al 2021, i percorsi formativi per interpreti di lis non erano standardizzati e l’accesso all’interpretazione doveva di fatto essere richiesto per ogni singola occasione. Questo è un fenomeno linguistico che impatta materialmente la vita delle persone.

Quanti esempi non pertinenti al fenomeno appaiono nel libro?

Vari. Ma ce ne sono due in particolare che rendono legittimo dubitare della buona fede o della competenza in materia dell’autore.

Il primo caso dovrebbe essere un esempio del fatto che chi supporta il linguaggio inclusivo spesso non è fedele alle proprie convinzioni. Dimostrare che la gente non sa usare il linguaggio inclusivo non equivale a dimostrare che il linguaggio inclusivo sia inutile o dannoso. Ma anche accettando l’esempio come pertinente, il caso presentato non si svolge nei termini in cui viene ricostruito dall’autore e riguarda una situazione in cui la schwa non andava usata. In una sezione sull’uso della schwa come marca non binaria (pgg. 43-44), De Benedetti critica le scelte linguistiche di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri nel parlare delle sorelle Wachowski in una puntata di Morgana. Nel podcast, le Wachowski sono riferite al femminile, eccetto in porzioni di storia dove si fa riferimento al loro passato, per cui si usano i deadname e i pronomi maschili. Murgia e Tagliaferri vengono criticate per la scelta di aver usato il maschile nel parlare del passato delle registe. La scelta di usare i pronomi “assegnati alla nascita” per parlare del periodo precedente alla transizione pubblica di una persona è una pratica criticata dalle persone trans e ormai generalmente sconsigliata ai media.

De Benedetti interpreta la critica ricevuta da Murgia e Tagliaferri come una critica al mancato uso della schwa e le accusa di non aver seguito a fondo le proprie convinzioni nel “sottolineare l’identità fluida” delle sorelle Wachowski. La critica originale non propone l’uso della schwa. Infatti, quando Murgia risponde a mezzo Instagram che il testo della puntata era originariamento scritto con la schwa, che è poi stata eliminata per difficoltà di pronuncia, viene nuovamente criticata per non aver capito il punto della questione. Le sorelle Wachowski non sono persone non binarie, sono donne trans. Le forme di riferimento da utilizzare sono femminili. L’autore del libro sembra non aver capito quali sono i casi d’uso della schwa.

Il secondo caso invece potrebbe essere l’esempio più forte a sostegno dell’argomentazione del libro, se non fosse che invece è solo indicativo di come l’intero impianto di critica alle varie forme di politicamente corretto si regga sul nulla. In una sezione sul “dirigismo” di chi supporta la schwa (pgg. 65-66), l’autore cita in una nota il caso di Jordan Peterson. Dalla descrizione fornita, questo sembrerebbe essere l’UNICO caso dell’intero libro in cui una persona che non ha rispettato il linguaggio inclusivo ha subito conseguenze materiali. Peterson ci viene presentato come un professore contro cui è stata avviata un’azione disciplinare per aver dichiarato che non avrebbe usato pronomi neutri in classe. Perchè mettere l’esempio più forte a supporto dell’argomentazione del libro in una nota?

Beh perchè la vicenda originale non si è svolta così. Potrei fermarmi qui dicendo che la fonte citata era il Foglio. Nel 2016 Peterson diventa una figura di riferimento della destra nordamericana per le sue critiche alla legge Bill C-16, che espande la lista di aggravanti per i crimini d’odio a includere “identità ed espressione di genere”. Durante il 2017 Peterson viene contestato in università e ne nasce una controversia che finisce sui giornali nordamericani alimentata dalla destra reazionaria. L’Università di Toronto risponde in pubblico difendendo il diritto di Peterson a esprimersi come vuole. In privato gli chiede di riconsiderare le modalità di comunicazione pubblica perchè persone trans e non binarie in campus hanno iniziato a ricevere minacce di morte da gruppi che lo citano come ispirazione. Peterson rifiuta, gira la lettera ai giornali, e continua a insegnare fino al 2021, quando si dimette in polemica con le iniziative di diversity, equity, and inclusivity varate dall’università. Per quanto possa risultare fastidiosa, una comunicazione privata dove si chiede a un professore di considerare il proprio ruolo indiretto nell’escalation della violenza contro una parte del corpo studentesco non è un’azione disciplinare.

L’inclusione di questi esempi sembra suggerire che l’autore: 1) non abbia gli strumenti teorici per comprendere il discorso attorno alla forma linguistica che sta criticando; 2) non abbia reputato necessario verificare l’attendibilità delle informazioni che riporta. In ogni caso suggerisce anche che la casa editrice non sembra avere problemi con nessuna delle due pratiche al momento di approvare la pubblicazione del libro.

Quali analogie vengono usate per descrivere il fenomeno? Sono commisurate al fenomeno?

A venti pagine dalla fine (pgg.67-68), De Benedetti finalmente decide di dimostrare che il dibattito sul linguaggio inclusivo è effettivamente il fenomeno culturale più importante del paese. Le prove sono due: il libro che sta scrivendo (tautologico) e il fatto che all’Università di Torino nell’anno 2020-21 ci sono state 36 tesi dedicate a lingua e questioni di genere (il totale non è dato). L’autore evidentemente si accorge a questo punto che i dati non sono indicativi di un problema e chiude la sezione con la frase “L’Inquisizione, diciamo, era un’altra cosa” (pg. 67). Il che mi porta a porre la domanda che avrei voluto venisse fatta almeno una volta all’autore: perchè questo libro non è stato dedicato a un problema reale?

Le statistiche riportate sono corrette?

La maggior parte dei dati quantitativi presentati in questo libro non è neanche sbagliata. Ci credo che 36 tesi dell’Università di Torino nel 2020-21 siano state dedicate al linguaggio inclusivo (pg. 67). Non credo che questo dato fornito in termini assoluti voglia dire qualcosa, nè che le tesi (e i trend di ricerca in generale) siano un buon indice dell’importanza di un fenomeno nella società. Ci credo che in Italia il 52% delle persone con un dottorato siano donne (pg. 28). Non credo che questo fatto dimostri che la presenza del maschile non marcato nei bandi di concorso non abbia un effetto sulle dinamiche di assunzione delle ricercatrici. Non credo neanche che dimostri il contrario, ovvero che l’effetto esiste, nè che se esiste sia un effetto significativo. Il dato presentato così non dimostra niente.

Il libro fatica parecchio sulla contestualizzazione della ricerca linguistica. Per esempio, viene citato uno studio della ricercatrice Chiara Cettolin (penso ci si riferisca al grafico di pg. 56) dove l’autrice studia l’effetto del genere grammaticale sulla rappresentazione mentale di alcune categorie. L’esperimento chiede di elencare tre nomi di persone famose appartenenti a una categoria. A un gruppo si presentano le categorie con la forma maschile neutra (es. “presentatori TV”), a un altro con la forma doppia (es. “presentatori e presentatrici TV”). I risultati mostrerebbero che il numero di donne menzionate aumenta nel caso in cui si usi la doppia forma. Secondo De Benedetti, “com’è naturale, la percentuale di donne menzionata è risultata superiore” nel secondo caso (pg. 30). Questo risultato viene interpretato come un supporto alla posizione dell’autore, ma il risultato è naturale solo se crediamo che le forme grammaticali abbiano un effetto sulla maniera in cui viene categorizzato e percepito il mondo, ovvero se ha ragione chi supporta il linguaggio inclusivo. Se crediamo che non ci siano effetti del genere grammaticale sulla rappresentazione delle donne, ci aspetteremmo che non ci sia differenza nei risultati.

Dopo aver interpretato i risultati come “naturali”, De Benedetti aggiunge che comunque non spiegano come mai, anche nel caso della doppia forma, siano menzionati più uomini che donne (pg. 31). E qui è bene ricordare che non ci sono persone reali che credono che la discriminazione di genere si esprima unicamente nel linguaggio. Cettolin non sta cercando di dimostrare che il genere grammaticale è l’UNICO fattore di discriminazione, sta cercando di capire se si possa isolare un contributo specifico del genere grammaticale alla discriminazione di genere. Mettiamo due fattori A e B che in natura spiegano rispettivamente il 90% e il 10% di un fenomeno. Questa è ora la distribuzione normale contro cui valuto l’effetto che sto studiando. Se nella condizione sperimentale registro che adesso A spiega il 70% del fenomeno e B il 30%, probabilmente l’effetto già esiste. Non ho bisogno di arrivare a percentuali completamente invertite per iniziare a pensare che un effetto ci sia. La discriminazione di genere che agisce sul mondo è chiaramente la maggior responsabile dell’esistenza di “più uomini presentatori” e questo è il motivo per cui ANCHE quando c’è la doppia forma vengono nominati più uomini. Ma tra le due condizioni il numero di “donne presentatrici” che esistono nel mondo non cambia, quindi se per essere nominate le donne devono essere esplicitamente riferite con il femminile, significa che il motivo per cui non vengono menzionate non è SOLO la quantità ridotta.

Step 2: elementi di stile

In aggiunta ai contenuti, ci sono tre elementi attinenti alla retorica e al modo in cui le informazioni vengono presentate che aiutano a collocare l’opera come un esempio di panico morale.

Il primo elemento è la costruzione di argomenti fantoccio a sostegno della propria posizione. De Benedetti sostiene che “i significati sono più importanti dei significanti”, ovvero che la discriminazione è fatta di pratiche materiali che hanno conseguenze più tangibili di quelle create dalle forme linguistiche. Io non ho MAI sentito gente sostenere il contrario. Ho sentito gente dire che il linguaggio inclusivo è UNA delle proprie pratiche di lotta. D’altra parte verrebbe da chiedere all’autore chi pensa sia in piazza a combattere la “battaglia sui significati” se non la stessa gente che combatte quella sui significanti. Gli unici gruppi che supportano il linguaggio inclusivo a scapito del miglioramento di condizioni materiali sono istituzioni e aziende multinazionali. Al che riformulo la domanda di prima: se il vero problema sono le forme sistemiche di discriminazione, perchè questo libro non è dedicato al fatto che istituzioni e aziende usano la retorica attorno al linguaggio inclusivo come strumento per depotenziare le lotte anticapitaliste?

Il secondo elemento è il continuo scarto argomentativo che permette all’autore di non dover mai giustificare la propria posizione in maniera dettagliata. De Benedetti apre il libro dicendo che il linguaggio inclusivo è pericoloso e lo chiude dicendo che il fenomeno può essere ignorato tanto non attecchirà mai. Lo scarto di posizione inizia nel capitolo 3 e si conclude di fatto a pagina 67 con l’ammissione esplicita che l’autore sta partecipando alla costruzione di un panico morale. L’effetto che cerca è quello di sostenere che da accademico pensa che la schwa sia inutile, ma da autore deve scrivere il libro per via delle intense polemiche sulla questione. Ma le polemiche sono state interamente fabbricate da libri come questo. Prova ne è che la sua ricostruzione della storia della schwa (pg. 20) inizia nel 2019 con la pubblicazione di un lavoro della sociolinguista Vera Gheno. Le sperimentazioni sul tema erano iniziate nel 2000 e l’unico motivo per cui la polemica in 20 anni non era mai sorta è che oggi esiste un intero apparato di figure legate alla produzione culturale che guadagnano dalla creazione di panici morali contro il politicamente corretto.

L’ultimo elemento è la decontestualizzazione di concetti scientifici presi dalla teoria linguistica che sono presentati per legittimare l’autore come un’autorità in materia. Mi limito a un esempio. A pagina 45 si dice che la schwa non può attecchire in italiano perchè lede il principio di economia delle lingue, secondo cui le lingue tendono sempre verso la semplificazione delle forme. Magari dedicherò un post specifico a questo concetto, ma per ora mi basta notare che avere due forme grammaticali invece di tre non vuol dire avere un sistema più semplice. In parte perchè la definizione di complessità di una lingua cambia a seconda del livello del sistema che state osservando. Una semplificazione nella morfologia, potrebbe aumentare la complessità nella sintassi. Il “Problema 4” di questo post è un esempio di questa relatività. Avere due forme grammaticali (maschile e femminile) è “meno complesso” per la morfologia italiana, ma avere una terza forma neutra potrebbe rendere “meno complesso” il tracciamento dei referenti. Il punto è che chi legge il libro non sa che il principio di economia è solo UNO dei principi per cui si può spiegare il cambiamento linguistico. Esistono principi che vanno in direzione opposta e quindi dire che la schwa viola questo principio non equivale a dimostrare che la sua integrazione nel sistema sia impossibile, solo che esiste un fattore contro a questa possibilità. Senza il contesto teorico è difficile che chi legge sia in grado di valutare la solidità di questo argomento.

In conclusione

Questo post voleva essere un esempio di come leggere criticamente un testo per capire se è legittimo o solo materiale di supporto a un panico morale. I passaggi nello Step 1 sono alla portata di chiunque, alcune delle questioni che ho manzionato nello Step 2 invece richiedono che conosciate la materia e sono più difficili da scovare.

L’introduzione del libro contiene quella che essenzialmente è la descrizione di come funziona la fabbricazione di ammunizione culturale per i panici morali. Dalla prima idea alla pubblicazione del libro passa poco più di un anno. Non mi risulta che l’autore si fosse mai occupato di linguaggio e genere prima di mettersi a scrivere, il che significa che la fase di ricerca per il libro è durata pochi mesi. Per me queste sono altre red flag.

Vorrei che questo post avesse una funzione di creazione di record. L’ossessione sul linguaggio inclusivo del biennio 2021-22 non ha solamente colpito i gruppi transfemministi e alimentato la retorica di gerarchia delle lotte. Ha anche distolto energie dalla copertura di storie di accessibilità, inclusione, e linguaggio che hanno conseguenze pesanti sulla vita delle persone (come quella del linguaggio italiano dei segni menzionata in questo post). In quest’ottica, è importante ricordarsi di chi ha partecipato attivamente alla creazione di questo panico morale.

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